L’eredità degli Esuli
Il 22 giugno scorso abbiamo assistito, chi più e chi meno consapevolmente, ad un nuovo esempio di come un messaggio di rivendicazione o una protesta politica possa essere veicolato attraverso uno dei canali storicamente preferiti, ossia lo sport.
Arena Baltika di Kaliningrad (città dalla storia interessante che però non verrà trattata in questa sede): va in scena la sfida valevole per la seconda giornata del girone “E” dei Mondiali di calcio 2018.
Sfida fondamentale per le due formazioni coinvolte in chiave qualificazione, la nazionale Serba e quella Svizzera. Entrambe le selezioni hanno ben figurato nella loro prima uscita: i Balcanici liquidando la pratica Costa Rica e gli Elvetici costringendo al pareggio la ben più quotata nazionale brasiliana.
La sfida risulta molto fisica, soprattutto a centrocampo. La Serbia passa subito in vantaggio ma gli svizzeri non demordono. È il 52’ quando un pallone spazzato malamente fuori area viene intercettato dal centrocampista elvetico Granit Xhaka che lascia partire una bordata che batte il portiere Serbo. La rimonta verrà completata a pochi minuti dalla fine da un altro centrocampista: Xherdan Shaqiri per il definitivo 2-1. Non è tanto la bellezza dei gol o l’importanza del risultato a garantire agli autori delle due reti un posto d’onore nelle pagine di cronaca di mezza Europa bensì i festeggiamenti che seguono le due realizzazioni: Xhaka e Shaquiri caricano quei gesti atletici di un significato extracalcistico, uniscono le mani aperte come ad imitare un uccello restando attenti a mantenere abbastanza distaccati i pollici tra loro.
Xhaka e Saquiri sono figli di esuli delle guerre Jugoslave, un conflitto durato 10 anni (1991-2001)che ha ridefinito non solo la geografia della penisola balcanica ma anche la coesistenza pacifica.
Nella nazionale Svizzera lo sono in tanti: a partire dal commissario tecnico Vladimir Petkovic, croato bosniaco naturalizzato svizzero ( lui a Sarajevo c’è nato e la guerra l’ha vista), passando per Seferovic e Gavranović e finendo appunto a Xhaka e Shaquiri, Albanesi Kosovari.
Quel festeggiamento è l’imitazione dell’aquila bicipite, simbolo identitario della grande Albania e direttamente collegato agli attivisti indipendentisti Kosovari che si scontrarono con la Politica Nazionalista di Slobodan Milosevic dal 1989 al 1999.
La partita tra Serbia e Svizzera quindi al proprio interno manteneva sopito un vecchio conflitto irrisolto, esploso fragorosamente quando due giovani calciatori discendenti di esuli di una delle pagine più buie della fine del millennio hanno voluto veicolare un messaggio politico che poco ha a che fare con la kermesse calcistica o il concetto di Fair Play (tanto da essere condannato e punito dalla stessa Fifa).
Come scritto in altra sede analizzare la dissoluzione della ex Jugoslavia e mantenersi imparziali è una vera e propria palude storiografica che spesso anche gli addetti ai lavori preferiscono evitare. La guerra del Kosovo, le rivendicazioni Albanesi e quelle Serbe rientrano in quell’esercizio come esempio principale. Entrambe le “etnie” si sono macchiate di crimini subendone di conseguenza ed entrambe le identità nazionali per lungo tempo hanno plasmato la propria politica estera con una visione di riunificazione ottocentesca a danno di intere generazioni che cresciute nella rabbia e nella sofferenza mostrano in mondo visione un concetto che noi occidentali avevamo quasi dimenticato: La Polveriera è ancora piena.
Per approfondire:
– Joze Pirijevec, Le guerre jugoslave, Torino, Giulio Einaudi editore, 2001/2002