Lo Steri di Leonardo Sciascia, tra memoria storica e impegno civile
Sciascia, i graffiti di Palazzo Steri e l’Inquisizione a Palermo nel ricordo della figlia Laura
Una pietra color burro, tagliata a macchina, fa toppa nella vecchia, severa e calda arenaria delle mura; vene di cemento corrono sbavanti tra le connessure delle vecchie pietre, e addirittura sulla facciata; una bellissima scala esterna, cinquecentesca, sembra stia per essere demolita; colonnine e capitelli, scolpiti nella sullodata pietra color burro, fanno orrendo vedere nelle bifore; la pietra lavica che intarsiava gli archi, in quelli ricostruiti si ha l’impressione sia stata sostituita da una decorazione in vernice nera…
Bisogna immaginarli – ma senza fare un grande sforzo di fantasia – gli occhi di Leonardo Sciascia, mentre si posano su quello scempio che fu il restauro dello Steri, negli anni Settanta. Vi si introdusse quasi clandestinamente, insieme al giornalista Giuseppe Quatriglio e al fotografo Ferdinando Scianna.
A ricordare quell’incursione, e la ferma reazione dello scrittore di Racalmuto davanti allo scempio di quel cantiere malconcio, è la figlia Laura Sciascia, scrittrice e già docente di Storia medievale all’università di Palermo: “Anche per vedere i lavori di restauro in corso da parte della Soprintenza – precisa – fu necessario entrarvi di nascosto poiché, sono parole dello scrittore, è rigorosamente vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori, e il divieto è motivato dalla pericolosità, quasi si trattasse di una zolfara, dove peraltro le visite erano permesse”.
Ovviamente, Leonardo Sciascia entrò: lo Steri, l’eretico e dannato Fra’ Diego La Matina, l’Inquisizione e la sua impostura erano temi a lui assai cari, come documentano tra l’altro opere assolute come “Il consiglio d’Egitto” e “Morte dell’inquisitore”. In quella sua incursione, lo scrittore ritrovò i graffiti dei prigionieri del tribunale dell’Inquisizione rivelati da Pitrè. E ne scoprì altri.
“Pitrè aveva reso noti alcuni dei graffiti dei prigionieri quando il palazzo ospitava ancora il tribunale di Palermo – ricorda Laura Sciascia – scritte di devozione e di angoscia, che in ogni paese civile sarebbero stati quanto meno protetti da vetri e convenientemente illuminati, per citare mio padre. Quando cominciarono i lavori di restauro allo Steri, ormai destinato a sede dell’Università, una volta rimosse le scaffalature del tribunale apparvero altri graffiti”.
Alla scelta di farne sede del rettorato, Sciascia si oppose fieramente: si pensò come compatibile destinazione agli uffici del rettorato dell’Università: ché cane non mangia cane, cultura non mangia cultura, annota l’autore del consiglio d’Egitto. Convinto che la “promozione” a rettorato avrebbe restituito al palazzo quella invisibilità di cui i tribunali dell’Inquisizione e dello Stato italiano si erano fatti per tre secoli custodi.
Lo Steri: “grande palinsesto della storia di Palermo e della Sicilia: nato come residenza privata, è stato poi sede della monarchia e dei suoi rappresentanti, i viceré, poi dell’Inquisizione, del tribunale e oggi dell’Università. Tra le sue mura – ricorda Laura Sciascia – si era consumata la fine tragica di quello che era sicuramente il personaggio più amato da mio padre. La storia di quest’edificio non poteva non appassionarlo, così come le condizioni in cui si era trovato per anni il monumento non potevano non indignarlo”.
A definire lo stato di incuria in cui lo scrittore trovò lo Steri bastano poche righe: mucchi di polvere e cartacce, i vetri rotti, le imposte sconnesse. I colombi vi fecero nido, a nugoli. I topi vi si bearono, a legioni. Nella grande sala dal soffitto di legno dipinto, impareggiabile espressione della cultura di un’epoca… era un continuo frullar d’ali e frusciare, tra carte e rifiuti, di topi.
Ma se la denuncia pubblica al Corriere della Sera del pessimo andazzo del restauro furono efficaci – i lavori vennero successivamente affidati all’architetto veneziano Carlo Scarpa, che aveva già restaurato Palazzo Abatellis – i nuovi graffiti scoperti nel corso di quell’incursione rivelatrice andarono inesorabilmente distrutti.
“La cosa che maggiormente indignava mio padre era il fatto che quelle preziose testimonianze erano destinate ad essere distrutte, in nome del ripristino della spazialità originale. Cancellarne la gran parte per arrivare (e chissà?) a quella che si ritiene la spazialità originale, per recuperare qualche colonna e qualche coccio, a me pare un modo di distruggerlo”, scriveva senza darsi pace. Stavolta però fu tutto inutile.
Di questa scoperta, e dell’indifferenza da cui venne avvolta nonostante denunce e pubbliche prese di posizione, resta però testimonianza nel libro “Urla senza suono”, edito da Sellerio.
La barbarie degli uomini non riuscì però a portarsi via tutto: “Solo dopo la morte di mio padre, nel corso del restauro di un altro edificio attinente allo Steri che aveva ospitato le carceri vennero alla luce altri graffiti – conclude Laura Sciascia – oggi fortunatamente ben conservati e studiati. Sempre nel corso di quei lavori fu scoperta la scala dove, secondo la sua ricostruzione, era avvenuta la morte dell’inquisitore per mano di Diego La Matina”.
Un regalo, tardivo, per lo scrittore che si era battuto senza risparmiarsi perché la memoria di quel luogo venisse preservata. Perché trattenesse, conservasse ancora i pianti e le urla e la disperazione di chi in quelle stanze umide e anguste aveva sofferto, imprimendo sui muri il proprio dolore, con scritte e graffiti.
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