Il mito del cavaliere Ettore Fieramosca e la disfida di Barletta
Il cavaliere italiano Fieramosca che sconfisse i francesi di Guy de La Motte, diventando protagonista nazionale nel romanzo di Massimo D’Azeglio
Fino ad ora, attraverso la serie de Il mito del cavaliere, sono state percorse due tappe che hanno mostrato la figura del combattente a cavallo dall’VIII al XIII secolo. Per illustrare meglio l’evoluzione del cavaliere sono stati presi come esempio le figure del conte Hruolandus (736 – 778) e di Guglielmo il Maresciallo (1145 ca – 1219). Nell’ultimo atto de Il mito del cavaliere ci indirizzeremo tra i secoli XIV e XVI, ossia nell’arco di tempo in cui il modo di fare la guerra cominciò a subire dei forti cambiamenti e, assieme ad esso, anche il ruolo politico e sociale di cui erano investiti i cavalieri. A guidare l’esplorazione sarà Ettore Fieramosca, condottiero italiano e nobile capuano vissuto tra il XV e il XVI secolo. Egli non solo rappresenta lo stereotipo perfetto di cavaliere di questo periodo ma, grazie alla “disfida di Barletta”, fece risuonare il suo nome in tutta la nazione fino ai giorni nostri.
Le vicende attestate del Fieramosca sono prettamente guerresche, difatti egli visse nel periodo delle Guerre d’Italia (1494-1559) che, grazie alle sue abilità, gli fruttarono titoli, terre e gloria. Ma chi era costui? E quali erano le differenze coi suoi predecessori? È necessario fare un passo indietro nei secoli. Alla fine del periodo denominato Medioevo, la cavalleria non si presenta più con gli stessi caratteri di quella del XII secolo: l’élite dei guerrieri a cavallo – i milites – ha lasciato spazio prima all’élite dei cavalieri nobili e, in seguito, all’élite dei nobili armati cavalieri. Nel 1235, le cortes di Barcellona decretarono che poteva essere fatto cavaliere solo chi fosse figlio di un cavaliere e, alla fine del XIII secolo, le Coutumes d’Angiò e gli Etablissements di Luigi IX affermarono che tutti i cavalieri dovevano nascere da genitori nobili e che lo statuto cavalleresco era collegato al possesso di una terra considerata “nobile”.
Questo periodo portò alla classica confusione fra cavalleria e nobiltà ancorché, nella maggior parte delle regioni dell’Europa occidentale, i cavalieri erano oramai figli di nobili (fatta qualche piccola eccezione concessa dal principe) e quel titolo, che diveniva a poco a poco un’onorificenza, era riservato per la maggior parte ai figli dei nobili e si utilizzava come ricompensa dei servigi resi o per ragioni diplomatiche e politiche. Questi mutamenti hanno delle radici nella politica, nella società e nell’economia: gli aristocratici volevano definire in modo preciso i propri limiti e privilegi, i rituali di adoubement e l’equipaggiamento di un cavaliere risultavano molto costosi. Secondo Philippe Contamine, fra il 1300 e il 1500 ci fu un’enorme riduzione del numero dei nobili armati cavalieri che passo da un terzo a un ventesimo. Le cause, oltre che nei motivi sopracitati, vanno ricercate anche nei modi di combattere: con l’introduzione delle prime armi da fuoco, combattere a cavallo con le armature pesanti e con le armi bianche offensive era divenuto ormai obsoleto e l’enorme costo degli armamenti non comportava più i vantaggi del passato. Inoltre, con la definizione vera e propria degli eserciti, la rivalutazione della fanteria rispetto alla cavalleria e, di nuovo, l’utilizzo dell’artiglieria, gli Stati e gli altri protagonisti della scena bellica puntavano ad accaparrarsi le nuove tecnologie militari.
In questo scenario si colloca Ettore Fieramosca, condottiero italiano che, sin dalla tenera età, servì inizialmente come paggio alla corte di Ferrante I d’Aragona e che, dopo la discesa di Carlo VIII in Italia, cominciò la sua vera carriera militare come capitano dei balestrieri. Dopo essersi distinto in battaglia, Ferdinando II gli concesse i feudi di Roccadevandro e Camino e, con l’avvento al trono di Federico I di Napoli, il legame con la corona di Napoli restò immutato, tanto che ne 1497 fu inviato in missione ad Ascoli. L’11 novembre 1500, Ferdinando il Cattolico e Luigi XII stipularono il Trattato segreto di Granada per la spartizione diplomatica del Regno di Napoli. Nel 1501 Federico I, ignaro dei patti presi e conscio di un esercito francese che marciava sul Mezzogiorno, chiese aiuto a Ferdinando che, nel frattempo, aveva inviato il generale Consalvo Ernandes di Cordova nelle città amiche del Sud Italia per ripristinarne privilegi, immunità e concessioni. Lo stesso anno i francesi occuparono il castello di Calvi − in cui il Fieramosca aveva condotto una strenua difesa – e compirono un massacro a Capua, città natale del nostro cavaliere. Di fronte queste sconfitte, Federico I abdicò a favore di Luigi XII e andò in esilio in Francia, scortato anche da Ettore Fieramosca.
L’anno dopo, la Regia Camera della Sommaria di Capua aveva sottoposto il Fieramosca a un procedimento disciplinare per la mancata presenza all’assedio di Capua. Fu così rispedito in Italia e si aggregò alle milizie del condottiero Prospero Colonna, al servizio di Consalvo che, nel frattempo, si era asserragliato a Barletta perché il Trattato di Granada non fu rispettato dalle due forze e diede inizio ad una guerra di posizione che vedeva gli spagnoli in netto svantaggio rispetto alle truppe francesi. Il 15 gennaio 1503, per far fronte all’approvvigionamento dell’esercito, un contingente spagnolo di 300 soldati partì da Barletta per razziare delle pecore e, durante il raid, si scontrò con la retroguardia dell’esercito francese. Oltre alle pecore e alla vittoria dello scontro, gli spagnoli portarono a casa anche degli ostaggi come il nobile Charles de Torgues, detto Guy de La Motte. Una sera, per smentire la notizia che gli spagnoli fossero a corto di viveri, Consalvo organizzò un banchetto per i cavalieri spagnoli e per i prigionieri francesi e, durante il banchetto, Inigo Lopez de Ayala vantava la bravura dei cavalieri italiani e il fatto che essi potessero tener testa a quelli francesi. Indispettito, Guy de La Motte lanciò una sfida agli italiani – considerati soldataglia – per dimostrare la supremazia delle armi francesi.
L’evento, conosciuto come “la disfida di Barletta”, si tenne nella piana tra Andria e Corato (in territorio di Trani, all’epoca sotto la giurisdizione veneziana) e vide tredici cavalieri italiani scontrarsi con altrettanti francesi in un torneo che rispettava appieno la tradizione cavalleresca. A capo dei cavalieri italiani svettava Ettore Fieramosca che, insieme alla sua compagine, era armato di una lancia, due stocchi (uno con punta aguzza da portare a sinistra e l’altro corto e largo), una scure (Prospero Colonna le preferì alle mazze ferrate che andavano di moda ai tempi e che furono utilizzate dai francesi) e un cavallo protetto da una copertura di cuoio pesante. La sfida vide i francesi capitanati da Guy de La Motte sconfitti dai cavalieri italiani e l’evento fece la fortuna de Fieramosca che, oltre ad essere coperto di gloria, divenne anche simbolo del valore nazionale nel romanzo storico di Massimo D’Azeglio Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta del 1833. Ai fini del confronto fra Francesi e Spagnoli la disfida non ebbe un’efficacia risolutiva, ma la sua fama nasce dal significato di difesa dell’onore nazionale che si è voluto attribuire alla contesa nei secoli a venire. Nello stesso anno Ettore partecipò alla battaglia di Cerignola e, dopo la resa di Gaeta nel 1504, Ettore fu incaricato di accompagnare in Spagna Cesare Borgia assieme a Prospero Colonna e, in quell’occasione, il sovrano gli concesse il titolo di conte di Miglionico e signore di Aquara per i servizi resi. Rientrato in Italia, Consalvo gli revocò i titoli appena concessi perché, in qualità di nuovo viceré, aveva cominciato a restituire dei possedimenti perduti ai vecchi feudatari in cambio della loro fedeltà. Da buon capitano di ventura che si rispetti e secondo le fonti, Ettore Fieramosca cominciò sin dal 1506 a offrire i suoi servizi al marchese di Mantova e, nel 1510, alla Repubblica di Venezia. A questo punto della storia non si hanno più notizie del condottiero se non che nel 1514 si sia recato in Spagna sotto raccomandazione dell’università di Capua per poi morire a causa di una malattia e senza eredi a Valladolid il 20 gennaio 1515.
La vicenda di Ettore Fieramosca è esemplare per spiegare il cambiamento della cavalleria rispetto ai secoli precedenti, difatti essa mantiene vive alcune tradizioni anche se il suo status giuridico è stato modificato. È curioso anche osservare come il Fieramosca sia riuscito a guadagnarsi il titolo di eroe nazionale e quest’episodio, al di là delle diverse interpretazioni che ha subito, spiega efficacemente come certi eventi “possono influire sul linguaggio degli studi, inventando o consolidando usi e termini nuovi, densi di significati e valori politici” (Verga, 2017).
Per approfondire la storia di Ettore Fieramosca o la figura del cavaliere fra i secoli XIV e XVI potete consultare:
- Contamine Philippe, La guerra nel Medioevo, Il Mulino, Bologna, 2005
- D’Azeglio Massimo, Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta, BUR, Milano, 2010;
- Di Biase Pietro, Cavalieri della disfida e cavalieri di Malta in un borgo di Puglia, Rotas, Barletta, 2003;
- Flori Jean, Cavalieri e cavalleria del Medioevo, Einaudi, Torino, 1999;
- Giuliano Procacci, La disfida di Barletta: tra storia e romanzo, Mondadori Bruno, Milano, 2001;
- Parker Geoffrey, La rivoluzione militare, Il Mulino, Bologna, 2014;
- Russo Renato, La disfida di Barletta nelle fonti storiche e letterarie, Rotas, Barletta, 2004.