L’Italia libertina: un problema storico ancora aperto – prima parte
A Roma, nel 1659, durante una fiera di pittura, il napoletano Salvator Rosa espose una grande tela. Rappresentava la Fortuna che con una enorme cornucopia riversava i beni terreni e le cariche politiche ed ecclesiastiche sugli animali più volgari. La porpora che cingeva l’asino rappresentava il potere della curia romana, al cui vertice in quella fase vi era Alessandro VII, proveniente dalla influente famiglia di banchieri senesi dei Chigi. La provocazione del pittore napoletano suscitò un grave scandalo, poiché il quadro apparve a tutti per quello che era: una gigantesca pasquinata, una salace irrisione della società italiana e degli uomini che la governavano.
Nella Roma barocca, il popolo non aveva accesso alle cariche pubbliche, né tantomeno alle notizie politiche. Esercitava però il diritto di critica a suo modo, diffondendo avvisi e fogli satirici anonimi, come quelli che erano collocati nottetempo nei pressi della statua parlante di Pasquino. La pasquinata diventava quindi il principale mezzo di partecipazione alla politica da parte di coloro che non avevano alcuna voce in capitolo. Le pasquinate, facendosi beffe dei potenti, descrivevano una sorte di mondo alla rovescia: l’umanità aveva perso la bussola, la virtù era bandita e solo il caso restava a presiedere la lotteria del mondo. La dea pagana entrava così nella vita quotidiana dei romani, ma sembrava avere sembianze molto diverse da quelle della “divina provvidenza” di cui parlavano i predicatori dai loro pulpiti.
Salvator Rosa non era nuovo a questo genere di provocazioni. In un suo splendido autoritratto si era effigiato come “libertinus”, un termine che esprimeva allo stesso tempo il suo animo repubblicano, la libertà di giudizio, l’anticonformismo morale. A ben vedere, l’uso che il pittore faceva di questo termine era molto eccentrico, poiché esso, così com’è entrato nel discorso filosofico, rappresenta una categoria degli storici, non dei contemporanei. Mi spiego meglio. I filosofi francesi che noi oggi inscriviamo in questa categoria, come Montaigne, Charron, Naudè, Le Vayer, non definivano se stessi in questo modo. Anzi, se ne sarebbero guardati bene. Tra Cinquecento e Seicento, infatti, come ha mostrato Carlo Ginzburg, il termine era stato usato per definire alcune frange radicali del calvinismo che intendevano arrogarsi la libertà di interpretare liberamente la Bibbia. Alcuni di essi, inoltre, ritenevano che si potesse vivere secondo l’insegnamento delle Sacre Scritture senza rinunciare a una vita sessualmente libera. Ma vi era anche un’ulteriore accezione del termine, diffusa in Italia già nel ‘500, quando in questo modo vennero chiamati i sostenitori della repubblica fiorentina del 1527. Libertino era quindi colui che difendeva il valore della libertà in senso repubblicano. È probabile quindi che il libertinismo di Rosa fosse legato anche al suo apprezzamento per la figura di Masaniello e più in generale per la rivoluzione napoletana del 1647. Nessuna sorpresa, quindi, nel constatare come il termine fosse usato soprattutto dai cattolici e i tradizionalisti con un’accezione negativa, se non spregiativa. Ed è proprio con questa tonalità polemica che il termine fu adoperato dal gesuita Garasse, nel 1623, in un enorme libro intitolato La doctrine curieuse des beaux esprits de ce temps. Un testo affollato di erudizione e di vis polemica, in cui volle denunciare la protervia di questi nuovi increduli che richiamavano idee e tendenze che la chiesa si era impegnata a reprimere sin dai primi secoli. Il gesuita osservava l’emergere di un nuovo tipo di intellettuale, incapace di praticare la moderazione, ma che al contrario abusava dell’erudizione ed era incline al vizio e alla crapula. Il luogo d’elezione di questi “nuovi Eliogabali” era la taverna. Garasse si professava irritato dal loro sarcasmo su tutto quanto era ritenuto sacro e degno di venerazione; per molti versi essi sembravano gli eredi di quella tradizione goliardica medievale che aveva elaborato diversi miti anticattolici.