La storia d’Italia, i nuovi italiani e l’integrazione
Qualche anno fa, in coda a una mia conferenza sul Giorno del Ricordo, fui avvicinato da alcune professoresse di Lettere degli istituti tecnici industriali. Nel Vicentino, la manifattura d’Italia. Volevano un parere: i loro studenti serbi, ottimi in tutte le materie, perfetti nella lingua italiana, studiavano storia il minimo indispensabile, appena per la sufficienza. Non sapevano come motivarli e si chiedevano se fosse il caso o no di parlare dei Balcani. Ebbi poi altre occasioni di rilevare sempre nelle aule scolastiche, presso altri giovani, i nuovi italiani, che la loro lingua era sì italiana, ma la storia, legata alle origini familiari, era sempre qualcos’altro rispetto all’Italia.
Nel contempo, insegnando all’università nei corsi di laurea in Lettere, osservo presso gli studenti una scarsa conoscenza della storia d’Italia che non sia la storia più recente, dal fascismo in qua. Così, i giovani italiani e i giovani nuovi italiani o non conoscono o non sono interessati al passato d’Italia. A fronte di tale situazione le scuole e i programmi possono fare poco, considerando le ore di storia a disposizione. Ma soprattutto non c’è un atteggiamento culturale proteso a ragionare sulla complessiva storia d’Italia. È un segno dei tempi. Aurelio Musi ha evidenziato bene che è trent’anni che non si fanno grandi sintesi di storia italiana, e, in compenso, ci si interroga sull’identità italiana. Di certo, nelle università sono rari gli insegnamenti che recano un chiaro riferimento all’Italia.
La storia degli antichi Stati italiani è quasi sparita; rimane la storia dell’Italia contemporanea. Se è normale nel Regno Unito che ci sia la British History, e che uno storico faccia la carriera dedicandosi solo ad essa, e che in molti paesi europei ci siano le cattedre di storia nazionale (le più prestigiose), in Italia non è così. Da un decennio in qua i docenti universitari sono sempre più protesi a studiare, non senza vanto, qualcosa che implichi la dimensione internazionale e a cercare che i risultati siano comunicati fuori d’Italia in lingua “veicolare”. Nulla di male. Se non il fatto che questa tendenza sta diventando un’ossessione.
Di conseguenza, e in molti l’hanno pensato, la scomparsa di Giuseppe Galasso segna la fine di una figura, quella dello storico capace di padroneggiare la storia nazionale italiana nella sua interezza. Galasso è stato l’ultimo grande. Rimangono solo gli specialisti. E rimane la discrasia tra l’orizzonte dei docenti, che considerano la storia nazionale come qualcosa di superato, e il bisogno di storia che ci sarebbe tra gli studenti, che comunque vivono in Italia e non conoscono il passato del proprio paese.
Non bastano i professori dei licei e delle scuole superiori per affrontare questo problema. Essi sono lasciati soli, nel disinteresse delle università, a cercare di dare un senso storico alle nuove generazioni, ai nuovi italiani.
È il loro paziente lavoro che integra, in fin dei conti, i giovani che hanno altre lingue e culture oltre quella italiana. Sono lasciati soli a mediare tra i manuali di storia attenti alle metodologie e poco ai contenuti, a inventarsi le competenze (skills) che in fatto di storia non possono essere altro che la conoscenza storica. Distanti da tali situazioni, che sono la realtà del paese, sono gli storici accademici che rischiano di studiare, come disse un mio caro collega, l’Italia che non ci fu, spesso seguendo o adattandosi a proposte, mode, narrazioni che nascono altrove, per altre politiche e carriere accademiche.
Classico è il caso del canone storico occidentale, ben evidente nei manuali universitari statunitensi, in cui l’Italia compare sotto forma di Roma antica, Rinascimento, Controriforma, fascismo. Parecchia storiografia è stata fatta per rientrare in tali (con)testi. A questo impianto, di molti decenni fa, sono subentrati gli adattamenti ai vari turn recenti, come prova di antiprovincialismo, in un crescendo che lascia dietro, isolate le narrazioni storiche necessarie alla società civile, per non dire nazione.
Eppure, proprio negli Stati Uniti le cose sembra stiano cambiando.
La storica Jill Lepore, autrice di una ottima e ponderosa storia degli Stati Uniti (2018), sottolinea come dalla “fine della storia”, di ormai trent’anni fa, gli storici si sentono e proclamano cosmopoliti, distanti da tutto ciò che possa essere la grande narrazione nazionale. Secondo Lepore, proprio l’assenza di un’ampia visione storica nazionale (la sua va da Colombo a Trump) ha permesso la proliferazione dei populismi come il movimento Tea Party. E sempre di recente David Armitage e Jo Gouldi, nel loro History Manifesto (2014), hanno deprecato la frammentazione e la specializzazione storiografica, spesso fine a sè stessa, richiamando il bisogno della grande narrazione, della visione di lunga durata.
Tutti e tre questi autori (due di Harvard) richiamano la necessità di connettere la riflessione storica (ricerca e rielaborazione) alla vita civile della comunità nazionale.
In Italia si sta formando una società culturalmente complessa, sfaccettata, soprattutto nelle coorti più giovani, immerse nell’eterno presente. Anche qui, come negli Stati Uniti, è opportuna una grande narrazione nazionale, elaborata dall’università fino alle scuole elementari, narrazione che possa integrare nell’oggi e, in prospettiva, in un domani condiviso.