Fiumi di latte e fiumi di birra: forme e rituali di proteste tra presente e passato
Pastori e allevatori che aprono i bidoni del latte di pecora e lo sversano per strada. Immagini che si ripetono dall’inizio di febbraio, da quando la protesta dei pastori sardi per i sessanta centesimi al litro loro pagati dagli industriali caseari ha assunto una forma diversa – più radicale e più visibile – di quella già praticata lo scorso anno in occasione delle elezioni politiche. Allora si era trattato del rifiuto di esercitare il diritto dei cittadini per la scelta dei propri rappresentanti in parlamento: nella stragrande maggioranza non avevano ritirato i certificati elettorali.
Quella forma non aveva sortito alcun effetto. Anzi, rispetto al prezzo pagato lo scorso anno, ora un litro di latte è valutato ancora meno. Nel corso di un anno, quindi, le richieste dei pastori non sono state accolte (e neppure ascoltate) dalle parti interessate: non solo gli industriali caseari, ma anche i rappresentanti del governo (passato e presente) che dovrebbero avere a cuore un settore che costituisce il 70% dell’economia della Sardegna.
Questo si sa dai diversi media che seguono la vicenda, con resoconti più o meno approfonditi e attraverso interviste ai pastori e alla popolazione che solidarizza con loro.
Non è una questione solo economica. È una dichiarazione ricorrente: si tratta di rispettare il lavoro e la dignità degli allevatori; di evitare che insieme alle attività produttive già chiuse, “muoiano” anche i pastori. E con loro, un territorio.
Una narrazione puntuale e intelligente (oltre che divertente) e insieme un esempio di oral history, è il lungo servizio (poco più di un’ora) mandato in onda lo scorso 15 febbraio all’interno della trasmissione televisiva Propaganda Live, condotta da Zoro (ovvero Diego Bianchi). Significativamente intitolato #lottadilatte, il racconto si è dipanato lungo una intera giornata e in diversi paesi. Ha mostrato il lavoro dei pastori (soprattutto la mungitura). Ha mostrato ovunque azioni di sversamento. Ha mostrato la solidarietà – spesso espressa in forma festaiola e conviviale – degli abitanti di quei paesi: uomini, bambini, donne mogli e figlie di allevatori.
Una delle intervistate ha espresso la sofferenza di una azione come lo sversamento – “calpestare il proprio lavoro” – parlando del latte come qualcosa di “sacro”: sversare il latte, quindi, come “calpestare l’acqua santa”. Azione tanto dolorosa quanto necessaria, però. Una forma di protesta messa in atto in funzione dimostrativa, per salvare le vite di intere famiglie, e per indurre le controparti a riunirsi insieme in un tavolo di contrattazione. “Prima che succeda qualcosa di irreparabile”.
Uno storico (ovvero, una storica come me) può benissimo vedere qui in concreto gli aspetti odierni di quella moral economy che Edward Thompson ormai decenni fa aveva individuato e indicato come la vera realtà delle proteste e rivolte settecentesche inglesi. E che da tempo, ormai, costituiscono una valida chiave di lettura per la storiografia su rivolte, tumulti, ribellioni tra medioevo e età moderna.
A me sono tornati alla mente le forme di un conflitto risalente alla fine del ‘600, e durato per oltre un decennio, in una delle piccolissime signorie che strutturavano il Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca. Ovviamente non lo si può vedere in presa diretta, ma lo si può seguire grazie a un libro pubblicato circa 25 anni fa, uno dei risultati delle ricerche promosse a seguito delle innovazioni concettuali e metodologiche sulla guerra contadina tedesca del 1525, in una collana diretta da protagonisti di quel rinnovamento, tra i quali Peter Blickle e Winfried Schulze. Alla base della approfondita analisi di Helmut Gabel (1995) sul problema della resistenza e della cooperazione compresenti nei conflitti come espressione di cultura politica sta una solidissima ricerca di archivio sui rapporti tra signori e contadini e sull’esame dei mezzi utilizzati e delle procedure seguite per il superamento dei loro contrasti.
Tra i diversi casi di studio, quello della abbazia imperiale (benedettina) di Kornelimünster, uno dei tanti “stati in miniatura” religiosi del Sacro Romano Impero, ora omonimo quartiere della città di Aquisgrana, è quello che suggerisce un confronto con le forme della protesta dei pastori sardi di oggi. E consente forse di parlare di analogia di rituali.
In estrema sintesi, i problemi di fondo erano due: l’imposta sulla birra (un bene primario, come lo era altrove il pane, e come lo è il latte di pecora per i pastori sardi) e il diritto dei sudditi dell’abate-signore alla condecisione su quella e altre imposte e, Tra il 1686 e il 1699, in un periodo in cui la politica di potenza di Luigi XIV coinvolgeva – con le sue diverse guerre – anche indirettamente gran parte dell’Europa, la politica dell’abate Gevertzhaen portava alla costituzione di un vero e proprio movimento di sudditi contro il suo tentativo di alzare l’imposta sull’unità di misura della birra, giustificato dagli alti debiti della signoria. I sudditi ritenevano però che si trattasse solo di interesse personale. Approfittarono quindi nel novembre del 1687 dell’occasione offerta dalla consueta cerimonia di prestazione dell’omaggio (cioè, la legittimazione del governo del nuovo abate) per presentare una rimostranza composta di 21 articoli. Tra i più rilevanti quello per il rinnovato riconoscimento del diritto di condecisione e quello per la eliminazione dell’imposta sulla birra.
A favore dei sudditi erano anche il governo di Düsseldorf, che aveva l’avvocazia di protezione su Kornelimünster, e pure il tribunale arcivescovile. Il Tribunale Camerale Imperiale (il massimo organo giudiziario dell’Impero), dopo alcune sentenze non favorevoli, si espresse infine nel 1693 con una formula compromissoria: l’imposta sulla birra poteva essere accesa o tolta solo con il consenso dei rappresentanti dei sudditi. L’omaggio all’abate poteva quindi avere luogo.
Ma nel 1698 l’abate tentava di rimettere il dazio sulla birra senza consultare il Land. Allora dalle proteste attraverso i canali istituzionali si passò ai fatti. Dopo essersi riuniti nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano per assicurarsi la benedizione divina, i produttori di birra presero di mira gli osti che avevano ubbidito all’ordine dell’abate di rimettere il dazio. Il “Wilden Mann”, il “Panhaus”, il “zum Adler”, il “zum Paradeiss”, il “Glocke” furono invasi da fiumi di birra.
Non era solo l’aumento del prezzo della birra ad essere la causa della protesta e delle sue forme. Il fatto che l’abate non avesse richiesto il consenso del territorio era considerato un comportamento inaccettabile dal punto di vista morale e che, in quanto tale, autorizzava alla resistenza anche violenta. Il timore concreto che l’abate volesse avere il monopolio della birra e la sua politica portarono infine all’azione estrema e irreparabile: l’abate tiranno Gevertzahen fu ucciso nel corso di un’imboscata. Negli anni successivi arresti e punizioni dei presunti colpevoli si alternarono a sforzi di ricomposizione. Solo molto più tardi, nel 1751, e dopo ripetuti rifiuti dell’omaggio a successivi abati si arrivò ad un accordo tra la signoria abbaziale e i sudditi, ratificato dal Tribunale Camerale Imperiale.
Tra i più punti rilevanti: in futuro nessuno avrebbe potuto derogare al contratto o modificarlo; il consenso dei sudditi era necessario per la regolamentazione del sistema fiscale e finanziario, come pure per la fissazione del prezzo della birra. Solo su queste basi i sudditi potevano prestare l’omaggio, cioè riconoscere la legittimità, della signoria abbaziale. Unicamente così poteva concludersi il lunghissimo conflitto ai cui contenuti e alle cui forme i sudditi di Kornelimüster erano stati di fatto obbligati per la difesa della loro vita e della loro dignità.
Opera citata
Gabel H., Widerstand und Kooperation. Studien zur politischen Kultur rheinischer und maasländischer Kleinterritorien (1648-1794), Tübingen, bibliotheca academica verlag, 1995.