La vicenda di Michael Mandolfo
Benchè a noi si presentino con tutti gli apparenti segni di morte, non deve mai disperarsi della loro salvezza per qualunque tempo sia passato dalla loro sommersione o soffocamento …
(Isidoro Bianchi, 1783)
La vicenda di Michael Mandolfo, il giovane diciottenne che è stato riportato in vita dai medici del reparto di cardiologia vascolare del San Raffaele di Milano dopo essere rimasto per circa un’ora prigioniero sott’acqua, si intreccia con la questione del termine entro cui considerare un individuo clinicamente morto e con i temi più ampi legati alla bioetica. Quest’ultima è stata intesa non semplicemente come nuova scienza di matrice biologica, ma come una branca dell’‘etica applicata” volta a interrogarsi sulle questioni inerenti la ricerca biomedica e la cura della malattia (uno statuto della disciplina che è stato elaborato a partire dal contributo degli studiosi del Kennedy Institute of Ethics e di Warren T. Reich).
La cronaca dell’episodio milanese, risalente al 2015, è apparsa in un articolo sull’inserto del Corriere della sera dello scorso 23 agosto, che dettagliava l’odissea del ragazzo seguita a un tuffo con gli amici presso i Navigli, quando una corrente lo trascinava giù. Solo l’intervento dei sommozzatori dei vigili del fuoco consentiva il suo salvataggio, ma dopo ben 43 minuti dall’immersione. Sebbene a seguito di un’ischemia gli veniva amputata parte della gamba destra, il giovane veniva letteralmente resuscitato dopo essere stato considerato “clinicamente morto”.
Questo “miracolo” è stato reso possibile grazie all’ECMO, acronimo che sta per “Extra Corporeal Membrane Oxygenation”, una macchina che ripristina esternamente la circolazione sanguigna di un paziente il cui cuore ha cessato di battere, tenendolo a riposo insieme ai polmoni, eliminando l’anidride carbonica e garantendo il giusto apporto di ossigeno. In effetti, dopo 13 giorni di trattamento, Michael si svegliava ed era valutato dai medici come “neurologicamente intatto”.
L’ostinazione degli operatori, che considerando alcuni parametri, tra cui la bassa temperatura corporea di Michael al momento del suo rinvenimento, tentavano il recupero delle funzioni vitali, impone una riflessione: se il giovane fosse stato effettivamente considerato morto – cosa che, vagliando solamente alcuni parametri fisiologici, si poteva essere pure indotti a fare – forse non vi sarebbe stato alcun tentativo di riportarlo in vita.
L’azione di intervento medico, la questione centrale dello spostamento in avanti dei termini entro cui operare questa scelta, può essere anche valutata nella sua dimensione storica, soggetta com’è stata, soprattutto negli ultimi duecentocinquant’anni, alle travolgenti trasformazioni del dispositivo medico-scientifico (dietro cui le griglie etiche e la stessa azione normativa dello Stato sono sembrate spesso annaspare). Certamente, si tratta di cercare un orientamento in un dibattito che è oggi estremamente interessante e complesso, centrato sulla necessità di dare una caratterizzazione epistemologica alla bioetica. Discussione che vede contrapposti i sostenitori di un atteggiamento di «moralismo bioetico», orientato all’idea che la bioetica debba limitarsi a una teoria programmatica di ciò che è «lecito» e di ciò che è «illecito», e i sostenitori di una maggiore libertà e apertura delle scelte etiche dinanzi all’irruzione delle biotecnologie, per i quali tale nuova etica assumerebbe un carattere addirittura “rivoluzionario”, del tutto inedito rispetto alla tradizione filosofica dell’Occidente (cfr. Fornero, 2009).
Temi che com’è noto finiscono per avere rifluenze nella discussione attuale sul Fine vitae, che ha come suo corollario le strategie di intervento medico. Considerare la morte come un processo biologico in divenire, sempre più articolato, e che non è identificabile più soltanto con la cessazione di un parametro vitale (ad esempio il battito cardiaco), consente dunque di ampliare i margini dell’azione di recupero. Si tratta di interpretare la possibilità stessa di interrompere il processo biologico della morte; un’operazione tutt’altro che scontata nei suoi esiti, che è data dalla capacità del paziente di rispondere alla manovre per rianimarlo. Forse proprio a causa dell’imprevedibilità di tale risposta, e alla completa asistematicità di una eventuale statistica – del resto ancora di là dal venire – tutta una semantica “scientifica” è giunta a definire episodi come quello di Milano e l’intera area di ciò che ha preso significativamente il nome di “resurrezione”. Ereditata con ogni evidenza dai temi religiosi ed escatologici, questa immagine di una nuova “resurrezione” è calata dagli operatori della guarigione in un orizzonte fideistico rinnovato, scaturito dai progressi medici e orientato prospetticamente al futuro e al dato dell’incremento indefinito del potere tecnologico (si parla oggi, col rianimatore britannico Sam Parnia, di una “resurrezione scientifica”).
In realtà, chiediamoci se anche questo riposizionamento del linguaggio sia un fenomeno nuovo. Com’è noto nel XVIII secolo la consunta metafora biblica e giovannea della luce che schiaccia le tenebre veniva secolarizzata assumendo il nuovo significato di una conoscenza (la luce, appunto) che avrebbe tenuto a bada i fantasmi dell’ignoranza, considerati, piuttosto che il Maligno, come il reale buio da sconfiggere. Era qui con ogni evidenza reso esplicito come la secolarizzazione si facesse carico di dispiegare una trasposizione di significati sacrali nel nuovo ordito linguistico (e tra le interpretazioni della Modernità, più ampiamente, ve n’è una che la spiega attraverso il percorso di secolarizzazione con cui gli stati procedono a incorporare temi e orientamenti religiosi all’interno del discorso e della prassi politica).
Si tratta dunque, dicevo, di questioni che dimostrano di avere una loro dimensione storica e che, quanto al tema degli annegamenti, sono state affrontate già in passato, quando trovavano risposte in forza delle conoscenze mediche coeve. Nel Settecento l’ecclesiastico palermitano Francesco Emanuele Cangiamila dava alle stampe un Discorso con cui intendeva dimostrare che gli Annegati possono vivere per notabile tempo sott’acqua. Recitato nell’Accademia del Buon Gusto a Palermo una prima volta il 25 agosto e successivamente il 15 settembre del 1755, il Discorso di Cangiamila, che era l’autore della nota Embriologia Sacra che nel 1745 aveva dato la stura a un importante dibattito sulla questione del taglio cesareo e sulla medicalizzazione del parto, veniva pubblicato nel dodicesimo tomo degli Opuscoli d’autori siciliani (1771).
Non sorprenda che un prete si muovesse nel campo della medicina; ciò era possibile in quanto parte di quella “società civile” che contribuiva all’avanzamento delle conoscenze e ai necessari progressi della società. Chiara è, nell’attività di Cangiamila, l’istanza di una medicina sociale applicata ai problemi religiosi, un quadro ascrivibile a un pontificato come quello di Benedetto XIV, che a partire da metà secolo aveva fatto sperare in un percorso di avvicinamento tra scienza e cattolicesimo, tra Fede e Modernità. Col suo Discorso Cangiamila citava una serie di casi che indicavano come non si potesse essere sicuri del decesso nonostante la prima sommaria verifica dell’annegamento (gli annegati estratti vivi dopo meno di un’ora dall’immersione a suo dire erano solo esteriormente defunti). La casistica di Cangiamila annoverava i contributi scientifici di Charles Albin, che aveva fatto menzione di un giovane apparentemente deceduto, ma in realtà ancora in vita dopo essere stato sommerso per più di due ore, e del medico e fisico napoletano Luca Tozzi, che nel Seicento aveva sostenuto che la maggior parte degli annegati, se soccorsi entro due ore, sarebbero stati recuperati alla vita. Del resto Tozzi aveva raccontato di avere “salvata la vita ad un povero svizzero pescatore stato sotto le acque per ore nove”. In realtà, aggiungeva Cangiamila, pareva che “non solamente per ore, ma per intieri giorni si sieno veduti simili prodigi operati però dalla natura”. E nel XVII secolo anche il grande medico Paolo Zacchia, nel secondo tomo delle sue Quaestiones Medico-Legales, aveva testimoniato come in ciò non vi fosse nulla di straordinario e come molti individui che aveva potuto osservare, nonostante una prolungata immersione, addirittura di due o tre giorni, fossero rimasti in vita.
Cangiamila si chiedeva, inoltre, quale fosse il tipo di aiuto da assicurare agli annegati soccorsi. Innanzitutto essi non dovevano essere lasciati all’aria aperta e al freddo, occorreva immediatamente liberarli dalle vesti bagnate. Non bisognava poi appenderli per i piedi “affinché sgorghi dallo stomaco l’acqua” che “si suppone aver bevuta”, dal momento che gli studiosi coevi asserivano che “i sommersi o non avevano bevuto tanta acqua, almeno da farli morire, o non ne hanno bevuta per nulla” (qualcuno prescriveva la posizione a testa in giù solo per 5 minuti, perché si trattava di una posizione innaturale, dunque nociva). Doveva poi seguire il salasso e il risveglio dei “nervi dell’odorato”. Anche se alcuni suggerivano la tracheotomia per ripristinare la respirazione e rimettere in moto la circolazione del sangue, Cangiamila si mostrava scettico verso una pratica chirurgica che dava come precondizione scontata ciò che scontato non era, e cioè che la epiglotta fosse ostruita per collasso, ciò che era solo una supposizione, dal momento che “l’aria ha tutta la libertà di entrar nei polmoni”. Un’ultima indicazione terapeutica, acquisita dal fisiologo francese Antoine Louis, era quella che prescriveva l’utilizzo del tabacco da introdurre negli intestini, che avrebbe rispristinato ulteriormente la circolazione sanguigna.
Cangiamila, il cui contributo intellettuale consente di esplicitare l’intreccio, che è tutto settecentesco, tra religione, riforme e scienza medica, avrebbe pure insistito a più riprese sul valore curativo della fede (Medicina sacra, 1802). Anche nell’opera sugli annegati è del tutto evidente lo sfondo entro sui si staglia la questione affrontata, che era quello morale-religioso: “rischiarate maggiormente co’ vostri lumi questi miei pensamenti, e così li rendiate plausibili agli altri, perché se ne servano nelle occasioni, che in questo regno sono pur troppo frequenti. Così la vostra carità fiancheggiata dalla vostra rara dottrina, ed autorità servirà per liberare non pochi dalla morte temporale, e forse ancor dall’eterna”.