Mistero, Ragione, Verità, la “filosofia” di Leonardo Sciascia
Sciascia e la filosofia
Nell’approcciarsi al tema “Sciascia e la filosofia”, la critica in genere segue un doppio percorso.
Da un lato procede a rintracciare i riferimenti espliciti a testi, temi, autori e opere “filosofiche”; dall’altro cerca di capire se questi riferimenti si compongano in una unità sistematica da cui venga fuori una concezione sciasciana del mondo e della vita per quanto possibile unitaria.
Anche recentemente questa via è stata ripresa in un convegno del 2014 promosso dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, i cui atti sono stati pubblicati nel 2015 nella rivista Todo Modo. Da questi contributi si rivela una presenza di filosofi nelle opere di Sciascia che ha come protagonisti, tra gli altri: Gorgia, Montaigne, Voltaire, Diderot, Rousseau, Pascal, Kant, Unamuno, Ortega y Gasset, e gli italiani Giuseppe Rensi e Pirandello. Uno stranissimo mix di scetticismo e illuminismo, il cui risultato sarebbe quel “pessimismo” sciasciano derivante da un’ansia per la verità e per la ricostruzione razionale, destinata ad essere perennemente frustrata dallo scontro con il reale “in carne ed ossa”. In una dinamica che, seguendo il dialogo tra l’anziano capomafia Don Mariano e il Capitano Bellodi de Il giorno della civetta, potremmo chiamare “la legge del pozzo”:
La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.
Come a dire che la cosa strutturalmente impossibile è la presenza contemporanea di chi cerca e di ciò che è cercato nella sua oggettività. In un allontanamento continuo della “cosa” rispetto ad un soggetto che provi ad avvicinarsi più del consentito. Vorrei allora provare a ripensare questo movimento rimettendo in circolo alcuni dei concetti filosofici fondamentali tra i quali Leonardo Sciascia amava, non solo letterariamente, “giocare”.
Mistero, ragione e verità
Quale, dunque, la connessione tra queste istanze? Per cominciare potremmo dire che Mistero ha certamente a che fare con il giallo, ma non solo. È, per così dire, la condizione di partenza di ogni indagine, anche quella che ognuno di noi fa su se stesso e sul proprio stare al mondo dal momento in cui nasce fino alla morte. Il primo e più importante romanzo giallo che ci troviamo a decodificare parte dalla domanda: perché ci siamo? Quale ne è il senso, la causa; se vogliamo, che è l’artefice? Ragione è la ragione illuministica, la torcia accesa nel buio che rischiara e produce anche ombre intorno a sé. Ma soprattutto, in Sciascia, è il vincolo che tiene coesa una narrazione, la plausibilità delle connessioni logiche, storiche e psicologiche che rende una narrazione vero-simile, plausibile, in breve: letteraria. Ricordiamo come la critica che Sciascia fece alla ricostruzione offerta dai giudici sul ruolo di Enzo Tortora nel processo alla Nuova Camorra Organizzata fosse anzitutto di carattere ricostruttivo, “letterario” come dice lui, nel senso di una ricostruzione che non reggeva e anche per questo appariva “scritta male”.
Verità è indubbiamente il concetto più problematico, in questo contesto. La ricerca della verità è infatti la missione principale dell’intellettuale-investigatore. Come racconta Sciascia in una testimonianza contenuta in A futura memoria:
Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità.
Altri concetti collegati ai tre che compaiono nel titolo sono quelli di giustizia e di potere. Il modo in cui queste istanze vengono fuori dalla dialettica dei primi tre deve essere oggetto di un’attenzione particolare nell’attraversamento dei gialli sciasciani. Se si analizza infatti la produzione dello scrittore da Il giorno della civetta (1961) a Una storia semplice (1989) viene fuori, dalla struttura del cosiddetto “giallo aperto”, una connessione singolare tra queste istanze.
Già nel romanzo che segna l’esordio dello scrittore di Racalmuto nel genere si inizia con una dinamica negativa: succede qualcosa che immediatamente viene negato. Si parte cioè dal grado zero dell’evidenza: qualcosa è accaduto ma nessuno lo ha visto o lo ricorda. L’accaduto si oppone ad ogni verità, ricostruzione, racconto. Nessuno è disposto a raccontarne la storia, dunque è come se non ci fosse, e il suo essere o meno accaduto resta un mistero. Questa dialettica si ripete nell’episodio dell’ultima confessione del confidente Parrinieddu, in cui la voce della verità può venire solo dalla morte come estrema coordinata dell’accaduto originario, già sempre perduto. In questo senso anche la giustizia, come la verità, appare per differenza; si nota quando non c’è, quando non viene fatta, per mancanza più che per presenza.
Nell’ordine della produzione giallistica di Sciascia il capitolo successivo è rappresentato da A ciascuno il suo (1966). Anche in questo romanzo la verità del delitto viene a scoprirsi nelle ricostruzioni ex post, negli innocui e disimpegnati racconti dei personaggi di contorno perché, anche lì, i colpevoli rimangono impuniti, la giustizia non discende automaticamente dalla verità e l’investigatore (la luce della ragione) si spegne prima di averla toccata. La legge del pozzo, ancora una volta.
Ne Il contesto (1971) la situazione di partenza è ancor più paradossale: c’è una catena di delitti che si traduce nella sparizione progressiva dei giudici, ovvero di chi dovrebbe incarnare la giustizia. E, ancora una volta, nella morte dell’investigatore. Con la giustizia che questa volta traspare alla luce di una vendetta, in ogni caso fuori dalla dimensione razionale e legale della sua applicazione. Nella scena madre del colloquio tra il commissario e il Presidente della Corte Suprema la giustizia si rivela esclusivamente come potere, senza connessione con la verità. E in questo diventa, come dice Sciascia, puro meccanismo, ingranaggio che stritola prima di ogni altra cosa i suoi appartenenti. La summa di questo percorso può essere considerata Todo Modo (1974): anche qui la scena madre è l’incontro dell’investigatore con il centro del potere (Don Gaetano). E anche qui il potere si struttura come un sistema di ingranaggi che tende a perpetuare se stesso e non si connette più con ragione, giustizia e verità. Ad accompagnarsi al negativo alla mancanza di giustizia c’è questa volta la religione, che si separa da ragione e verità e diventa potere fine a se stesso.
Se da questa prima fase, culminante nella produzione degli anni ‘70, passiamo alle ultime prove prima della morte, notiamo una certa evoluzione ma anche il compimento di questa dinamica. Ne Il cavaliere e la morte, del 1988, ancora una volta la verità arriva come atto di estrema consapevolezza del protagonista (l’investigatore che viene ucciso, con la verità che ancora una volta emerge quando chi la ricerca non c’è più) a seguito della sconfitta progressiva della giustizia, una volta di più ad opera di un potere volto principalmente ad auto proteggersi. Infine in Una storia semplice del 1989, la verità traspare ancora un’ultima volta, in negativo, attraverso la sua copertura da parte del potere che, alla fine, sceglie di non far emergere uno scandalo che minaccerebbe i suoi ingranaggi. La copertura si spinge fino a riprodurre, alla conclusione del romanzo, una continuazione del mistero (il testimone che riconosce nel prete uno dei malviventi intravisti alla stazione) e il riproporsi, a chiudere idealmente il percorso cominciato ne Il giorno della civetta, uno stato di omertà. Quello del testimone che sceglie di non impegnarsi ulteriormente nella ricerca di un vero ormai sostanzialmente inutile.
Conclusione
Queste le ragioni per le quali ritengo i riferimenti filosofici più o meno diretti di Sciascia come occasioni per affermare non tesi filosofiche frammentarie e parziali ma una visione generale che riappare costantemente: quella di un’unità sempre mancata delle “idee” e dei “valori” fondamentali dell’umano. Vale a dire la denuncia, nel mondo in cui viviamo, dei momenti in cui i perni cui dovremmo assicurare la nostra esistenza di individui e comunità (ragione, verità, giustizia, potere), si presentano disconnessi e dunque, a causa della loro potenza strumentale, pericolosissimi quando non si controllino ed equilibrino reciprocamente.
Da ciò viene che forse l’autore filosofico inconsapevolmente più vicino a Sciascia è il raramente citato Platone. Precisamente quel Platone dell’unità sistematica delle virtù descritta nella Repubblica come sistema armonico di distribuzione del potere e della forza basato sulla giustizia. Una unità solo ideale, tuttavia, destinata, nella realtà dei fatti a rimanere condizione non realizzabile, principio forse ispiratore di comunità statuali concrete ma, più spesso, rimpianto.
Il simbolo di questa disconnessione tra le virtù il cui equilibrio armonico dovrebbe governare la vita delle comunità è la figura dell’inquisitore, altro leitmotiv della scrittura sciasciana. Il destino a cui questa figura va incontro nel percorso sciasciano incarna infatti i rischi di un’indagine che separa le dimensioni del mistero, della ragione, della verità, della giustizia e del potere. L’inquisitore è colui che, a partire non da un dato di fatto, ma spesso dal semplice sospetto, procede a legare a questa parvenza di dato la necessità di una verità da ricostruire. Il suo potere si spinge fino a costruire una verità più o meno plausibile a partire dai racconti (le testimonianze ma spesso quasi soltanto le calunnie o le delazioni) procedendo così ad inventare il dato di fatto a partire dal bisogno che il potere ha di legittimarsi e che la giustizia come meccanismo ha di esercitarsi.
L’opera e la vita intellettuale di Leonardo Sciascia ci insegnano allora, tra le molte altre cose, come questo squilibrio tra investigazione e inquisizione sia sempre in agguato. E come il tentativo di smascheramento dell’evidente per raggiungere una verità più “vera” rischi sempre di tradursi nel rovesciamento della versione “semplice” di un fatto per il puro gusto di scoprire una “altra faccia” che magari non c’è. Anche le prove “investigative” che Sciascia conduce nella realtà politico-giudiziaria italiana, fuori dalla struttura “protetta” dell’esercizio letterario o della cronaca, non sempre sono sembrate raggiungere il bersaglio, e spesso sono state tacciate di essere esercizi di esibizionismo/narcisismo. La conseguenza di una tendenza ad affermare se stesso più che a riconoscere effettivamente la verità. Dunque prigioniere, se accettiamo questa ipotesi critica, di quella stessa “legge del pozzo” che proprio Sciascia, in una singolare prova di coerenza, aveva denunciato.
Intervento presentato al Seminario internazionale del dottorato in Studi umanistici su “Leonardo Sciascia. Letteratura, critica, militanza civile”. Palermo 18-19 novembre 2019
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