La Storia che piace o la Storia che serve?
Se si da uno sguardo alla stampa, alle riviste, ai libri, ai mass media come la radio e la televisione, alle serie tv o alle opere cinematografiche, al numero di opere storiche pubblicate dalle case editrici e alle vendite relative a tutto il mondo appena citato, il trionfo della storia è innegabile. Secondo molti, si assisterebbe oggi nella società a un «bisogno» di storia. Tale domanda sembra rispondere, perlopiù, a un bisogno di spettacolarizzazione, di ri-costruzione di una realtà passata e, a volte, mai esistita, una realtà che sappia essere eroica e anche mitica. Questo bisogno viene sia da parte degli utenti che da parte dei proponenti, e spesso è accompagnato da un utilizzo immediatamente polemico e politico che stravolge dati, interpretazioni, metodologie a favore di tesi ideologiche senza nessun riguardo per la delicata funzione della storia quale fondamento dell’identità nazionale, individuale e collettiva e presupposto indispensabile della formazione delle giovani generazioni. Partendo dal presupposto che è intoccabile la libertà di espressione e di ricerca, è lecito porsi però il problema di una dimensione civica ed etica della ricerca storica e delle stesse scelte editoriali o si deve lasciare che solo la logica del mercato decida cosa pubblicare? È lecito domandarsi se esista una «gerarchia» di argomenti in relazione alle conseguenze che possono avere le modalità della loro trasmissione e dunque se esistano responsabilità – sia pure diverse – dello storico, dell’editore e dei media che divulgano? La risposta non è facile da fornire, poiché ogni richiamo all’etica può determinare legittimamente sospetti di censura o di attacco alla libertà interpretativa e di parola. Tuttavia bisognerebbe riconoscere che questa libertà non è appannaggio egualitario di tutti, se non formalmente.
È, infatti, tema di dibattito tra gli storici quello che riguarda il condizionamento che i media esercitano sul mestiere di storico, imponendo toni alti e sensazionalistici, da scoop. Ciò è anche conseguenza della frequente confusione tra mestieri e ruoli di storico, di giornalista o di semplice divulgatore, e della facilità con cui ci si appropria dell’etichetta di storico, autoattribuendosela.
La stessa svalorizzazione delle modalità specifiche dell’uso delle fonti e dei documenti, del loro controllo e confronto, che dovrebbero costituire la prima preoccupazione quando si parla di storia, risponde alla subalternità acritica ai modi di rappresentazione della realtà, presente o passata, imposti dalla logica di mercato e dalla visibilità mediatica.
Attenzione però a non cedere ad atteggiamenti in qualche modo “nichilisti”. La forte presenza della soggettività nella conoscenza storica, e l’indeterminatezza del pensiero storico non significa che la storia sia indistinguibile dall’invenzione, che non esista in alcun modo una realtà «oggettiva» cui lo storico si riferisce quando elabora ipotesi, ricostruisce fenomeni, narra vicende. A costruire il legame con questa «oggettività» del passato è il continuo confronto con ciò che di questo passato è ancora in nostro possesso, con quelle testimonianze – le fonti – che rappresentano il tramite di base della nostra conoscenza di una realtà che non è più percepibile. La fonte, quindi, come elemento principale per una ricostruzione del passato.
Per un approfondimento consultare:
Marina Caffiero e Micaela Procaccia (a cura di), Vero e falso. L’uso politico della storia, Donzelli Editore, Roma 2008
Pietro Corrao e Paolo Viola, Introduzione agli studi di storia, Donzelli Editore, Roma 2002