La storia della storia dell’alimentazione in Sicilia (XIV -XIX SEC.) – Seconda parte
La realtà della Sicilia medievale
Le ricerche sulla realtà della storia della cucina della Sicilia medievale rimangono ferme alle ricerche quantitative di Bresc e di Aymard degli anni ’70. Solo recentemente si è avuta una svolta in quanto Henri Bresc ha affrontato il problema nel suo complesso, ampliando le sue ricerche che pubblica nella collana Frammenti della casa editrice Unipapress (H. Bresc, Il cibo nella Sicilia medievale, Palermo, 2019).
In particolare, Bresc scrive:
La storia dell’alimentazione medievale è stata rivisitata due volte durante il mezzo secolo passato: dall’immagine pietosa, terzomondista, di un medioevo travagliato dalla carestia, si è arrivati ad un’immagine ben definita di un Medioevo che non ignora le crisi, ma valorizza gli equilibri tra domanda e offerta. Gli studi si sono allora concentrati sulla disponibilità delle risorse e sul consumo quantitativo. Un secondo momento ha visto l’emergere dello studio approfondito della cucina medievale, della sua qualità. Si può ora provare a mettere insieme queste problematiche per un’isola che conserva una documentazione ricca sulla produzione agricola, sulle masserie, sull’allevamento, sugli orti e sui giardini e anche sulla pesca, e che rimane povera invece per la parte che riguarda cucina e gastronomia. Queste ultime si possono però integrare in un insieme, la cultura culinaria meridionale, illuminata dai libri di ricette legati alla Corte napoletana degli Angioini e poi a quella, itinerante, di Alfonso V il Magnanimo.
La conclusione alla quale perviene il Bresc è che la cucina siciliana medievale nella sua produzione delle singole pietanze si costruisce mettendo insieme la tradizione araba e quella franco-lombarda con numerose contaminazioni francesi e catalane.
La lettura del libro di Bresc apre tanti fronti di comparazione tra le diverse esperienze culinarie facendo ricorso alla lettura delle ricette coeve. La presenza della pasta sulle tavole si diffonde dalla Sicilia per tutta l’Italia meridionale; il consumo delle lumache coinvolge sempre più realtà con una preparazione molto articolata: prima bollite con rosmarino, finocchio, prezzemolo, menta e pepe e poi estratte e fritte.
Diventa indispensabile il ruolo del Capocuoco, del maestro cuoco al quale è affidata la gestione della cucina, l’elaborazione dei piatti e anche l’invenzione delle varianti.
L’altro problema da non sottovalutare nell’organizzazione della cucina della Sicilia medievale è quello della disponibilità di una struttura atta a cucinare. Il fuoco a fiamma libera, anche nei secoli successivi al medioevo, rimane l’unica forma di energia disponibile per cucinare. L’introduzione della canna fumaria della “ciminia” razionalizza la struttura della cucina nella quale si prevede la presenza di uno o più “cufulari” (fornelli in muratura) e il forno, ma non risolve i problemi della complessità delle procedure manipolatrici legati a questa organizzazione della cucina che utilizza questo tipo di energia.
Il cibo di strada – o per meglio dire il cibo da asporto – ha una sua logica in questa struttura di organizzazione della cucina familiare, che necessitava di spazi di sicurezza e richiedeva un impegno di tempo e di fatica non indifferente da parte di chi nel nucleo familiare si dedicava alla cura del focolare. Durante il periodo estivo si può accendere il fuoco nel cortile comune, ma in inverno il cibo da asporto è quasi la sola alternativa.
La Sicilia Moderna (sec. XVI-XIX)
La situazione cambia nei secoli successivi. In particolare, i cambiamenti più radicali avvengono nella realtà della gestione delle case nobiliari dove si creano strutture organizzative e gestionali molto articolate in funzione della predisposizione dei pranzi di gala dove devono essere servite dieci o più pietanze in una rappresentazione rutilante che sia collegata al ruolo che la “Famiglia” riveste nella società.
La lettura di Nobiltà alla carta (Nobiltà alla carta. Itinerario turistico-culturale nelle cucine aristocratiche di Palermo, New Digital Frontiers, Palermo, 2019), un libro dove sono raccolti i risultati di una ricerca nata all’interno degli assi progettuali del programma “500 Giovani per la Cultura”. L’articolata introduzione e le note di lettura ci indicano che l’obiettivo della ricerca sia stata quella di analizzare la vita di alcune famiglie aristocratiche palermitane entrando nei loro palazzi e ricostruendone le abitudini alimentari. L’elemento chiave di questo libro consiste nel fatto che il gruppo di ricerca ha utilizzato delle fonti archivistiche quasi del tutto inutilizzati quali i “libri di dispensa” e gli inventari compilati per censire gli strumenti di lavoro conservati nelle cucine dei palazzi. Un approccio nuovo e complesso da sintetizzare ma che è certamente un modello da adoperare, soprattutto per l’utilizzo delle fonti archivistiche, per ricostruire la struttura operativa che faceva vivere il “palazzo”.
In particolare, l’attenzione si è concentrata sui libri di dispensa dei veri e propri libri giornali tenuti dai Maestri di casa nei quali si annotava la presenza del personale di servizio articolato per funzioni e gerarchicamente ordinato in base alle retribuzioni indicate e registrate. Inoltre, viene annotato il costo della cucina sia in termini di rifornimenti della dispensa sia di consumi giornalieri. Altro dato che si può desumere è quello delle liste dei cibi serviti a tavola soprattutto in occasione di ricevimenti.
La lettura del volume è estremamente interessante ma quello che emerge dalla documentazione indicata, che abbiamo consultato anche per il ‘600 e il ‘700, è che la cucina siciliana in un primo momento è condizionata dall’influenza culturale spagnola e che dal ‘700 in poi è profondamente segnata dalla scuola francese come si riscontra dalle ricette e dal vocabolario utilizzato dai Capi cuoco e dai Maestri di casa nell’esercizio delle loro funzioni.