Mario Savio, il siciliano che accese il Sessantotto in California
“I luoghi e i racconti più strani della Sicilia” è il volume scritto a quattro mani da Carlo e Giulia Ottaviano (padre e figlia, giornalista lui, scrittrice lei) per i caratteri della Newton Compton, in libreria da questa settimana. Tra i 10 capitoli del volume uno è dedicato agli “scappati di successo”, siciliani o figli di siciliani diventati famosi nel mondo. Per gentile concessione dell’editore e degli autori, pubblichiamo le pagine dedicate a Mario Savio, lo studente che nel 1964 a Berkeley, in California, diede il via alle contestazioni studentesche.
di Carlo e Giulia Ottaviano
Ma quando è iniziato il Sessantotto? Non l’anno – il Sessantotto – ma il movimento che nel Novecento sconvolse il mondo e portò le istanze delle nuove generazioni al centro dell’attenzione universale? Quali parole accesero la fiamma, dove, e chi le pronunciò? Molti storici indicano come luogo Berkeley, il più grande campus studentesco della California, e la data del primo ottobre 1964, neanche un anno dopo l’omicidio di John F. Kennedy. Il nome che fanno è quello di Mario Savio, americano di prima generazione, figlio di genitori che erano partiti anni prima da Santa Caterina Villarmosa, in provincia di Caltanissetta. La vita di Mario, nonostante la nascita a New York l’8 dicembre 1942, è quindi la storia di un uomo siciliano al cento per cento, per origini e spesso anche modi di fare: il rifiuto della prevaricazione dei forti e il contemporaneo rispetto per l’istituzione che quegli stessi prepotenti rappresentano, quasi una contraddizione.
Raccontiamo allora quell’inverno del 1964. All’inizio dell’anno accademico il rettore dell’università Clark Kerr aveva autorizzato la polizia a circolare nel campus per evitare assembramenti di studenti. Gli States erano in guerra in Vietnam e i caduti iniziavano a essere tanti; i Beatles erano arrivati a New York a febbraio per la loro prima tournée oltreoceano e a furor di popolo erano stati richiamati per altri venticinque concerti in estate. «Le idee devono restare fuori dal campus», aveva detto il rettore, e ricordatevi questa frase: «L’università è una fabbrica e serve a riempire le teste vuote, per farle lavorare per il sistema». Il primo ottobre un ragazzo nero fu fermato dagli agenti per aver semplicemente distribuito volantini di protesta (il termine “contestazione” non era stato ancora “inventato”). Mario Savio – alto, magrissimo, capelli a cespuglio, occhi azzurri, come verrà descritto poi dalle cronache – si avvicinò e, prima di salire sul tetto dell’auto della polizia, si tolse le scarpe: «Così non danneggio una proprietà dello Stato», spiegò. Resterà un intero giorno e due notti – trentadue ore in tutto – sull’auto a parlare ininterrottamente fin quando gli agenti non libereranno Jack Weinberg, il ragazzo di colore.
Nacque esattamente in quel momento il Free Speech Movement; Mario, dal canto suo, divenne l’idolo degli studenti. Due mesi dopo – il 2 dicembre a Sproul Plaza – pronuncerà il discorso alla base del Sessantotto. Queste le sue parole: “Il rettore ci ha detto che l’università è una macchina; se è così, allora noi ne saremo solo il prodotto finale, su cui non abbiamo diritto di parola. Saremo clienti – dell’industria, del governo, del sindacato… Ma noi siamo esseri umani! Se tutto è una macchina, ebbene… Arriva un momento in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, ti fa stare così male dentro, che non puoi più parteciparvi, neppure passivamente. Non resta che mettere i nostri corpi tra le ruote e gli ingranaggi, sulle leve, sull’apparato, fermare tutto. E far capire a chi sta guidando la macchina, a quelli che ne sono i padroni, che finché non saremo liberi non potremo permettere alla macchina di funzionare”.
Insomma, c’è un po’ di Made in Sicily nella contestazione giovanile del Novecento in Usa. E anche di questo i genitori di Mario furono sempre orgogliosi. Dalla Sicilia erano andati via all’inizio della seconda guerra mondiale, lasciando il lavoro di “pignatari”, cioè produttori di pentole di argilla e terracotta. Stabilitisi nella Grande Mela, si trasferirono in California proprio per stare vicino al figlio, che in tutti i corsi scolastici aveva sempre dimostrato ottime capacità nello studio e lì avrebbe frequentato l’università. Grazie al clima mite della Baja, papà Joseph riuscì a coltivare nel suo giardino diverse piante e alberi tipici del territorio siciliano, quali fichi, fichi d’India, carciofi, peri, ciliegie e verdure da orto. Mario, divenuto docente di filosofia e preside della Sonoma State University, nonché icona della controcultura americana e della rivolta del Sessantotto, morì per un infarto nel 1996 mentre ricopriva la carica.
A Santa Caterina Villarmosa si discute periodicamente se dedicargli una strada o una piazza, un monumento o una palestra. Non si riesce però a mettersi d’accordo, mancando evidentemente qualcuno dotato delle sue stesse proprietà oratorie.