Leggere, scrivere e far di conto nella Sicilia del ‘500 – parte 3
La scuola primaria come pilastro formativo
L’organizzazione della scuola ebraica, quale emerge dalla documentazione conservata nei fascicoli della Corte Pretoriana, si contrappone a quella dei gentili il cui carattere è eminentemente “laico”, in quanto insegna a leggere, a scrivere e a far di conto ai ragazzi utilizzando come modello la scrittura notarile, facendo esercitare gli scolari sugli abbecedari, escludendo dai libri di testo le sacre scritture. Questo modello emerge dalla lettura di alcuni contratti stipulati dal «magister scolarum» Stefano Lu Poyu con i genitori degli alunni che frequenteranno le sue lezioni per l’anno scolastico 1514 ─ 1515. Il rapporto fra genitori e maestro è regolato da uno specifico contratto di prestazione d’opera nel quale l’insegnante fissa gli obiettivi da raggiungere, il tempo necessario per l’apprendimento e l’ammontare dell’onorario per il suo lavoro. I formulari adottati dal notaio, pur nella loro apparente ripetitività, permettono di ricostruire il modello organizzativo e didattico sul quale si basa il funzionamento della scuola.[1]
Due diversi livelli di scolarizzazione
Mastro Stefano fornisce due diversi livelli di scolarizzazione, il primo dedicato ai ragazzi che hanno almeno cinque anni, il secondo a quelli che hanno almeno tredici anni. La durata del ciclo didattico è fissata in otto mesi (da novembre a giugno), durante i quali i ragazzi del primo livello (scuola elementare) impareranno «ad scribendum et legendum omnes litteras tam notariscas quam alias», mentre quelli del secondo livello oltre ad un approfondimento della loro capacità di lettura e di scrittura, affronteranno “l’abaco”. Mastro Stefano offre agli studenti che si iscrivono al secondo ciclo la possibilità di acquisire le nozioni che gli permetteranno di gestire la contabilità di una bottega. Infatti, s’impegna ad accogliere nella sua scuola Iacobo figlio di Vincenzo de Vitale dell’età di tredici anni al quale insegnerà «ad legendum litteras notariscas et ad scribendum et de abbaco … dum modo quod quando exiet ab eius auditorio possit retinere librum in apotheca cuiuslibet pannerii». Una testimonianza che attesta, sin dalla prima metà del secolo XVI, l’esistenza a Palermo di scuole in grado di formare dei razionali (ragionieri) in grado di utilizzare le tecniche della partita doppia necessarie per la tenuta dei libri di bottega.
L’ammontare della retta
L’ammontare della retta varia da tarì 18 ad un’onza. L’oscillazione sarà, molto probabilmente, legata al diverso livello di impegno didattico necessario per raggiungere uno specifico obiettivo di formazione. L’ammontare della retta, in qualche caso, è determinato dal particolare rapporto che lega il maestro al padre dell’alunno. Mastro Stefano, ad esempio, quando prende in affitto la sua casa di abitazione dal libraio Vincenzo Pasta, s’impegna ad insegnare gratuitamente al figlio del padrone di casa «ad legendum, scribendum et de abbaco», certamente in cambio di una riduzione della pigione e per i particolari rapporti professionali che un maestro di scuola può intrattenere con il proprietario di una libreria[2]. I genitori impongono anche un controllo sui livelli di apprendimento dei propri figli, esercitato anche con la clausola che prevede la corresponsione delle ultime rate solo nel momento in cui il ragazzo sarà «doctus de supradictis artibus».
Un sondaggio molto interessante non solo per avere cognizione dei metodi di insegnamento alle scuole primarie ma anche per l’individuazione del ceto sociale che si rivolge a mastro Simone: gli allievi provengono da una fascia sociale che comprende maestri artigiani, piccoli mercanti, nobiltà cittadina. Una realtà sociale che ritiene opportuno dare ai propri figli gli strumenti culturali necessari per favorire o accelerare la loro crescita sociale ed economica, premessa essenziale per ogni eventuale cambiamento di stato.
La disciplina e la “ferula”
La bacchetta, la “ferula” era lo strumento principale che il maestro usava per mantenere in classe la disciplina e per sollecitare i suoi allievi ad impegnarsi nello studio. Un uso che affonda le sue radici nella tradizione delle scuole dell’Impero Romano e si perpetua, nonostante il dibattito ottocentesco per l’abolizione del suo impiego, in modo più o meno palese sino agli anni 50 del ‘900. La bacchetta troneggia sulla cattedra pronta a dispensare colpi sulle mani e sulle gambe del malcapitato studente indisciplinato o poco attento alla lezione. La “ferula” fa parte integrante della didattica ed è considerata dagli insegnanti essenziale per favorire i processi di apprendimento. Orazio Cancila, commentando la battaglia portata avanti nel 1791 dal prefetto di disciplina e costume sacerdote don Francesco Scannavino sul provvedimento vicereale di abolizione dell’uso della sferza nelle scuole siciliane, afferma:
La proibizione dell’uso della sferza aveva aperto un vero e proprio dibattito non tanto tra i lettori, quanto tra i maestri delle scuole basse, alcuni dei quali, con a capo Scannavino, sostenevano che avrebbe alimentato i disordini, mentre altri pensavano il contrario, convincendo il viceré a confermare la disposizione[3].
Una testimonianza di come fosse ampiamente diffusa l’uso della ferula nelle scuole primarie del ‘500 siciliano lo abbiamo leggendo gli appunti vergati da uno studente palermitano figlio di un notaio. Sul retro di un foglio bianco di un atto notarile della prima metà del sec. XVI, il ragazzo annota le sue angosce per il doloroso impatto della “ferula” del maestro sulle sue spalle e il rifiuto di ritornare in classe per timore di una ulteriore punizione. Il ragazzo scrive:
lo mio maestro volendomi insignari la leccioni a mi me sono fugito da scola, per la qual cosa creddo molto bene me batterà, siche eu ho deliberato non andarli se imprima lo mio patre non li va affarli la scusa mia et poi li anderò, altramenti non li anderò mai perché sono certo che me batteria asperamente et sencza pietati[4].
Completa il suo sfogo disegnando sempre sui fogli bianchi profili di ragazzi e disegni osè. Testimoniando lo sfogo di questo ragazzo palermitano del ‘500 poniamo un ulteriore tassello nella complicata storia dell’evoluzione dell’insegnamento nella scuola primaria dalla sfera del privato a quella del pubblico.
Leggere, scrivere e far di conto nella Sicilia del ‘500 – parte 1
Leggere, scrivere e far di conto nella Sicilia del ‘500 – parte 2
Note:
[1] Il sondaggio è stato effettuato negli atti del notaio de Monte (Asp, Nd, Notaio Giovan Paolo de Monte vol. 2874) utilizzato da mastro Simone per la stipula degli atti con i genitori dei discepoli. Si sono individuati per l’anno 1514 almeno quattro atti, relativi all’iscrizione degli allievi nella scuola gestita da mastro Simone. Nel primo (Ivi, 11 ottobre 1514, ind. 3) «Honorabilis magister Stephanus Lu Poyu magister scolarum» di Palermo, si obbliga con l’onorabile maestro Nardo di Naso “tonsor” a insegnare al figlio Giovanni Andrea di cinque anni «ad scribendum et legendum omnes litteras tam notariscas quam alias». Il compenso è fissato in ducati d’oro 2 da corrispondere in due rate. La prima «statim quod dictus Ioannes Andreas sapirà reyungiri li litteri et alium ducatum ad complimentum» quando si completerà il ciclo didattico. Nel secondo (Ivi, 26 ottobre) Mastro Stefano si obliga con l’«honorabili domine» Jacobo de Vitali ad insegnare al figlio Vincenzo de Vitale, che ha compiuto l’età di 13 anni, «ad legendum litteras notariscas et ad scribendum et de abbaco … dum modo quod quando exiet ab eius auditorio possit retinere librum in apotheca cuiuslibet pannerii». La retta è fissata in onza una da corrispondere metà a Natale e la parte rimanente quando il ragazzo sarà «doctus de supradictis artibus». Nel terzo (Ivi, 30 ottobre) Mastro Simone si obbliga con Jacobo de magistro Jordano ad insegnare al figlio Ippolito di anni 12 «ad legendum, scribendum et de abaco» entro mesi otto. La retta è fissata in tarì 18 da corrispondere tarì sei entro un mese e mezzo, tarì sei entro i due mesi seguenti e, infine, altri tarì sei al termine della docenza. Nel quarto (Ivi, 16 novembre) Mastro Simone si obbliga con il nobile Melcione de Mayda ad insegnare al figlio Blasio, di anni 14, «ad legendum, scribendum et de abaco» entro otto mesi. La retta è fissata in oncia una della quale riceve un acconto di tarì 10 in aquile d’argento, tarì 10 a mesi quattro e tarì 10 al termine della docenza.
[2] Ivi, 1° luglio 1515. Il libraio Vincenzo Pasta affitta all’onorabile Stefano Lu Poyu, maestro di scuola, una casa «consistentem in tribus membris …sitam et positam in contrata Guczette subtus tenimentum domorum ipsius nobilis locatoris» per un anno con decorrenza da settembre (inizio dell’annop indizionale) previa la corresponsione di un affitto di onze tre l’anno. Maestro Stefano versa, al momento della stipula del contratto, al suo padrone di casa un anticipo di tarì 24 in contanti, mentre per la rimanente somma maestro Stefano si impegna a pagarla di terzo in terzo, inoltre, si presta ad insegnare, gratuitamente, al figlio di Pasta «ad legendum, scribendum et de abbaco».
[3] Cancila, Storia dell’Università di Palermo dalle origini al 1860, Roma-Bari, 2006, p. 138. Il Cancila, commentando la battaglia portata avanti nel 1791 dal prefetto di disciplina e costume sacerdote don Francesco Scannavino sul provvedimento vicereale di abolizione dell’uso della sferza nelle scuole siciliane, afferma: «La proibizione dell’uso della sferza aveva aperto un vero e proprio dibattito non tanto tra i lettori, quanto tra i maestri delle scuole basse, alcuni dei quali, con a capo Scannavino, sostenevano che avrebbe alimentato i disordini, mentre altri pensavano il contrario, convincendo il viceré a confermare la disposizione».
[4] Asp, Nd, Spezzone 133 N.
Ninni Giuffrida