Le “Little Italies” di Rochester. Trasformazioni urbane e sogni di rinascita nel segno di Jerre Mangione – prima parte
Una breve premessa
Nella storia delle comunità italiane in America, storia solo molto episodicamente legata all’età coloniale e che si definisce come tale, a ben vedere, solo dal tardo Ottocento, la comunità di Rochester, nella parte superiore dello Stato di New York, sul versante sud, quello statunitense, del Lago Ontario, si distinse per le sue dimensioni, una delle maggiori non solo nello Stato di New York, ma negli interi Stati Uniti. I primi italiani a Rochester giunsero negli anni Settanta dell’Ottocento, forse leggermente prima, il primo in assoluto pare fosse un certo Domenico Sturla, ligure o genovese, tristo erede di Paganini: strimpellava un violino o forse un organetto per strada, viveva in un orrendo tugurio, chiuso per ragioni sanitarie dalle autorità della città, luogo di refuge per disgraziati come lui, ad un passo dal fiume Genesee, che serviva loro come discarica. A tali dimensioni della comunità, diverse migliaia, purtroppo, non corrisponde una letteratura scientifica adeguata. Per quali ragioni? Difficile dirlo, forse perché si tratta di una comunità che subì più delle altre un’assimilazione radicale a partire dal Secondo Dopoguerra, fino a scomparire quasi del tutto. Oppure perché anche in questo soffrì la concorrenza di New York City e dei suoi ben noti (nel bene e nel male) Italians. Questo, non ostante che a Rochester sia nato uno dei maggiori scrittori italo-americani del Novecento, Gerlando (Jerre) Mangione (1909-1998), immigrato di seconda generazione, che a Rochester e ai suoi siciliani dedicò un romanzo/memoria che ebbe uno straordinario successo, Mount Allegro.
In questo breve saggio cercherò di mostrare – anche attraverso la fotografia, e soprattutto attraverso questa – una vicenda singolare. Quella dell’evoluzione urbanistica della Rochester “italiana”, da leggersi, naturalmente, insieme a quella della “comunità” stessa, evidentemente dissolta, nelle sue strutture fondamentali, ma ancora presente, in alcuni suoi esponenti, che ostinatamente, ma anche meritoriamente, difendono e proteggono un’identità italiana, quale che sia. E parallelamente col romanzo/autobiografia di Mangione. Non vuol essere altro, questo scritto, che un invito a riflettere non solo su Rochester e i suoi “italiani” poi divenuti “italo-americani”, e poi forse definitivamente “americani” tout court. In qualche modo la trasformazione e l’annullamento del secondo e rispettivamente del primo “quartiere” italiano segue l’evoluzione della città, post-industriale (poi ne nacque un altro, come vedremo dopo). E quella dell’assimilazione della sua popolazione “italiana”. Per non appesantire un lavoro che intendo leggero, non lo ho gravato di note a piè pagina, ma il saggio bibliografico finale rende conto delle fonti citate e ne segnala altre, e spero possa costituire una buona base per studi ulteriori.
Rochester, ottobre 2022
Rochester non è più quel grande centrale industriale che ne determinò la storia novecentesca. I colossi, la Kodak, la Bausch&Lomb (che fece le mitiche lenti dei Ray Ban, ora marchio italiano, di Luxottica, per tutta la seconda metà del Novecento), la Rank Xerox, hanno lasciato immense tracce di archeologia industriale, raramente valorizzate, ed edifici di uffici più o meno riconvertiti, sia nel centro città sia in periferia. Anche per Rochester, legata anch’essa peraltro all’acciaio, alla sua industria, al declino della medesima, si è aperta l’era post-industriale, dei “servizi”. Della Kodak rimane un museo, la casa di George Eastman, che lascia alquanto a desiderare. Ci si aspetterebbe molto di più, se non altro un percorso coerente e sistematico nella storia della fotografia. O una spiegazione coerente della scelta del nome enigmatico “kodak” da parte del grande tycoon Eastman.
Alla University of Rochester, sempre tra le migliori degli Stati Uniti – USNews la pone nel 2021 al 36° posto negli Stati Uniti, posizione di tutto rispetto visto che ci sono migliaia di college ed università in America, uno spettacolare campus semicollinare dotato di ogni necessità e di una vasta biblioteca – la lingua e letteratura italiana omaggia Dante ed i classici. Non sembra che vi sia spazio per la letteratura, e la storia, “italo-americane”, del resto coltivate meno di quanto potremmo aspettarci negli Stati Uniti, e questo anche se la University of Rochester possiede tutte le carte – 213 box, migliaia di documenti di ogni genere – di Gerlando “Jerre” Mangione, senz’altro uno dei maggiori scrittori italo-americani del Novecento; che non assurse mai alla fama di un Mario Puzo, o di un John Fante, ma che fu certamente un alfiere indefesso dell’italianità, o meglio, sicilianità, in America; e che viaggiò assai spesso in Sicilia, ove tenne contatti con Pirandello, Sciascia, Danilo Dolci, e dunque con la crema della cultura isolana, o, nel caso di Danilo Dolci – di cui nel 2024 ricorre il centenario della nascita – di un utopista, sognatore e anarchico non siciliano (era di Sesana in Slovenia) che voleva far della Sicilia un luogo di sperimentazione delle proprie teorie (spesso non troppo bilanciate). Sembra che, in generale, vi sia una rimozione del passato italo-americano, anche se i cognomi italiani sono abbondantissimi, come si nota a ogni piè sospinto, anche soltanto leggendo le pubblicità di studi di avvocati, assicurazioni, dentisti, agenti immobiliari.
In principio fu Mount Allegro
Il romanzo d’esordio – e ad unanime giudizio l’opera migliore di Gerlando “Jerre” Mangione – data 1943, si intitola Mount Allegro, Mont’allegro o Montallegro nella versione italiana, ebbe diverse edizioni negli Stati Uniti, ed anche in italiano venne tradotto con regolarità, anche se – a parere di chi scrive – con esiti mai definitivi (una nuova traduzione sarebbe quantomai gradita). Il romanzo tratta della comunità siciliana a Rochester tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, dei genitori e degli zii dell’autore, di tutta l’allegra e variopinta cerchia di giovani vecchi e decrepiti intorno a loro, delle abitudini religiose e alimentari, del rapporto con gli altri emigrati, soprattutto ebrei ed irlandesi. “Montallegro” è conio dell’autore (nel ricordo della località siciliana, ovviamente: siamo qui in ambito agrigentino, soprattutto). Chiama così il quartiere “italiano”, ma soprattutto siciliano, ove egli allegramente cresce, in un perpetuo discorso sugli usi, costumi, cibi siciliani, e continui riferimenti alla Sicilia, ricordata dagli emigrati di prima generazione. Tanto è vero che si limita ad una mezza pagina la descrizione di questo “Montallegro”. Che non è neppure un monte, ma un rettangolo, quasi un quadrato di pianura. Che la storia ha spazzato completamente via. Per identificarlo, poiché non è possibile farlo attraverso il romanzo di Mangione, estremamente vago in termini di topografia urbana, occorre andare a cercare nelle sue carte. E vi si trova un disegno, che ci consente di identificare, e poi visitare, raggiungendolo in macchina dal centro, il luogo ove v’era “Montallegro”, quartiere ovviamente senza nome, ma ad un passo da uno dei centri industriali ove i siciliani (non tutti, ma molti), lavoravano, la fabbrica di lenti (di prodotto ottici in generali) Bausch&Lomb. Non descritto se non sommariamente da Mangione, Montallegro è ora sede di un centro di smistamento della Coca-Cola, costruito distruggendo tutte le case ove abitavano i siciliani, compresa la casa di Mangione, ove si svolge gran parte della narrazione del romanzo. Cosa sopravvive della Montallegro degli anni Venti? Solo e soltanto una chiesa, che peraltro è abbandonata da tempo.
Montallegro dunque non esiste più. La Chiesa di St. Bridget rimane, semidistrutta, sconsacrata, utilizzata a vari scopi sociali e ora evidentemente abbondonata al proprio destino. Singolare. Poiché infatti questa chiesa nel cuore del quartiere italiano, costruita nel 1854, consacrata nel 1875, ebbe sempre o quasi pastori, rettori e amministratori irlandesi, con l’eccezione di un certo John V. Forni quando oramai la comunità italo-americana era ridotta a ben poca cosa, dal 1977 al 1980.
Anche Jerre Mangione, in una delle edizioni successive di Montallegro, quando oramai il romanzo era divenuto un documento di indagine etnografica, aveva denunciato la sparizione brutale, nei primi anni Settanta, del quartiere ove era nato e cresciuto.
La casa dei Mangione, distrutta interamente negli anni Settanta, in una foto che precede di poco la demolizione (Mangione Papers, University of Rochester).
Mount Allegro. Una breve storia editoriale
Ad un primo, rapido e sommario assaggio delle (amplissime) carte Mangione alla University of Rochester, appare subito chiaro che il libro, nella prima edizione, fu un successo editoriale immenso. Centinaia le recensioni, tutte o quasi meticolosamente ritagliate e incollate su cartoncino da Mangione, apparse su tutti i giornali d’America, quotidiani, settimanali, mensili. Si era in tempo di guerra e in tempo di sbarco in Sicilia, e dunque un libro che parlava molto più della Sicilia che non dei siciliani in America, doveva per forza attirare l’attenzione. Eppure, usciva in quel 1943, o forse sul finire del 1942 (non sono ancora riuscito chiaramente a stabilirlo), che era davvero il momento in cui prendeva il volo, per la comunità italiana di Rochester, la nottola di Minerva che annunzia il crepuscolo. In qualche modo, documentando gli anni Venti e Trenta, con numerose sortite nel passato, il libro narrava l’apice della presenza italiana e soprattutto siciliana a Rochester. Il dopoguerra ne avrebbe accelerato quella fine già abbondantemente preannunciata dalla crisi del 1929 e dalle problematiche del New Deal. Nel 1943 Mangione, che aveva conseguito il Ph.D. alla vicina Syracuse –scegliendo evidentemente di non proseguire gli studi a Rochester, o per altra ragione, forse perché a Syracuse aveva ottenuto una borsa di studio – narra di un mondo già ampiamente sotterrato.
La copertina della prima edizione. Non sono riuscito a stabilire quante copie effettivamente abbia venduto la prima edizione del romanzo, ma siamo nell’ordine, probabilmente, delle diecine di migliaia.
I disegni originali di Peggy Bacon, insieme alle lastre tipografiche utilizzate per la loro riproduzione nel volume, sono conservate nei Mangione Papers, presso la University of Rochester. Disegni vivaci, molto “etnici”, intesi a destare simpatia per questa allegra, superstiziosa, gelosa e golosa, e molto religiosa “family” di Girgenti, ovvero Agrigento.
Ora, il messaggio del libro è duplice: da un lato, i siciliani sono allegri, superstiziosi ma fondamentalmente cattolici, legati da ampie reti familiari, colti e non superficiali (sottolinea spesso Mangione l’uso, a casa, dell’italiano e non del dialetto o meglio la lingua siciliana, cosa su cui è lecito comunque dubitare, chiedendosi donde la conoscenza dell’italiano loro provenisse), capaci di ricordare episodi lontani e amanti della loro terra; dall’altro lato, si sottolinea come la vita in America, l’”American Dream” più o meno raggiunto (e il romanzo si chiude con una fanciulla della famiglia che tale sogno corona, sposando un ricco americano e trasferendosi a “Lake Avenue”, ora peraltro strada piuttosto sinistra nella Rochester del 2022, ma già al confine o quasi tra le due “Little Italies”), sia preferibile alla miseria italiana, anche se poi nella miseria, ma non così nera, non così priva di prospettive (la prospettiva vale più della realtà ed essa soprattutto fa preferire l’America ai siciliani ivi immigrati), si viveva anche a Rochester. Questo, come appare da numerosi articoli, è quel che andava sostenendo Mangione nelle numerosissime presentazioni del volume nell’immediatezza della sua pubblicazione.
Non stupisce dunque la rilevanza nazionale che assume immediatamente il breve libro, nell’arco di un anno, e mentre le truppe americane aumentavano esponenzialmente il loro coinvolgimento in Europa, e segnatamente in Sicilia. Per alcuni, come per il grande giornalista e conoscitore di New York, Meyer “Mike” Berger (1898 –1959), il libro porta alla scoperta del fatto che esistano altre “Little Italy” rispetto a quella di New York, cui guardare con interesse. La sua recensione sulla prestigiosissima, e lettissima, “The New York Times Book Review”, del 17 gennaio 1943, appena uscito il libro, avrà sicuramente contribuito al notevole successo di quest’ultimo (anche il Time recensirà bene Mount Allegro).
Una lastra tipografica con un disegno della Bacon. Margaret Frances Bacon (1895 –1987) è stata disegnatrice assai nota ai suoi tempi, soprattutto per le caricature, e fu anche docente di disegno in varie ed importanti istituzioni. Ha lasciato una serie vastissime di opere e riflessioni sul significato vero della caricatura.
Un giovane Mangione allegro e sorridente presenta il suo libro in città, e i giornali gli dedicano ampio spazio, non solo nella nativa Rochester (Mangione Papers).
Interessante il titolo di questa recensione del “Chicago News”. Si parla, intanto, con precisione di “Little Sicily”, piuttosto che genericamente di “Little Italy”. Inoltre, si menzionano due altri romanzi, “Wait Until Spring, Bandini”, il romanzo di esordio di John Fante, del 1938 (da cui venne tratto anche un film nel 1989, diretto dal belga Dominique de Ruddere), e “Christ in Concrete”, del 1939, di Pietro Di Donato. Tutti autori molto giovani. Ma i due testi qui menzionati hanno una valenza tragica, soprattutto quello di Di Donato, assente nella lieve ed ilare narrazione di Mangione. Peraltro, da notare che le traduzioni italiane di Christ in Concrete, ovvero “Cristo tra i muratori” (prima ed. italiana, Bompiani, 1941), falsificano il titolo originale, poiché il romanzo narra proprio di un lavoratore italiano che muore travolto da una colata di cemento, letteralmente, un (povero) Cristo nel cemento. (Mangione Papers, University of Rochester).
Continua…
Paolo L. Bernardini