La morte e quei rituali di passaggio che la pandemia azzera
Cosa cambia nell’elaborazione del lutto al tempo del Covid-19? E la percezione del significato della morte? Che significato assumono le immagini dei milioni di corpi cremati a cielo aperto in India? Lo spiega il semiologo Gianfranco Marrone
Dalle immagini dei furgoni dell’esercito italiano per le vie di Bergamo nel 2020, ai corpi di milioni di indiani cremati per strada a cielo aperto nel 2021. Dalle campagne comunicative adottate dai Paesi per scongiurare il contagio da Covid-19, alla trasformazione dell’elaborazione del lutto e del significato di morte.
Gianfranco Marrone, saggista, scrittore, professore di semiotica dell’Università di Palermo, riflette su come questi aspetti della contemporaneità stanno cambiando.
Due immagini a confronto: quella dei furgoni dell’esercito italiano impiegati per trasportare le bare dal camposanto bergamasco verso i forni crematori di altre regioni nel marzo 2020, e quella dell’aprile 2021 che immortala i corpi cremati di milioni di indiani per strada, a cielo aperto. Significato, differenze e considerazioni.
I video, da cui sono state estratte le fotografie che hanno fatto il giro dei telegiornali, sono stati ancora più di impatto rispetto alle singole immagini. Da un punto di vista comunicativo si è trattato di due estremi di un sistema molto preciso di rappresentazione della morte, anzi del lutto. Queste due immagini funzionano come il troppo e il troppo poco. Come se fosse saltata la via di mezzo, la misura. Per quanto riguarda i furgoni dell’esercito, siamo davanti a un troppo poco: macchine anonime che sfilano e che tengono dentro dei corpi anonimi che vanno verso luoghi che nessuno conosce. C’è quindi un azzeramento totale del rito funerario. Dall’altro lato abbiamo visto invece il troppo: corpi che bruciano in mezzo alla strada davanti a tutti.
Abbiamo dunque due regimi semiotici di immagine completamente opposta. Il troppo indiano e il troppo poco italiano. Sono due estremi di un’unica idea che è quella per cui la morte nelle comunità umane è stata ritualizzata.
L’immagine dei camion di Bergamo del 2020, al di là delle polemiche di alcune fazioni politiche, se estrapolata dal contesto in cui è stata scattata e pubblicata, potrebbe anche non essere associata ad un corteo funebre. È, in questo caso, solo la notizia giornalistica correlata alla foto a sprigionare la forza emotiva delle immagini?
Sì. L’immagine, o il video, è di per sé senza senso se estrapolata dal contesto giornalistico. I mezzi di comunicazione hanno cambiato il significato dell’immagine stessa, inserendola all’interno di una configurazione generale della pandemia e soprattutto nella sua gestione politica e amministrativa. Quello che ha contato è “l’effetto quantità”, cioè quello di un generale anonimato. Sono tanti camion che contengono tanti corpi che vanno verso un luogo che non si conosce. I media hanno “giocato” molto con la questione della gestione della pandemia da un lato, e sulla gestione politica dall’altro. L’immagine dei camion ha assunto, involontariamente, il ruolo di icona di questa difficoltà politica e di gestione.
Le pratiche di cremazione e tumulazione di massa di fatto forzano, accelerandolo, il momento del trapasso dalla vita terrena ad una dimensione altra. Cosa cambia nella elaborazione del lutto al tempo del Covid-19 e, facendo riferimento alle due fotografie e ai codici di cui sono portatrici, nelle società in cui questo lutto è obbligatoriamente negato (India e Italia)
È una domanda importante e complessa. L’idea di negare, anche se per necessità, l’elaborazione del lutto e di impedirne i rituali necessari è drammatica. Posso capire le ragioni sanitarie, ma sono state comunque gestite con grande brutalità. I rituali, come abbiamo visto – da un lato la cremazione, dall’altro la tumulazione – possono essere completamente diversi a seconda delle culture. Si tratta comunque di rituali che, sia vissuti in senso religioso, sia in maniera laica, hanno sempre avuto in ogni caso uno statuto centrale nelle culture umane. Lo sanno bene gli archeologi, i paleontologi, gli antropologi, che sono soliti trovare, come primi segni delle culture antiche, quelli che hanno a che fare con il rito della morte.
Com’è cambiata, in quest’ultimo anno, la percezione del significato della morte?
La mia impressione è che andiamo sempre di più verso una situazione di realizzazione ironica della fantascienza. Spiego cosa intendo dire. Tanti anni fa ho letto “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley, un libro di fantascienza, in cui, contrariamente a tanti altri libri di distopia, Huxley descrive un mondo felice, in cui il potere politico costringe ad esserlo. Quello che mi ha colpito nella descrizione di questo mondo immaginato dall’autore è che la morte venisse vietata. Quando la gente sta per morire viene rinchiusa in ospedali inaccessibili a tutti.
Quindi non solo viene negato il rito funerario, ma anche il momento precedenza dell’assistenza ai moribondi. Questo credo sia il punto più forte del libro, in cui c’è uno stridore acutissimo tra una costruzione politica della felicità e l’impedimento nella gestione della morte. Ci ho pensato tanto in questi ultimi mesi perché la mia impressione è che quel “mondo nuovo” si stia realizzando. La negazione dell’assistenza al trapasso e quella del rito funerario sono ciò che di più inumano si possa vivere in questo periodo.
Di quali codici ci si è avvalsi per comunicare un evento negativo, inaspettato e invisibile, che ha coinvolto l’intera comunità mondiale? Ci sono state differenze nell’adozione di questi tra l’Italia e altri Paesi?
Sì. Distinguerei tre livelli, uno è quello della comunicazione esplicita, cioè delle campagne di comunicazione che i vari Paesi hanno messo in atto. Esemplificativo il caso della Germania che ha fatto circolare in rete alcuni spot ironici affidati al racconto di testimoni da un futuro lontano che avevano vissuto la pandemia del 2020 e considerati eroi perché “non hanno fatto nulla”, solo il loro dovere, cioè rimanere a casa. Di matrice opposta invece la campagna di comunicazione spagnola in cui i protagonisti, dei ragazzi che facevano movida come se nulla fosse, apprendevano per telefono della morte della nonna a causa dei loro comportamenti indifferenti. Da un lato l’ironia tedesca, dall’altro la drammaticità della cultura spagnola.
Poi c’è stato il livello di comunicazione giornalistico: dobbiamo dire che i nostri media non sono stati bravissimi. Anzi, peggio di così non potevano fare. Non hanno fatto altro che enfatizzare una tensione che nell’opinione pubblica già era molto presente. Pensiamo al caso dei vaccini: quando è venuto fuori che su 215mila dosi, tre persone, forse, erano morte per quello, molti giornali l’hanno riportato in prima pagina. Risultato: le dosi del vaccino Astrazeneca donate ad altre regioni. I giornali hanno fomentato la paura e non hanno aiutato il Paese ad uscirne fuori in maniera ragionevole.
Il terzo livello di comunicazione che è possibile individuare è quello del passaparola: quello che funziona sempre meglio perché non manca mai. In questo caso l’indeterminazione cognitiva è stata molto forte. La gente, essendo spaventata, non ha saputo come comportarsi e ha assunto degli atteggiamenti bipolari: da un lato la rincorsa al vaccino, dall’altro il terrore nei confronti dello stesso. Tutto quello che è mancato è la ragionevolezza della statistica e a questo collego questioni più delicate come quella che riguarda la scelta di chi vaccinare prima. La decisione del nostro Paese di dare precedenza alle persone anziane non è l’unica possibile, ma è una scelta politica ed etica, che possiamo condividere o no. Rimane il fatto che decidere che conta di più la vita degli anziani e non quella dei giovani, in una società come la nostra, ha un significato molto forte.
L’importanza delle fotografie dai reparti ospedalieri: una società già bombardata da immagini violente è riuscita secondo lei a fermarsi e a riflettere sugli in terapia intensiva?
No. La definirei inflazione iconica, cioè una vertiginosa produzione di immagini violente di fronte alle quali siamo tutti “vaccinati”, siamo diventati indifferenti, poco interessati. Da un lato, come dicevamo questa tragedia del non potere ritualizzare la morte, dall’altro l’indifferenza delle immagini delle persone che soffrono.