Magistratura e politica – parte prima
Dell’importanza dell’imparzialità del giudice (sotto ogni punto di vista)
Credo che uno dei fattori che, maggiormente negli ultimi anni, ha contribuito alla perdita di credibilità della magistratura (e in definitiva alla sua stessa delegittimazione, con il conseguente affievolimento di quei principi di imparzialità e indipendenza sui quali, in uno Stato di diritto, a garanzia di tutti i cittadini, si fonda il potere giudiziario) sia da ricercare nella sempre più frequente e preoccupante contiguità di alcuni settori della magistratura stessa con questa o quell’area politica. O, per dirla in una parola, nella politicizzazione del giudice: convinzione oggi vieppiù rafforzata dalle recenti cronache.
Tale fenomeno non soltanto si è, di fatto, manifestato in occasione di inchieste penali che hanno coinvolto politici, pubblici amministratori, personaggi del mondo imprenditoriale. Ma, in passato, la politicizzazione del giudice è stata addirittura esplicitamente teorizzata da alcuni appartenenti allo stesso ordine giudiziario aderenti a quella che, con un termine ormai usuale, potremmo definire “l’area progressista” della magistratura.
In un convegno di magistrati (parecchi anni fa a Gardone), uno dei relatori sostenne la necessità che la magistratura assumesse un proprio ruolo politico, e ciò per la considerazione che la funzione giurisdizionale è un’attività essenzialmente politica. E ancora, in altro congresso dell’Associazione nazionale magistrati (svoltosi a Trieste, anche questo alcuni anni or sono), qualche magistrato di quell’area progressista di cui si è detto sostenne che, essendo l’imparzialità del giudice una mera utopia, fosse necessaria e anzi doverosa la parzialità e la politicizzazione del giudice stesso. Il quale dovrebbe operare una scelta a favore dell’una o dell’altra parte politica, dell’una o dell’altra classe e a questa scelta improntare la propria attività giurisdizionale.
Non sono poi mancati quei magistrati (si pensi ai cosiddetti “pretori d’assalto” di triste memoria) che ritennero di doversi attribuire il ruolo di mediatori esclusivi dei conflitti sociali: mediazione che si esplicava in funzione delle loro idee politiche e che consentiva loro di pervenire a decisioni giurisdizionali apertamente in contrasto con la legge vigente. Senza parlare poi di quei magistrati che in pubblici convegni si sono dichiarati “riformisti” e che hanno sostenuto doversi identificare la funzione del giudice in un vero e proprio “dovere di resistenza al potere”.
Ma ci si è spinti ancora oltre. In una mozione approvata il 30.11.1969 da Magistratura democratica, si è auspicata una selezione politica dei magistrati, destinata a sostituire – in palese violazione dell’art.51 1° comma della Costituzione – il reclutamento fondato sulla competenza tecnica.(art.106 1° comma Costituzione). Si auspicava, in altri termini, un controllo ideologico sui giudici. In passato poi, illustri giornalisti – tra cui Giorgio Bocca – sempre della cosiddetta area progressista, non potendo probabilmente negare l’evidenza, hanno ammesso che ”una magistratura democratica, sottoposta ai condizionamenti e alle intimidazioni del potere, abbia cercato un protettore nel partito comunista che dal potere era estromesso.”
Dimenticano, gli illustri sostenitori di siffatte teorie, che nella Costituzione italiana è stato fondamentalmente attuato il principio della separazione dei poteri. Per cui – accanto ad un potere legislativo, la cui funzione è quella di creare delle norme generali e astratte – vi è un potere giudiziario la cui funzione è esclusivamente quella di applicare tali norme ai casi concreti, e un esecutivo cui spetta determinare l’indirizzo politico che condiziona tutta l’attività dello Stato nel suo complesso. Montesquieu, nel formulare per primo il principio della separazione dei poteri, osservò che tale distinzione costituiva la migliore garanzia per la libertà dei cittadini. Se quindi d’indirizzo politico della magistratura si deve parlare, questo non può essere inteso che come rispetto dei principi sanciti dalla Costituzione (principi etici, sociali, economici, di libertà) che devono considerarsi il prodotto delle scelte politiche del Costituente; rispetto dei principi che, per il magistrato, non può peraltro considerarsi una scelta politica ma un ben preciso obbligo giuridico.
A prescindere da queste affermazioni di principio, è comunque un dato di fatto innegabile che sin dagli anni Settanta si è verificata quella che un elemento laico del passato C.S.M, in un suo intervento al plenum del consiglio, definì “la strategia della infiltrazione egemonizzante”. Basti pensare come in quegli anni si sia assistito all’occupazione, da parte dei magistrati della corrente progressista, dei posti di Pretore del lavoro, così da potere gestire, secondo le proprie ideologie politiche, il conflitto tra lavoratori ed imprenditori.
Per citare qualche esempio concreto, è rimasto famoso quel Pretore che con sentenza istituì il numero chiuso in una facoltà universitaria. O quel Pretore del lavoro che (partendo evidentemente dal presupposto che il lavoratore ha sempre e in ogni caso ragione) reintegrò il dipendente che, essendo stato sorpreso a intrattenere una relazione con la moglie del proprio datore, era stato da quest’ultimo licenziato. Il Pretore in questione motivò la decisione sostenendo che quella situazione non integrava la “giusta causa “ di licenziamento e che non era tale da incrinare il rapporto di fiducia che deve necessariamente intercorrere tra lavoratore e datore di lavoro, e il cui venir meno non può non portare alla risoluzione del rapporto di lavoro.
O ancora si pensi alla conquista delle Procure di maggiore importanza strategica, e della stessa Direzione nazionale antimafia. E ciò al fine di realizzare – come è stato osservato dal già citato componente del C.S.M – ”l’idea del processo penale come strumento di aggressione borghese o l’idea della accusa penale da fare valere come arma di attacco politico”. Sempre il suddetto componente ha evidenziato come in particolare a Palermo, a Napoli, a Roma, a Milano si assista ad un continuo afflusso di magistrati di M.D. e Verdi, la cui presenza appare ormai largamente maggioritaria quasi dappertutto. Mentre a Bologna e nell’Emilia Romagna, e cioè nelle Procure delle aree a forte radicamento pidiessino, la presenza di M.D. e Verdi è tradizionalmente altissima, raggiungendo oggi quasi i due terzi del totale.
D’altronde non bisogna dimenticare che, all’inizio degli anni Ottanta, il segretario regionale del P.C.I., Pio La Torre sostenne che “il popolo senza la magistratura non può farcela, la magistratura senza il popolo non può resistere”. Il che altro non significa che la teorizzazione della “via giudiziaria al socialismo” e cioè l’uso dello strumento giurisdizionale per il sovvertimento degli equilibri di potere esistenti, quando tali equilibri non sia possibile mutare mediante le normali dinamiche elettorali.
Non vi è chi non veda l’estrema pericolosità di siffatte teorizzazioni e delle conseguenti concrete attuazioni che finiscono con il legittimare quei gravi sconfinamenti del potere giudiziario in danno dell’esecutivo e del legislativo. E ciò in violazione del principio della separazione dei poteri che, attuato dalla nostra Costituzione, rappresenta la migliore garanzia per la libertà dei cittadini. Sconfinamenti che negli ultimi anni certamente si sono verificati sia per il clima politico determinatosi nel nostro Paese, ove la lotta politica ha assunto toni particolarmente aspri e violenti sia, come si è detto, per la presenza all’interno della magistratura di giudici molto ideologizzati o comunque contigui a determinate aree politiche, per lo più di sinistra. Il che ha dato luogo a un fenomeno preoccupante costituito dall’uso sempre più frequente della giurisdizione come arma di lotta politica. Obiettivo che è perseguito soprattutto attraverso lo strumento dell’inchiesta penale, spesso finalizzata a un’azione di appoggio a favore di una delle parti impegnate in uno scontro politico per la determinazione dell’indirizzo di governo.
Non vi è dubbio che uno degli strumenti che maggiormente si presta al perseguimento delle suddette finalità sia l’istituto dell’informazione di garanzia, il cui precedente legislativo è costituito, come si ricorderà, dall’analogo istituto della comunicazione giudiziaria. Ciò che indusse il legislatore a trasformare la comunicazione giudiziaria in informazione di garanzia, fu la constatazione che la prima – anziché assolvere a quelle finalità di garanzia per le quali era stata istituita – aveva (mediante un uso talvolta distorto e spesso disinvolto), finito con il determinare notevoli lesioni della reputazione di indiziati. Che poi, magari, a conclusione delle indagini, finivano con il risultare completamente esenti da responsabilità pagando così, sia in termini di immagine sia di costi umani, un prezzo elevatissimo.
La differenza tra la comunicazione giudiziaria e l’attuale informazione di garanzia non è soltanto lessicale ma sostanziale, dato che quest’ultima, così come disciplinata e se correttamente utilizzata da parte del magistrato, contempera l’esigenza di garanzia che è propria di tale istituto. Con l’esigenza, del pari rilevante, di evitare i danni di cui si è detto e che si verificavano appunto con la comunicazione giudiziaria. Pertanto, mentre la comunicazione giudiziaria doveva essere inviata sin dal compimento, da parte del pubblico ministero “del primo atto di istruzione”, l’informazione di garanzia deve essere data soltanto “sin dal compimento del primo atto al quale il difensore ha diritto di assistere”. Differenza, questa, di non poco conto. Perché ciò comporta che il pubblico ministero, ricevuta la notizia di reato, potrà svolgere tutte le indagini preliminari che riterrà necessarie.
E al termine, ove l’ipotesi di reato dovesse risultare infondata, potrebbe richiedere l’archiviazione e ciò senza che sia necessario inviare all’indagato alcuna informazione di garanzia. Che invece si renderà necessaria soltanto se, nel corso delle indagini, si ravvisi la necessità di interrogare l’indagato o di procedere a una perquisizione o a un sequestro.
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