28 dicembre 1908: il terribile terremoto che colpì Messina
Nel suo romanzo “A occhi bassi”, Tahar Ben Jelloun, descrivendo la perdita della memoria come una conseguenza del terremoto, narra che per i sopravvissuti di Agadir rimasti senza ricordi dopo il sisma del 1961 vi erano i “venditori di vento”, cioè i venditori di ricordi che sopravvivevano, a loro volta, con “il piccolo commercio della memoria” inventando ricordi “per quelli che non ne avevano o che li avevano dimenticati” tra le macerie della città marocchina.
Le città dei terremoti, oltre le vite umane e i danni materiali, perdono anche identità e memoria di sé e, anche se ricostruite “dove erano e come erano”, senza una visione di “lunga durata” non sempre riescono a ricordare “cosa erano”, a capire “cosa sono” e a progettare “cosa saranno”.
Dopo il disastroso terremoto del 28 dicembre 1908 (in macerie quasi il 90% della città e morti circa 80.000 dei 147.000 abitanti), anche Messina ha avuto i suoi “venditori di vento” che insieme ai “venditori di fumo”, forse più delle forze della natura e delle devastazioni materiali, hanno contribuito a renderla oggi una città senza memoria e soprattutto senza “anima”, senza quel forte senso civico di appartenenza e quella costante difesa dell’identità cittadina che avevano caratterizzato, in particolare, il suo “lungo Ottocento” racchiuso tra due terremoti, quello del 1783 e quello del 1908.
Al di là delle ovvie differenze in termini di perdite umane e distruzioni materiali, le due catastrofi segnano due svolte di segno opposto per la città. Con molti edifici in macerie e circa 700 vittime tra i 43.000 messinesi, il terremoto del 5 febbraio 1783 è dopo la peste del 1743 e la carestia del 1763 il punto più critico del “nero ‘700 di Messina” (C. Trasselli), ma segna anche il punto di avvio per quella positiva ripresa che per tutto l’800, grazie anche al privilegio del portofranco del 1784 (abolito solo nel 1880), ruoterà intorno al porto e al commercio marittimo. Quel sisma non stravolge l’“anima” né cancella l’identità della città che per oltre un secolo tornerà ad esprimere, come prima, potenzialità economiche e peculiarità sociali in una dimensione più mediterranea che regionale.
In una diversa congiuntura, il terremoto del 1908 è al contrario il punto “nero” in una lunga fase di crescita economica e sociale poiché cancella l’identità della città in modo irreversibile. Dopo il 1783 la città dello Stretto, oltre al suo nuovo assetto urbanistico, riavvia anche un progetto per riaffermare la sua identità legata alle funzioni del porto e del commercio marittimo, mentre dopo il 1908 la città inizierà solo una lunga ricostruzione di case e palazzi con i più moderni criteri antisismici, ma senza un vero progetto per ri-definire una sua identità, né vecchia né nuova.
Sotto le macerie del 1908 vi sono non solo uomini e cose, ma anche le memorie di una città che, proprio sull’autorappresentazione del suo ruolo, aveva costruito nel bene e nel male la sua identità nei secoli precedenti. Certo, ancora una volta la città risorgerà come l’Araba Fenice, ma lo farà con un’anima profondamente diversa, proprio come i superstiti del sisma che apparivano uguali a prima nell’aspetto, ma profondamente diversi nell’animo. Pochi giorni dopo il disastro, il 12 gennaio 1909, il Parlamento ribadisce il ruolo “insopprimibile” della città di Messina e ne delibera la ricostruzione nel suo sito originario, ponendo così fine alle discussioni e alle polemiche sulla possibilità di riedificarla in altro sito o di non ricostruirla affatto.
Come scriveva in quei giorni Vittorio Cian, docente di Storia della letteratura italiana all’Università di Messina, “senza dubbio, una città nuova spunterà, lentamente, lì accanto. Ma della prima essa non avrà che il nome e qualche migliaio di superstiti, simili a naufraghi, afferratisi alla loro sponda natale. Ma la vecchia Messina, la bella e cara Messina, la città della storia, del patriottismo, della scienza e dell’arte, è scomparsa inesorabilmente”.
Dalle macerie la città, ancora una volta rediviva, sarebbe rinata grazie alla solidarietà nazionale e agli aiuti internazionali, ma senza le stesse funzioni ormai “inesorabilmente” sparite e, quindi, senza “anima”. L’anima della vecchia città era il porto, come scriveva Luigi Barzini sul «Corriere della Sera» il 4 febbraio 1909:
“Messina esisteva soltanto perché aveva un porto” e, perciò, il governo doveva “far rivivere il cuore della città morta”, cioè il suo porto, piuttosto che pensare a riaprire gli uffici statali.
Barzini sottolineava la prioritaria necessità di ridare a Messina subito quella sua vitale “sorgente di ricchezza” piuttosto che dare vita a una “città amministrativa” alimentata “artificiosamente” dagli aiuti e dagli interventi statali. Invece, come mette in evidenza nel 1913 Giorgio Mortara (“Come vive dunque Messina?”), dopo il sisma è soprattutto lo Stato a fornire le prime fonti di reddito (pubblico impiego, lavori pubblici, ecc.), mentre si riducono i proventi dal commercio marittimo e da attività imprenditoriali: la borghesia mercantile, per secoli egemone nella realtà cittadina, non ritrova più una sua specificità economica, mentre un nuovo blocco di potere unisce interessi politici, economici e finanziari intorno alla ricostruzione edilizia pubblica e privata.
La mutazione genetica si riflette significativamente nel porto che è sempre più luogo di transito per viaggiatori che attraversano lo Stretto con i ferryboats così come è sempre più approdo per merci prodotte altrove e sempre meno scalo da cui spedire le produzioni locali. La metafora della mutazione genetica della città e del suo porto è evidente nello spostamento e nella rotazione della statua di Nettuno sulla fontana del Montorsoli: prima il dio del mare si ergeva lungo la Palazzata davanti al Municipio volgendo le spalle alle acque del porto quasi per unire il mare alla città, mentre dopo Nettuno è spostato davanti alla Prefettura e, volgendo le spalle alla città, con il suo braccio teso sembra quasi allontanare il mare dalla città. Dopo il 1908, in realtà, la città dello Stretto sposterà anche il suo sguardo dal mare alla terra, dalla proiezione marittima e commerciale alla centralità urbana che la allontana dal porto e la ancora alle funzioni dei servizi terziari fino ai nostri giorni.
Dopo il 1908 la città è stata ricostruita nello stesso luogo “dove era” e non più “come era” per ragioni antisismiche, ma sicuramente senza ricordare “cosa era” e quindi senza sapere “cosa è” e “cosa sarà”. Paradossalmente la città è risorta dalle macerie reali provocate dalla natura, ma non da quelle virtuali provocate dagli uomini.
Dopo il 1908 le calamità “umane” e non già quelle naturali recideranno quel poco di memoria e di identità che pure restava, trasfigurando o cancellando la storia di una città che in precedenza era riuscita a guardare contemporaneamente al passato e al futuro, proprio come l’Angelus Novus che Paul Klee dipinge nel 1910 e nel quale Walter Benjamin vedrà “l’angelo della storia” che, pur irresistibilmente sospinto dal progresso verso il futuro, vola però con il viso rivolto verso le macerie del passato. Dopo il 1908 forse il cielo sopra Messina non ha più visto volare nessun “angelo della storia”, ma sicuramente ha visto apparire le meteore dei “venditori di vento” che non hanno restituito memoria del passato e prospettiva del futuro alla città sospesa in un suo “presente permanente” senza identità, senza radici e senza “anima”.