L’attentato a Palmiro Togliatti, 70 anni fa
Colpito da tre colpi di pistola sparati fuori da Montecitorio da uno studente
Sono passati settant’anni dal 14 luglio 1948, giorno in cui il siciliano Antonio Pallante rischiò di cambiare per sempre la storia d’Italia: voleva uccidere Togliatti, il Migliore, e in tanti hanno cercato di capire chi mai ci fosse dietro quello smilzo studente fuori corso dell’Università di Catania. Adesso il giornalista Stefano Zurlo ricostruisce il caso in Quattro colpi per Togliatti. Antonio Pallante e l’attentato che sconvolse l’Italia (Baldini + Castoldi, 254 pagine, 17 euro), un libro-intervista in cui il novantacinquenne Pallante, che vive a Catania, racconta la sua verità quasi affidandosi al giornalista perché sgombri il campo dalle false interpretazioni.
Certo, per i tanti cultori del genere ucronico – i fervidi inventori del “cosa poteva accadere se….” –, il 14 luglio del ’48 è quasi un invito a moltiplicare le ipotesi: se, in quell’afosa giornata romana, il proiettile che di striscio colpisce Togliatti alla nuca avesse invece centrato il bersaglio, come sarebbe finita? Il Paese era schierato nel campo delle nazioni occidentali ma, per l’Italia operaia ed ex partigiana, l’attentato a Togliatti è qualcosa che rompe gli argini costruiti all’indomani della guerra dallo stesso segretario comunista. Si scende in piazza senza attendere le direttive del partito, si sfiora il caos: a ritmo accelerato si susseguono lo sciopero generale proclamato dalla Cgil, gli scontri nelle città, la temuta polizia Celere adoperata dal ministro Scelba come un reparto di pronto impiego militare che va in guerra contro i manifestanti. Il bilancio complessivo è di 30 morti e 566 feriti. Poi l’esultanza per la vittoria di Bartali al Tour de France offre una via d’uscita, e come per miracolo la tragedia si disinnesca.
A sparare era stato uno studente di legge proveniente da Randazzo, un ventiquattrenne che nel pomeriggio del 9 luglio aveva preso il treno alla stazione di Catania portandosi appresso il pranzo al sacco per fare economia, una pistola Hopkins & Allen calibro 38 Special acquistata al mercato nero di Catania e cinque pallottole pagate 35 lire l’una, pallottole particolari: il perito del tribunale avrebbe stabilito che si trattava di proiettili “non idonei”, utilizzati per immobilizzare gli avversari ma non per uccidere, e “se avessi avuto pallottole di prima mano il colpo non si sarebbe schiacciato contro l’osso occipitale” ricorda Antonio Pallante nel salotto della sua casa catanese.
Così nell’estate del ’48, mentre in Sicilia i sindacalisti muoiono ammazzati perché colpevoli d’insegnare ai braccianti la lingua del loro diritto, dopo che a Portella è stato fatto fuoco contro la folla radunata per la festa del lavoro, un ragazzo innamorato della cultura classica e della libertà della patria si aggira irrequieto. In attesa di un segno del destino. Ha un ideale nella rivoluzionaria Charlotte Cordey, la donna che il 13 luglio 1793 uccide Jean-Paul Marat e quattro giorni dopo finisce ghigliottinata: come Charlotte, anche Antonio Pallante ammira gli eroi di Plutarco e in perfetta solitudine vuole abbattere il nemico del popolo italiano. È intriso di retorica risorgimentale: mette in fila le guerre d’indipendenza, la prima guerra mondiale, “il fascismo che ha restituito agli italiani l’orgoglio dell’appartenenza al loro Paese”. È logico che non ami il separatismo, si sente italiano in ogni fibra e la sua missione coincide col vendicare gli italiani traditi dal PCI: Togliatti aveva indossato i panni del pacificatore, ma è lo stesso uomo che vuole portare l’Italia fra i Paesi dominati dall’URSS. È il leader che il 10 luglio, mentre Antonio va in treno verso Roma, in Parlamento pronuncia un accorato discorso sul rischio di servitù politica fatalmente derivante dal profluvio degli aiuti americani. Antonio Pallante dà molte responsabilità a Togliatti, sino a incolparlo della tragica fine dell’Armir, l’armata italiana travolta dall’offensiva sovietica sul fronte del Don. È un confuso idealista che sogna la libertà per la patria e la gloria per sé, sembrano entrambe a portata di mano. Basta eliminare Togliatti.
Ammesso a Montecitorio grazie a un pass incautamente rilasciato dall’onorevole democristiano Francesco Turnaturi, un altro catanese, la mattina di lunedì 12 luglio Pallante va in tribuna e osserva la scena: il segretario comunista sta parlando con Nenni, e “vederlo a distanza non mi dava alcun turbamento… Togliatti era il capo del male, anzi del Male con la M maiuscola. Per questo dovevo sopprimerlo… ero innocente perché ero come la vestale della Rivoluzione francese”. Martedì 13 luglio è tutto pronto, Pallante ha esplorato le vie intorno a Montecitorio e scelto il luogo dell’agguato. L’indomani, sono le 11.20 quando Togliatti si allontana dall’aula assieme a Nilde Iotti: Pallante preme il grilletto mentre assieme scendono le scale, è distante solo un paio di metri. Quattro colpi, il più pericoloso penetra nel polmone. Molti anni dopo, Nilde Iotti avrebbe ricordato che d’istinto s’era gettata su Togliatti, e che forse quel gesto allontanandolo dalla traiettoria dei proiettili aveva contribuito a salvargli la vita.
Com’è ovvio che sia, Pallante viene subito catturato. È meno ovvio che a catturarlo sia un uomo avvolto da altri misteri, il capitano Perenze, che due anni dopo, il 5 luglio 1950, si sarebbe attribuita l’uccisione di Salvatore Giuliano. Ma intanto, mentre Togliatti rimane abbastanza lucido da continuare a dire di non fare colpi di testa, Antonio Pallante arriva a Regina Coeli.
Verrà condannato a 10 anni e 8 mesi che si riducono a 5 e mezzo, il 23 dicembre del 1953 è un uomo libero. Quasi ogni cosa si ricompone. In Sicilia, “papà parlò di me a un assessore e alla fine fui assunto. All’Ispettorato delle foreste”. Strano destino per l’ammiratore di Charlotte Corday.