La Sicilia e il Vaiolo. La Sicilia avamposto della campagna di vaccinazioni antivaioloso
La polemica sull’obbligo della vaccinazione ha riportato l’attenzione su una pratica a lungo controversa, che si afferma in mezzo agli anatemi papali: è Leone XII a tuonare che affidando la propria vita alla vaccinazione si cessava d’essere figli di Dio e si sfidava il Cielo. Per fortuna qualcuno la pensava diversamente. E nella Sicilia di inizio ‘800, che facilmente immaginiamo retrograda, avviene la prima vaccinazione di massa della storia italiana ad opera di sovrani spesso sorprendenti come Ferdinando Borbone e Maria Carolina.
Siamo nella primavera dell’anno di grazia 1801, è il 14 marzo quando con un vascello della Royal Navy arriva a Palermo il dottor Joseph Andrew Marshall: nemmeno in Inghilterra sono tutti d’accordo, ma ha comunque l’incarico di vaccinare contro il vaiolo le truppe inglesi stanziate in Sicilia. Una missione impegnativa. A Palermo il vaiolo sembrava proprio un castigo divino, aveva da poco provocato migliaia di morti. Ottomila scrivono le fonti. I sovrani erano a favore della vaccinazione, avevano perduto dei figli nelle ricorrenti epidemie ed erano decisi a cercare di bloccare il contagio. Lo stesso re s’era sottoposto a una pratica non troppo sicura chiamata “inoculazione”: dalle croste di un ragazzo affetto da vaiolo in forma benigna si prelevava un piccola quantità di pus, col quale si infettavano dei graffi provocati sul braccio della persona da immunizzare. Da quel 1778 in cui il re s’era fatto “variolizzare” erano passati più di vent’anni e nel 1796 Edward Jenner aveva scoperto che l’inoculazione diveniva più sicura usando il più blando pus del vaiolo vaccino: era nata la vaccinazione.
Intanto, ricostruisce Carlo Knight in un saggio sulla vaccinazione di Ferdinando, il dottor Marshall s’era procurato il necessario pus fresco inoculando il vaiolo vaccino a un mozzo e due ragazzi appositamente imbarcati. Marshall era un allievo di Jenner, e i sovrani che aspettavano solo l’occasione giusta gli chiedono di procedere alla vaccinazione di massa. Nella relazione presentata alla londinese Camera dei Comuni il 30 marzo 1802, è lo stesso dottor Marshall a riferire come venne organizzata.
L’ex seminario dei Gesuiti, l’odierna Biblioteca regionale, è trasformato in Istituto di vaccinazione jenneriana e, nelle parole di Marshall, “non è inconsueto assistere, nel corso delle mattinate dedicate alla vaccinazione pubblica, a processioni di uomini, donne e bambini guidati lungo le strade da un prete che porta un crocifisso per accompagnarli alla seduta”. A dispetto dello stesso pontefice, i preti che vivevano in mezzo al popolo erano per la vaccinazione e la loro opera di assicurò il successo di tutta l’operazione. Fu messa in piedi un’organizzazione che coinvolgeva anche i medici delle altre città, a loro venne ordinato far vaccinare i tanti orfani e trovatelli delle loro giurisdizioni: un “pubblico inoculatore” avrebbe compiuto tutte le operazioni sotto i loro occhi, e si formava così un buon numero di medici esperti nella pratica della vaccinazione. Si puntava a vaccinare soprattutto bambini, che erano i primi a essere colpiti dalla malattia e nei rari casi in cui riuscivano a sopravvivere rimanevano ciechi o deformi. Inoltre l’operazione “da braccio a braccio” non era esente da rischi, il pericolo era che si trasmettessero anche altre malattie come la sifilide. Quindi i bambini meglio se piccolissimi, e nella diffusione della pratica fu essenziale la collaborazione delle levatrici che, avendo la fiducia delle mamme, anche a distanza di tempo dal parto riuscivano a convincerle a far vaccinare i loro bambini.
In meno di un anno il dottor Marshall supportato dal sistema sanitario borbonico riuscì a vaccinare oltre diecimila bambini. Una volta partito il medico inglese si continuò a lavorare con la guida del medico di corte Michele Troja, le Osservazioni sopra il vajuolo vaccino stampate a Palermo dal dottor Marshall erano il testo di riferimento per una piccola pattuglia di medici fra cui si distinse Giovanni Bellina. Così, mentre a Palermo le vaccinazioni si effettuavano un giorno la settimana presso l’Ospedale Civico, al Bellina venne data la missione di “inoculare in tutti i paesi, di esser l’apostolo della vaccina”, si leggeva nel 1839 nelle “Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia” che nel ricostruirne i fatti riconosce come i medici “degnamente risposero agli incarichi ricevuti”.
Nel 1803 Giovanni Bellina pubblica a Palermo le Istruzioni generali pratiche per il nuovo metodo di inoculare il vaiolo, ma deve avere avuto i suoi problemi se ancora nel 1839 le Effemeridi scrivono di un’ostinata ignoranza che ne contrastò il successo “malgrado i dotti e il fatto la smentissero ad ogni istante”. Ma il governo era attento. Nel 1812 dispose che la Deputazione generale de’ proietti, che s’occupava dei tanti bambini abbandonati ed era un organo centralizzato, sorvegliasse le vaccinazioni nei Comuni; si dispose inoltre che nelle Università di Palermo e Catania non ci si potesse laureare in medicina se non si dimostrava di “essere appieno versati nello esercizio pratico dell’innesto”. Nel 1818 venne creata a Palermo una Commissione centrale di vaccinazione, nelle altre città c’erano le Commissioni provinciali. Venne pubblicato un periodico, il Giornale di vaccinazione per la Sicilia, che ancora usciva nel 1847.
Non per questo cessarono “le tristi parole del volgo”. Forse perché, suggerivano le Effemeridi, l’allontanamento delle epidemie di vaiolo prima così frequenti aveva diluito il ricordo: il vaccino aveva lasciato in vita anche i suoi più ostinati detrattori.