L’in(cultura) del cancellino. Riflessioni a margine di un edificio comasco
Gli esempi più vicini a noi della cancel culture
Prima di riflettere sulla dimensione globale della “cosiddetta cancel culture”, riflessione che ci porterebbe dalla Cina all’America e oltre, occorre soffermarsi sugli esempi più vicini a noi della cultura della cancellazione. Metodologicamente, forse perché così legato al mondo anglosassone, ho sempre preferito partire, empiricamente, da quel che ho sotto gli occhi, e sotto gli occhi non ho, al momento, le turbe di esagitati che negli Stati Uniti demoliscono le statue di Colombo, o rimuovono quelle dei generali della Confederazione, o le imprese di demolizione cinesi che fanno sparire interi quartieri “antichi” per riedificarli, poi, del tutto uguali ai precedenti; cosa che peraltro mi fa – forse perché di professione sono storico – un certo orrore.
Un plateale atto di vandalismo
Se, un tempo, per bollare d’infamia qualcuno, resosi reo di delitti diversi (ad esempio, di bancarotta o di sottrazione di denaro pubblico, o perfino di unzione malefica) si erigevano “colonne infami” – il contrario dunque della “cancellazione”, e nella mia amata Genova se ne incontra una in via del Campo, la strada o piuttosto il vicolo reso celebre da De Andrè –, e se codesta operazione attirò l’attenzione nientemeno che del Manzoni, ora, in modo alquanto stupefacente, si ricorre alla “cancellazione”, ovvero ad un plateale atto di vandalismo, morale e materiale. Atto che peraltro raggiunge sovente gli obiettivi contrari: ovvero, un pigro, indolente, svagato e digitalizzato studente americano vedrà destato il proprio interesse per Colombo nel momento in cui tal personaggio, a lui per ora più o meno ignoto, sarà “cancellato” con grottesche rimozioni di statue e di nomi. Ed entrerà nella dimensione mediatico-digitale.
Un esempio della cancel culture a Como
Nella città ove lavoro da sedici anni, Como, vi è un singolare esempio, che non passa inosservato, di “cultura della cancellazione”, esempio che si ritrova, a ben guardare, in ogni città italiana e non solo. Basta farci caso. Un bell’edificio, solenne e retorico, articolato in due corpi distinti uniti da un corpo intermedio, d’inizio secolo, troneggia nella parte nord di Viale Cavallotti, in direzione lago. In una città che abbonda di architetture, dal romanico e gotico al razionalismo di Terragni e Sant’Elia, un edificio come questo passa quasi inosservato. Si tratta di un palazzo di inizio secolo, concepito dall’architetto Marrocchi e realizzato dall’ingegner Catelli, su pre-esistenze di metà Ottocento. Ora deserto, a parte per l’Associazione carducciana, benemerita istituzione culturale comasca, ha ospitato a lungo l’Istituto Magistrale Teresa Ciceri (come ricorda una scritta sul fronte in questo caso solo parzialmente cancellata), e per qualche anno – per questo lo conosco bene – anche il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università dell’Insubria, cui afferivo prima di fondare quello nuovo, di Scienze Umane, nel 2019. Nessun segno esterno ricorda invece la presenza, non breve, del mio Ateneo.
Si tratta di un edificio molto bello, per ristrutturarlo occorrerebbero credo diversi milioni di euro, il Comune che lo possiede non li ha, peraltro nella stessa strada, arteria principale nell’asse viario nord-sud, verticale, di Como, lo stesso Comune, ora guidato dall’intraprendente sindaco Rapinese, ha acquisito lo splendido Politeama, ma anche in questo caso, se non intervengono i privati, non si potrà ristrutturare. I costi sono troppo alti (tragedia per l’Italia tutta, ove è presente il maggior patrimonio storico-architettonico del mondo). Non solo bello ed ideale per attività scolastiche, l’edificio, ma anche nobilitato dal fatto che ospitò, nel 1927, primo centenario della morte di Volta, il notissimo congresso internazionale dei fisici, cui parteciparono diversi futuri premi Nobel, incluso Albert Einstein. Vi è una sala visitabile solo in circostanze eccezionali che lo commemora, piena di cimeli.
Un esempio nostrano
Ora, abbiamo qui un esempio “nostrano”, per dir così, di “cancel culture”. Le lapidi che ornano le lesene frontali e laterali dell’edificio contenevano scritte, che sono state letteralmente cancellate, coperte da una passata di calce, rese invisibili. Cosa contenevano tali scritte? Forse nomi di famiglie che si erano compromesse col fascismo? Scritte inneggianti ai valori del Ventennio? Da notare che l’edificio venne occupato dai tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale. Con poca fatica si potrebbe risolvere il mistero, e chissà che non sia facilmente risolvibile cercando negli archivi cittadini, o nella cronaca locale. Sta di fatto che i miei studenti erano molto incuriositi dalla cosa. Se i giovani vengono adeguatamente stimolati, sono i primi ad appassionarsi di storia.
Dunque, chi voleva cancellare cosa? Chi ha – malamente, provvisoriamente – tirato una riga su tali scritte? Probabilmente, se esse vi fossero ancora, non attirerebbero alcuna attenzione, nella ricca e dispersiva semantica del “visibile parlare” (per citare quel grandissimo italianista attivo in Svizzera che fu Padre Pozzi) cittadino. Ma quella improvvida mano di calce stimola la curiosità. I marxisti con locuzione sibillina chiamano tutto ciò “eterogenesi dei fini”. Sarà pure. Ma la riflessione prosegue.
Molte storie cancellate
In un singolo edificio, quante storie cancellate! Chi ricorda quel genio che fu la Teresa Ciceri Castiglioni (1750-1821), inventrice, e donna in tutto e per tutto figlia del secolo dei Lumi? Chi ricorda davvero quel che si dissero le migliori menti del mondo in quel 1927, a parte, banalmente, che se il Nobel fosse già stato presente nel 1800 Volta lo avrebbe vinto di sicuro? Quanti ricordano davvero il pensiero e la vita di Cavallotti, eternato in una statua nel giardino dell’edificio, malconcia come l’edificio stesso? E poi, la cancellazione palese: cosa contenevano tali scritte? Quali idee o piuttosto quali persone/famiglie si doveva così sgraziatamente “cancellare”? E perché nessuno si pone la briga di riportare alla luce tali scritte?
Rischio di cancellazione definitiva
Nel frattempo, se non verrà restaurato, rischia di esser cancellato perfino tutto l’edificio, a parte la porzione in mano ai carducciani, ben tenuta. Qualche sponsor che lo voglia dare all’Insubria (dopo averne finanziato la ristrutturazione)? Siamo sempre a caccia di aule. Ma ultimamente tra gli allievi nel cortile – che perdonatemi non ammettevo in aula – vi erano simpatici animaletti di quelli resi famosi da Walt Disney. Ricordo i miei studenti: “Prof!! Ha visto che grosso, sembra un gatto…”. Ed io, per rassicurarli, “Tranquilli, È un gatto”. Insomma, più o meno. Il proverbio tedesco dice “so viel schein, so viel sein”, insomma, quel che appare in un modo è in un modo (noi diciamo invece “l’abito non fa il monaco”, con mediterranea dissimulazione e sottigliezza).
Qui siamo nel pieno di un processo molto complesso di cancellazione. Che riguarda vari strati e varie dimensione semantiche. Se poi l’edificio andrà in totale rovina e dovrà essere abbattuto, ebbene la cancellazione sarà totale. Speriamo naturalmente che ciò non accada. Ma le spirali “cancellatorie” qui sono davvero tante.
Vi sono tanti modi per cancellare, ma forse uno solo per ricordare.
Paolo L. Bernardini