Dai giganti agli “umani mostri”
Il saggio di Nicola Cusimano ripercorre le analisi e le ipotesi di uomini di religione e protomedicina in una Sicilia di meraviglie e orrori
Come e perché nascono i “mostri”?
La domanda attorno alla quale ruota questo studio non trova una risposta univoca. In Mostri e prodigi. La Sicilia e il meraviglioso, pubblicato da Palermo University Press, Nicola Cusumano ripercorre secoli di storia illustrando il modo in cui, nelle varie epoche, medici, teologi e persino cavalieri abbiano tentato di dare una spiegazione a questo fenomeno.
Interessante, in tal senso, appare la presenza durante le autopsie e persino nelle case delle puerpere di esponenti dell’aristocrazia siciliana, come il marchese di Geraci e altri illustri cavalieri. Una sorta di rito insomma che, certamente, riflette il grande interesse che allora ruotava attorno a questi temi.
Figure bizzarre e meravigliose accompagnano la storia della Sicilia da secoli: persino la fondazione della città di Palermo venne attribuita a giganti le cui ossa abnormi non sarebbero altro che le reliquie dei suoi primi abitanti. Anche il fisico Domenico Scinà accreditò l’esistenza nell’isola di un gruppo di Ciclopi che, fuggiti dall’Epiro, fondarono nuove colonie in Italia. Ma ancor prima, nel 1500, il domenicano Tommaso Fazello faceva riferimento al ritrovamento di ossa di giganti in grotte e cavità sotterranee.
È proprio questa lunga tradizione sulle origini meravigliose della Sicilia a precedere il nucleo centrale attorno al quale si dipana la trattazione dell’autore. Certamente, si tratta di un processo univoco di autorappresentazione dell’isola: le élite culturali ci parlano di un’isola feconda, terra di meraviglie e stravaganze tra le quali occupano un posto di rilievo le creature mostruose. Fisici, teologi, come Pietro Castelli e Antonio Mongitore – ma anche grandi narratori siciliani vissuti a cavallo tra il XIX e il XX secolo – subirono il fascino della “mostruosità”: indimenticabile, a tal proposito, la descrizione del parto della marchesa Chiara ne I Viceré di Federico De Roberto, non a caso citato da Cusumano.
Ed è proprio la teratogenesi uno dei tanti aspetti di quel meraviglioso su cui il libro vuole indagare: i parti mostruosi in Sicilia diventano strumento di un’indagine approfondita che mette in luce non solo la persistenza di un fenomeno con le sue trasformazioni e i suoi significati, ma anche il tentativo di rispondere ad alcune domande sull’influenza della cultura medico-scientifica siciliana in merito alla diffusione delle credenze popolari e alle pratiche devozionali legate ai “mostri” e ai prodigi.
Le fonti attraverso cui ricostruire l’origine del fenomeno sono gli scritti degli uomini di scienza e di Chiesa, i dibattiti dei gruppi di potere e persino, nella parte finale del volume, la villa di Bagheria – ideata e fatta costruire da Ferdinando Francesco I Gravina Cruyllas, principe di Palagonia, di cui subirono il fascino lo scrittore Goethe, e gli artisti Dalí e Caruso – e il Museo degli umani mostri di San Martino delle Scale.
È agli almanacchi e alle cronache cinquecentesche pubblicate in Sicilia che dobbiamo guardare per farci un’idea di quanta attenzione sia riuscita a suscitare la nascita dei “mostri”. Tommaso Fazello, ad esempio, nel De rebus Siculis, racconta un parto, avvenuto a Sciacca nel 1536: di una creatura tricefala con tre petti, sei braccia e sei piedi. Descrizioni di bambini con teste unite e cervelli separati affiancavano quelle di catastrofi naturali, come i terremoti, oppure fenomeni angoscianti come le piogge di sangue. Diffuse anche le rappresentazioni di esseri ibridi come gli uomini-pesce che diedero luogo, successivamente, alla nota leggenda di Colapesce.
L’intervista di Ninni Giuffrida a Nicola Cusumano | WebCam Caffè
La descrizione di tali eventi meravigliosi va certamente letta come il tentativo, da parte dei contemporanei, di spiegare la realtà attraverso le concezioni dell’universo tipiche delle varie epoche storiche sulle quali indaga il testo. Come, ad esempio, la visione triadica dei fatti elaborata da Tommaso d’Aquino. Quando si era ancora lontani dalla Rivoluzione scientifica del Seicento e dall’avvento e dal successivo consolidarsi delle teorie illuministiche, la spiegazione di tutto ciò che era insolito, strano e pauroso era sempre attribuita all’ira di Dio per i peccati dell’uomo.
Oppure alla reazione emotiva (pag. 18) e spesso irrazionale dinanzi agli sconvolgimenti sociali, politici e religiosi, nonché alle guerre che attraversano l’Europa tra il Quattro e il Cinquecento. L’analisi diacronica delle opere dedicate alle nascite mostruose e alla descrizione di prodigi, del resto, conferma questa ipotesi. Tra i diversi esempi portati da Cusumano, basti citarne uno: il Diario fiorentino di Luca Landucci, che abbraccia gli anni dal 1450 al 1516, dal quale emerge chiaramente l’accostamento tra la devastazione prodotta dalle campagne della Guerra d’Italia, nello specifico la battaglia di Ravenna del 1512, e l’apparizione di un mostro dotato di corno e di ali al posto delle braccia.
Proprio il Cinquecento, del resto, è il secolo in cui si ripresenta un clima di esasperazione apocalittica (pag. 23). E appare oltremodo interessante che, pur partendo dai presupposti escatologici inevitabili di fronte a una tale psicosi, il trattato di Giovanni Filippo Ingrassia – protomedico di Palermo dal 1563 – mostri la volontà di esulare dal tentativo di dare risposte unicamente religiose allo sconvolgimento del mondo. E assuma piuttosto un atteggiamento fortemente naturalista che anticipa, per certi versi, gli strumenti di indagine delle scienze sociali.
Ingrassia, infatti, incontra le madri dei “mostri”, le interroga, cerca di analizzare le cause che possono aver condizionato la gestazione. Non solo: la sua “indagine sul campo” lo spinge a visitare le prigioni e gli ospedali. Egli trova, dunque, una spiegazione alternativa a quelle nascite come, ad esempio, la durata della gravidanza, la “debolezza e il difetto di materia”. Ciò permetteva di ascrivere parte della responsabilità alla natura particolare – non certo a quella universale – la quale, in modo autonomo da Dio ma pur sempre su sua concessione, poteva produrre un «turbamento della regolarità e dell’equilibrio» (pag. 43).
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L’approccio “scientifico” del protomedico non deve del resto stupire, in quanto fu proprio Ingrassia a individuare tra le cause dei contagi dell’ondata di peste (che colpì la città di Palermo nel 1575) i miasmi e la palude del Papireto, oltre ai cadaveri abbandonati per le vie della città.
Tema di grande rilievo nel dibattito che si dipana nel corso dei secoli è, poi, quello relativo all’anima del feto: importante, ad esempio, nel caso di parti bicefali o in presenza di un cuore congiunto nei gemelli siamesi, era capire quante anime quel feto possedesse per decidere quanti battesimi si dovessero fare. E questa diatriba – che risaliva persino a Platone e Galeno – arriva a inglobare anche l’interrogativo sul momento esatto in cui nella creatura veniva infusa l’anima razionale.
Sebbene Ingrassia si proponga di analizzare le figure “mostruose” da un punto di vista scientifico, tuttavia rimane ancorato all’ortodossia religiosa e non sembra che ciò sia dettato solo dalla paura della censura da parte dell’Inquisizione. Va però detto che il protomedico mostra un approccio di straordinaria modernità quando insiste sull’influenza che il contesto socio-economico e culturale esercita sui fenomeni da lui osservati: i “mostri” e le epidemie sono più diffusi tra i ceti poveri e umili.
Il forte intreccio tra competenze mediche e teologiche non accenna a venir meno nel XVII secolo. Bisognerà attendere il Positivismo ottocentesco perché la scienza si svincoli, almeno formalmente, da Dio. Nel Seicento barocco, infatti, la principale responsabile della teratogenesi torna ad essere la donna, incapace – secondo molti studiosi del tempo – di controllare la sua immaginazione durante la gestazione. Malgrado la Rivoluzione scientifica sia già in atto, il razionalismo di Ingrassia sembra subire quindi una battuta d’arresto.
Persino il Settecento dei lumi non riesce a separare del tutto le forti commistioni tra fede e scienza, sebbene però le autopsie dei “mostri” offrano adesso la straordinaria opportunità di studiare il funzionamento biologico degli esseri viventi.
Ma non sono soltanto le dispute teologico-scientifiche lo sfondo sul quale si muove la ricerca di Cusumano. Di grande rilievo, anche per gli studi sul Colonialismo, appare l’analisi sugli scritti ottocenteschi intorno alle razze, come quelli di Johann Friedrich Meckel e di George Cuvier.
Bisognerà attendere Luca Cavalli Sforza, nel XX secolo, per confutare in maniera definitiva l’insostenibilità della teoria delle razze. Almeno sul piano scientifico, visti gli orrori del Novecento. Non sono poi così tanto tanto lontani dalle posizioni di Cuvier i contenuti della famosa rivista La difesa della razza e le Cartoline umoristiche ad uso delle truppe italiane dell’Africa Orientale di Enrico De Seta che, certamente, sono la base sulla quale poi si innesta la grande tragedia della Shoah preceduta, come sappiamo, dalle leggi razziali.
E come dimenticare, in ultima analisi, le domande di Amerigo – scrutatore del Partito Comunista del romanzo di Italo Calvino – che, osservando gli abitanti dell’Istituto Cottolengo di Torino nel quale si trovava a svolgere le sue mansioni elettorali, si chiede fino a che punto «un essere possa dirsi un essere di qualsiasi specie» o «un umano possa dirsi umano»?
Qual è, dunque, la normalità?
Al medico Zacchia – il quale ritiene che i “mostri” in quanto tali non meritino alcun battesimo ma anzi la tortura e la morte – Leibniz risponde che «non spetta agli uomini per la propria utilità tormentare o uccidere, ma bisogna accettarli come parte di quell’ordine generale del mondo cui non ci si può sottrarre» (pag. 55). Chissà se Calvino aveva letto questa affermazione del filosofo tedesco a proposito dei “mostri”. Certamente, alcune parti del suo celebre romanzo sembrano essere in piena sintonia con le sue affermazioni.