Non è colpa dello Zen. «Abbattiamo le recinzioni della scuola per far cadere i pregiudizi»
L’istituto comprensivo statale Falcone ritorna nel mirino dei vandali. Ma la comunità non rimane inattiva e si riunisce in un’assemblea pubblica
Cullarsi sugli stereotipi che una città ha scelto per un quartiere è più facile che indagare se esista una realtà dei fatti diversa. Proprio per questo, dopo l’ennesimo raid vandalico all’istituto comprensivo Falcone allo Zen 2 di Palermo, la comunità (giovani in testa) si è riunita in assemblea davanti a quella che da anni viene devastata, offesa e oltraggiata: la loro scuola.
«A salvare lo Zen dallo stigma che lo affligge sarà la partecipazione delle persone che lo abitano», afferma Mariangela Di Gangi, presidente dell’associazione Laboratorio Zen Insieme, che da oltre trent’anni opera sul territorio per il superamento di ogni forma di marginalità.
«Non è la prima volta che ci troviamo di fronte a questa tipologia di episodi, ma stavolta abbiamo voluto sottolineare come si reagisce alla vandalizzazione di una scuola. Se si decide di derubricare tutto a un atto di distruzione e di soprassedere alle sue ragioni, probabilmente qualsiasi ricetta sarà inefficace. Diciamo no a chi giudica senza conoscere e a chi generalizza accuse contro i ragazzi e le ragazze dello Zen».
L’indigenza non è una colpa. Criminalizzare la povertà non può essere una valida giustificazione per una società fondata sull’integrazione e la trasversalità dei diritti. Quello che però accade in questa zona di Palermo, sospesa tra i larghi viali della periferia nord e le grandi ville che segnano il confine sociale con le fasce di popolazione più ricche, è anche frutto di un esperimento sociale rivelatosi il più grande fallimento urbanistico della storia italiana del dopoguerra.
«Oggi si paga il prezzo di quella che è stata una vera e propria segregazione di comunità, perché stipare 2800 famiglie indigenti nello stesso posto senza una connessione reale con il resto della città ha significato ignorare il loro bisogno di crescita culturale» commenta Di Gangi.
Ad insegnare la rivendicazione dei propri diritti e la pretesa di una condizione di vivibilità migliore nel quartiere in cui si è nati sono le associazione del terzo settore che fungono da mediatori più vicini ai bisogni delle gente e da ponte con le istituzioni. «La nostra funzione è quella di fare da grancassa, mi auguro che a un certo punto questo non serva più ma intanto il nostro compito è di regalare loro la capacità di incidere, di fare la differenza», prosegue Mariangela Di Gangi, spesso interrotta da un saluto o da un sorriso accennato dai ragazzi che frequentano il laboratorio e che passeggiano per quei corridoi stretti che separano le case dal colore rosa pallido, tra i panni stesi e le radio ad alto volume.
Insieme al laboratorio Zen insieme, tra i promotori dell’assemblea c’erano anche tutte le altre realtà attive sul territorio: le associazioni Lievito, Bayty Bytik, Handala. Una fitta rete a sostegno della scuola Falcone diretta da Daniela Lo Verde.
Ha preso la parola anche il ragazzo minorenne che ha chiarito un episodio spiacevole che lo ha visto coinvolto: «Per noi questa scuola dove siamo cresciuti è casa e famiglia. Come sempre quando qualcuno fa il compleanno, per festeggiare un nostro amico eravamo andati a fare un partita di calcio scavalcando la recinzione, per poi stappare una bottiglia. Gli agenti ci hanno fermato. Ho letto commenti molto brutti contro di noi, ma non abbiamo mai fatto vandalizzazioni. Io penso che quello che è successo sia stato fatto da persone più grandi, non da ragazzi».
Per questo la proposta delle associazioni, a cui si allaccia quella del sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, è all’unisono: abbattiamo le recinzioni che chiudono la scuola.
«Mi dispiace che qualcuno possa avere un’idea di chiusura di questa scuola, non è così» ribatte la dirigente dell’istituto Falcone.
In una zona periferica come questa, dove è facile cadere nella rete del pescatore se si segue la luce delle lampare e non quella delle stelle, tutto è messo in connessione.
Le barriere non sono soltanto fisiche, ma vivono nelle convinzioni di chi non cambia mai idea e di chi non è disposto a metterle alla luce del confronto collettivo. «Quando sono arrivata qui – racconta Di Gangi – rafforzavo le mie convinzioni credendo di avere in tasca le soluzioni più giuste, poi questo quartiere mi ha insegnato che non avevo capito niente. Bisognava che la piazza fosse sì una piazza ma anche un posteggio, che il giardino fosse importante ma prima il campetto di calcio perché le famiglie non possono permettersi di mandare i figli alle scuole sportive».
Anni di pregiudizi hanno reso più facile che si faccia notizia solo in caso di eventi negativi allo Zen.
«È come se rafforzasse le proprie sicurezze – commenta Mariangela Di Gangi- e penso che il resto della città abbia bisogno di criminalizzare i quartieri come lo Zen per stare meglio, per sentirsi persone migliori. È più facile per chi vive in un ceto medio alto della città puntare il dito verso quelli del quartiere e dire: sono sempre loro che rovinano tutto. Vorrei vedere loro nelle stesse condizioni e come sarebbero diventati. Sono consapevole e cosciente che se lo Zen ha un’incidenza così alta di episodi negativi è perché ha un tasso molto alto di povertà, anche educativa e culturale, e quindi è più facile che certe cose accadano. Questo fa sì che chi come noi prova a raccontare una storia diversa deve puntare sempre di più l’asticella in alto».
Il lavoro da fare è ancora tanto e chi si adopera per portare bellezza in questi luoghi è spesso portato a divulgare gli eventi normali per fatti eccezionali proprio perché accadono in quel quartiere e questo apre un dilemma etico inevitabile: quanto in questo modo si rafforza il pregiudizio? «Noi per ora ci distinguiamo perché abbiamo una delle due biblioteche per l’infanzia e l’adolescenza del comune di Palermo e se non fossimo noi a concentrare l’attenzione passerebbe inosservato. Se inaugurare una biblioteca è una cosa eccezionale perché fatta allo Zen, non ci stiamo – afferma Di Gangi – bisognerebbe interrogarsi invece sul perché non esista in via Libertà uno spazio pubblico del genere.
Abbiamo voluto inaugurare la biblioteca Giufà perché tutta la città ne ha bisogno, perché esistono pochi spazi del genere e vogliamo che la biblioteca abbia un patrimonio culturale e librario di qualità fruibile da tutti».