L’isola dei piaceri e i conventi dei peccati di gola
Archestrato Calcentero è un gioco di parole. Il gelese Archestrato nel IV secolo a. C. fu autore – con versi da poema epico – della prima guida gastronomica della storia. Calcentero invece è una invenzione. In greco significa più o meno stomaco di bronzo. “I Quaderni di Archestrato Calcentero” è il titolo che Marco Blanco, giovane e brillante libraio in Modica, ha voluto dare alla densa monografia sulla cucina siciliana aristocratica e conventuale appena pubblicata da Bonfirraro (276 pagine, 23 euro), un profilo archeogastronomico dell’isola, una vera e propria antropologia del gusto siciliano. Per scriverla, Blanco ha consultato centinaia di antichi ricettari in impolverati archivi e in vecchie biblioteche di conventi e monasteri.
Interessantissima la scoperta dei pizzini, i cosiddetti tronchetti della spesa dei conventi. In particolare dei Benedettini di Catania, quello dei Vicerè di De Roberto. Sul tema si sofferma Simonetta Agnello Hornby, la scrittrice siciliana che dal primo successo internazionale della Mennulara al recente Caffè Amaro ha sempre trovato nella cucina molti spunti narrativi. Un suo mèmoire – raccolto da chi firma questo articolo – chiude a mo’ di postfazione il volume di Blanco. Le ricette conventuali citate in alcun romanzi sono quelle di famiglia, in molti casi, raccolte da una prozia della madre. Era racconta la scrittrice – una benefattrice inconsueta: faceva donazioni per pagare la dote delle ragazze povere. Queste mettevano un bigliettino con il loro nome nella botola del convento del paese per partecipare all’estrazione e vincere il premio. La scrittrice ricorda il convento delle Cappuccinelle, dietro il tribunale di ora. Quando l’ho visitato mi ha affascinato. Proprio all’entrata, sulla porta, c’è una locandina di vetro con il Bambino Gesù che gira. Quando è vestito da povero o nudo vuol dire che le monache non hanno da mangiare, servono donazioni. Se invece è cunzato, vestito, è buon segno. L’Ordine cui aderiscono quelle suore è povero per definizione, però quel convento non è per niente povero. Fu fondato nel Settecento da un lontano parente della Principessa di Belvedere. Era un periodo di grande decadenza dei conventi perchè la vita all’interno era molto allegra da tutti i punti di vista. Si raccontava che per carnevale si svolgessero feste decisamente osè con sfoggio di abiti affascinanti ma un po’ troppo scollati. Storie del passato. Adesso sono castigatissime e morigerate.
Agnello Horby cita anche gli aneddoti raccolti dal Pitrè. Uno, divertente e malizioso, riguarda i famosi viscotti regina, i popolarissimi biscotti col sesamo. Durante i sei forzati mesi di permanenza in Sicilia, dopo l’invasione francese di Napoli, la regina Carolina prese l’abitudine di approfittare un po’ troppo dell’ospitalità nei conventi. Un giorno le monache non ebbero di meglio da offrire che i biscotti della colazione che, per la loro forma, erano chiamati cazziteddi di parrino. Alla richiesta di come si chiamassero, imbarazzate, prontamente le monache li ribattezzarono biscotti regina.
Nei conventi dimostra Blanco – si praticava l’alta cucina, non si rinunciava al piacere della gola. I nobili costretti a indossare l’abito talare portavano al proprio servizio i monsù di palazzo, favorendo così la convergenza tra gastronomia aristocratica e cucina conventuale. Ma sbaglieremmo – spiega Agnello Hornby – a dimenticare che alcuni conventi si specializzavano nell’esaltazione dei cibi poveri e per i poveri. Alcuni realizzavano straordinarie paste con i ceci, altri gustosissime pietanze piccanti. I piaceri della gola sono considerati peccati. Ma è il mangiare troppo che è peccato, l’ingordigia è peccato, fa anche male alla salute. Dobbiamo mangiare per sopravvivere e quindi cerchiamo di mangiare bene. Non ci si fa caso, ma tra i sensi, il gusto è l’ultimo a lasciarci, quando non si hanno più neanche le forze per cibarsi. L’attaccamento alla vita si rivela quando non mangiamo più, quando non vogliamo più mangiare.
Altro tema della ricerca è il cibo come elemento identitario, tanto più quando si vive lontani. Si dimentica il dialetto, non così i sapori e gli odori. C’è una logica in questo, spiega la scrittrice. Si può mantenere o meno l’accento – io l’ho conservato anche nel mio inglese – ma la lingua cambia. La lingua dell’emigrante resta antica, ferma, viene ridotta a dialetto; in patria invece si evolve. Quindi a Londra non parlo siciliano, ma cucino siciliano. Con la cucina si mantengono le radici, la cultura. Me lo hanno insegnato degli amici ebrei. Nessuno di loro parla yiddish o ebraico, ma cucinano con abitudini, preparazioni e norme ebraiche. Questo è raffinato, è umano, nel senso di essere superiore. Invece il continuare a comunicare con una certa lingua ti fossilizza. E’ consciamente si fanno le ricette tradizionali perchè poi ci sono le altre ricette non tradizionali, perchè ovviamente anche la cucina si evolve. E’ stato così anche per la cucina siciliana: le melanzane non c’erano fino a qualche secolo fa, come anche il pomodoro.
Coloro che volessero approfondire il tema del rapporto tra la cucina aristocratica e conventuale possono consultare la mèmoire allegata in PDF (memoire-di-carlo-ottaviano-e-simonetta-agnello-hornby)