Nascita, vita e avventure di Melyadus d’Aragona, figlio siciliano di Pietro il Grande – prima parte
L’ingresso di Re Pietro a Messina nel 1282
«Questo messaggio annuncia che Don Pedro sarà a Messina questa sera stessa». Con queste parole si apre la deliziosa commedia femminista di William Shakespeare, Molto rumore per nulla. Il re, in realtà, entrò a Messina il 2 ottobre del 1282. Solo, a cavallo, circondato da una folla festante di uomini e donne, si recò alla cattedrale, e poi al palazzo reale, con tanta allegria, dice il cronista catalano Bernat Desclot, che sembrava che Dio fosse sceso in terra. L’imprevista adesione di Messina al Vespro ne aveva fatto il bersaglio dell’esercito di Carlo d’Angiò, e la città era stata sottoposta ad un durissimo assedio, a cui aveva reagito con una strenua difesa. Tutta la popolazione aveva partecipato alla difesa, uomini e donne di ogni condizione e persino le dame dell’aristocrazia, le «migliori e maggiori della terra» secondo Giovanni Villani: fatto, questo, che commosse profondamente l’opinione pubblica, compresi i più efferati nemici della causa siciliana, e fu immortalato da una «canzonetta» di grande popolarità. L’assedio era stato tolto dopo la notizia dello sbarco aragonese, non appena Carlo d’Angiò si era reso conto che la situazione si stava evolvendo in una nuova direzione.
Un momento di distensione nella vita cittadina
La presenza di re Pietro segna un momento di distensione nella vita cittadina: non c’era niente che non fosse gioia, pace e tranquillità, dice Bartolomeo da Neocastro: il sovrano si comportava più come un cittadino che come un re, e persino la stagione, un autunno straordinariamente mite, agevolava feste e divertimentimenti. Feste e divertimentimenti a cui non potevano certo mancare le donne, già protagoniste della resistenza all’assedio angioino, che avevano accolto il re non come un conquistatore ma come un liberatore; e soprattutto colei che della difesa era stata prim’attrice: Macalda Scaletta, moglie del capitano della città, Alaimo da Lentini, non più giovanissima ma ancora molto bella, prode, generosa nel donare e ardita di cuore e di corpo, sempre Desclot, valorosa quanto un cavaliere. Durante l’assedio, indossando l’armatura, a capo di trenta uomini armati, controllava la città organizzando la resistenza. Macalda ebbe, sempre secondo Desclot, un vero e proprio colpo di fulmine per il re, axi com de senyor valent e agradable, no gens per mal enteniment. Invitata col marito alla tavola del sovrano, da quel momento Macalda non lasciò più il re, accompagnandolo dovunque e accontentandolo in tutto1.
L’amore di Macalda per il re
Desclot insiste troppo, non senza malizia, sull’assenza di «cattive intenzioni» nell’amore di Macalda per il re: nel racconto del messinese Bartolomeo da Neocastro, Macalda è invece una donna sfrontata, decisa a sedurre il re per ambizione e lussuria più che per amore, e che in seguito non avrà scrupolo a presentarsi come un’antagonista della regina Costanza. Il cronista messinese mette anche in risalto la fermezza con cui il sovrano resiste alle esplicite avances di Macalda, decisa a passare una notte con lui, dilungandosi sui suoi antenati e la sua nascita e insistendo sul suo amore per la moglie, che lo aveva spinto al suo impegno in Sicilia. Il «contrasto» tra uomo e donna, tra il re puro come Lancillotto e la dama lasciva, nasconde anche il drammatico contrasto politico tra il sovrano aragonese, che rivendicava l’eredità della monarchia sveva, sostenuto dai ghibellini messinesi, in cerca di legittimazione e i nobili siciliani di tradizione guelfa che non volevano un re, ma un socio, con cui dividere potere e poteri. Desclot chiama il palazzo reale di Messina palau imperial; nella cattedrale il re aveva osservato con interesse e ammirazione le aquile sveve e l’immagine di Manfredi ( maiestatem soceri ), a cui si doveva la ricostruzione della chiesa dopo il disastroso incendio del 1256; gli era stato indicato il luogo della tomba dell’imperatore Corrado, ridotto in cenere dall’incendio. Il progetto dei nobili siciliani di tradizione guelfa che facevano capo ad Alaimo era invece, secondo Henri Bresc, quello di uno Stato confederale e repubblicano, una Suisse insulaire2.
Dalla pagina di Bartolomeo da Neocastro è nato il mito di re Pietro marito fedelissimo, mito facilmente smentito dalla folta schiera di figli illegittimi, avuti da lunghe relazioni o da incontri fugaci, uno dei quali, Jaime Perez, affiancava il padre nell’impresa siciliana col ruolo di ammiraglio della flotta catalana3. Ma di fatto non si tratta di fedeltà fisica alla persona di Costanza, ma di fedeltà all’eredità politica sveva.
Leggendo per diletto
Dai racconti di Desclot e di Neocastro deriva anche, indirettamente, la settima novella della decima giornata del Decameron, che racconta la passione per Pietro III di Lisa, figlia dello speziale Bernardo Puccini, ricco membro della colonia fiorentina di Palermo, che si era innamorata del re mentre «faceva … maravigliosa festa co’ suoi baroni … armeggiando egli alla catalana» e «a niuna altra cosa poteva pensare se non a questo suo magnifico ed alto amore», irraggiungibile e inconfessabile data la sua «infima condizione», e ne soffriva fino ad ammalarsi. Ad aiutare Lisa sarà Minuccio d’Arezzo, «finissimo cantatore e sonatore, e volentieri dal re Pietro veduto». Lisa si confida con Minuccio, chiedendogli di far sapere al re la sua passione, in maniera di poter morire serenamente. Minuccio si rivolse a Mico da Siena, «assai buon dicitore in rima», e insieme crearono una «canzonetta», che comincia con il verso Moviti, Amore, e vattene a messere, che esprimeva tutta la disperazione di quell’amore inconfessabile. Eseguita la composizione davanti al re durante un banchetto destò una profonda commozione tra i presenti, e soprattutto nel re, che, saputo della persona che l’aveva ispirata, si recò a visitarla e «s’accostò al letto … e lei per la man prese dicendo: Madonna, che vuol dir questo? Voi siete giovane e dovreste l’altre confortare, e voi vi lasciate aver male? Noi vi vogliam pregare che vi piaccia per amor di noi di confortarvi in maniera che voi siate tosto guerita». Musica e poesia uniscono il re ai suoi sudditi: da questo momento la storia si avvia al lieto fine, Lisa guarisce e si sposa, e il suo amore per il re viene sigillato da un castissimo bacio in fronte, in presenza della regina Costanza. La bellezza di Lisa turba per un attimo il re, «che piú volte seco stesso maladisse la fortuna che di tale uomo l’aveva fatta figliuola»; ma ben più intenso e lascivo è il desiderio erotico che nella novella precedente tormenta il vecchio Carlo d’Angiò dopo aver partecipato ad una cena nel giardino con vivaio del ghibellinissimo Neri degli Uberti4, cacciato da Firenze che «con tutta la sua famiglia e con molti denari», che aveva scelto di rifugiarsi a Napoli «sotto le braccia del re Carlo». La cena era stata arricchita dall’originalissima esibizione di due gemelle, figlie adolescenti del padrone di casa, Ginevra la bella e Isotta la bionda, che vestite solo di leggerissime camiciole entrarono nel vivaio «l’acqua del quale loro infino al petto aggiugnea» per pescare i pesci lanciandoli ai commensali, per poi immediatamente essere fritti. Il vecchio re «il quale sí attentamente ogni parte del corpo loro aveva considerata, uscendo esse dell’acqua, che chi allora l’avesse punto, non si sarebbe sentito» perde la testa per le due lolite, che poi, elegantemente rivestite, servono la frutta, cantando anche dei versi d’amore, e arriva persino a progettare di rapire le due ragazze. Lo distoglie dal progetto il conte Guy de Montfort, dicendogli che non sarebbe stato comportamento degno di un re. Colpito dal rimprovero del conte, il re rinuncia al suo progetto, trova marito alle due ragazze e «con fatiche continue tanto e sí forte macerò il suo fiero appetito, che, spezzate e rotte l’amorose catene, per quanto viver dovea, libero rimase da tal passione». Le due novelle riflettono l’intensa atmosfera erotica, arricchita da musica e poesia, che aleggiava nelle corti dei re vittoriosi, e veniva percepita anche dal resto della popolazione.
Melyadus, quidam Melaydus nomine
Nel settembre del 1324, quarantadue anni dopo il Vespro e il felice ingresso di re Pietro a Messina, Federico III scrive a Giacomo II, dicendo che si trova con lui in Sicilia un certo Melyadus, quidam Melaydus nomine, che ancora bambino in anni molto lontani quando Federico si trovava a Castrogiovanni gli era stato presentato da un nobile messinese della famiglia dei Bonifacio, inter alios messanenses nobiles, come figlio di re Pietro.
Il nome, molto inconsueto, rimanda al Roman de Meliadus, prima parte di un vasto insieme di romanzi cavallereschi noti come Ciclo di Guiron le Courtois, che ha per protagonista il personaggio di Meliadus de Leonis, padre del ben più celebre Tristano. La storia è centrata su un grande torneo, il Torneo del Pino del Gigante, in cui confluiscono tutti personaggi dei vari episodi. La presenza in Italia del Guiron, composto negli anni Trenta del XIII secolo, è attestata per la prima volta nel 1240 in una lettera di Federico II diretta al secreto di Messina, in cui l’imperatore dichiara di aver molto gradito l’invio dei cinquantatré quaterni contenenti il monumentale best seller che erano stati del defunto magister Iohannes romanzor, e che gli erano pervenuti per mezzo del notaio Giovanni de Petromaiore. Il libro era passato dunque sicuramente per Messina, e non si può certo escludere che si trovasse di nuovo nel Palazzo al momento del Vespro. Una lettura condivisa, come era l’uso del tempo, può essere stata l’occasione del colpo di fulmine tra il maturo sovrano aragonese e la madre di Melyadus. Che comunque non è l’ultimo figlio di Pietro il grande5.
La nascita di Melyadus
La nascita di Melyadus si può collocare tra luglio e dicembre dell’83, più probabilmente nei mesi estivi. La madre rimane anonima ma non ignota, perché Federico dice al fratello di aver avuto da lei verisimilibus …insignis atque indiciis; probabilmente apparteneva alla famiglia di colui che lo aveva accompagnato da Federico, un Bonifacio, di una famiglia di giuristi che in età angioina avevano anche gestito la zecca siciliana6, in prima linea nel partito ghibellino messinese e dunque anche nella partecipazione ai festeggiamenti7. Potrebbe trattarsi anche di una giovane donna in qualche modo legata a loro: mi piacerebbe poter pensare che si sia trattato di una discendente del magister Iohannes romanzor che nel 1240 aveva fornito il Guiron le Courtois al secreto di Messina per l’Imperatore. Più difficile è invece stabilire la data in cui il piccolo viene presentato a Federico.
Quarantadue anni dopo Federico parla del tempo della sua puerizia, dunque prima dei suoi quattordici anni, e verosimilmente dopo la morte di re Pietro: tra l’86 e ‘87, quando il bambino era tra i quattro e i cinque anni. Colpito dall’aspetto del piccolo, definito elegans, e forse, chissà, notando qualche somiglianza col padre perduto da poco, Federico accoglie il bambino, e lo affida a un nobile per fargli dare un’ educazione adeguata: ritengo che sia stato affidato a un nobile catalano, facendogli prendere le distanze dall’ambiente messinese in cui era cresciuto e allo scopo di familiarizzarlo con l’ambiente di corte, sempre in buona parte catalano. Non si capisce però se Federico abbia dimenticato il nome della giovane messinese di raffinati gusti letterari che aveva sedotto il padre o abbia deciso di tacerlo, e perché.
In stranio suolo
L’educatore prescelto riconsegnò il ragazzo a Federico una decina d’anni dopo, una volta raggiunta l’età adulta, per essere accolto nella casa reale, in hospicio familiaritate et serviciis nostris, ma non come un fratello, ma come un qualunque altro nobile giovane. Il conflitto con un altro giovane della casa reale lo porta ad un violento scontro fisico in cui viene gravemente colpito alla testa. Non muore, ma è deciso a vendicarsi e aspetta l’occasione propizia per aggredire viriliter con la spada in pugno il suo nemico e ucciderlo. Il timore per l’indignazione di Federico lo induce a fuggire, senza smettere però di voler servire gli interessi del fratello. Lo farà, dopo aver messo insieme una compagnia di armati, unendosi ai ghibellini usciti da Genova nel novembre del 1317 e raccolti intorno agli Spinola e ai Doria, quoadiutores valitores amicos et devotos di Federico, che nei loro tentativi di rientrare in città avevano bisogno di aiuti. La situazione genovese, che secondo Giovanna Petti Balbi ha tutto l’aspetto di «un vero e proprio assedio tradizionale con sortite, guasti, scaramucce ed esiti alterni in un spazio territoriale ristretto» fino a tutto il 1320, in seguito entra «in una fase di stallo, in una cristallizzazione quasi delle posizioni dentro e a ridosso della città, a cui fanno da contrappeso una recrudescenza delle operazioni militari nel Dominio e una dilatazione dello spazio bellico sul mare, con l’intervento di forze esterne»8.
A questo punto Melyadus si trasferisce in Lombardia, al seguito dei Visconti (Matteo Visconti era intervenuto in sostegno degli estrinseci genovesi e in seguito si era servito di mercenari catalani), e poi a Verona, presso gli Scaligeri, dove si distingue in facto armorum et aliis laudabilibus. Saranno loro, gli amici italiani di Federico III, ad appoggiare la sua richiesta di perdono e di rientro in Sicilia alla corte del fratellastro. E così, dopo aver ottenuto il perdono del fratello dell’ucciso e degli altri parenti, ormai nel mezzo del cammin di sua vita, Melyadus può rientrare in patria, nella grazia del fratello, accanto a lui, aiutandolo e standogli accanto, comes assiduus nelle contingenze belliche del regno, vista l’esperienza acquisita nel Nord Italia. Ma riconoscerlo come fratello, come chiede Melyadus, spetta esclusivamente alla paterna fraternitas del re d’Aragona, e dunque Federico prega Giacomo di compiere il gesto formale del riconoscimento.
Nel raccontare le vicende del figlio messinese di suo padre Federico non esita a presentarle sotto la luce più favorevole: a cominciare dall’aspetto del bambino. E dunque l’aggressione che il ragazzo subisce dal compagno è insolente, la ferita che riceve avrebbe potuto ucciderlo, la vendetta, giusta e dovuta, è eseguita virilmente. Il comportamento dopo aver lasciato la Sicilia, poi, è veramente ammirevole in una persona tanto giovane: quando molti avrebbero ceduto alla tentazione di abbandonarsi a una vita imbelle o debosciata lui ha voluto continuare ad essere vicino al fratello mettendosi al servizio dei suoi alleati e comportandosi poi valorosamente, strenue laudabiliter et prudenter, come forse Giacomo avrà saputo. Adesso, quarantenne, è un uomo prestante, di buona conversazione e di buoni costumi. Dalla lettera traspare qualcosa di più della semplice richiesta di legittimazione: un genuino interesse ed affetto per questo fratello dalla vita tanto movimentata e combattuta. Credo che il fatto di essersi trovato accanto questo fratello adolescente nel momento di maggiore solitudine non solo politica ma anche personale ed umana, mentre il fratello maggiore si accingeva a dargli battaglia e sua madre e la sorella prediletta lo lasciavano, abbia potuto creare in Federico un attaccamento duraturo per Melyadus.
(Continua…)
Laura Sciascia
Note:
1. BERNAT DESCLOT, Crònica, cap. 96; BARTOLOMEO DA NEOCASTRO, Historia sicula cap. LIII. Poiché esistono diverse edizioni delle due cronache mi limito ad indicare solo i capitoli.
2. H. BRESC, «La mala signoria ou l’hypothèque sicilienne», in ID., Una stagione in Sicilia, vol. I, Associazione Mediterranea, Palermo 2010, pp. 163-185.
3. Figlio di una donna siciliana o comunque italiana, Maria Nicolosa: S. M. CINGOLANI, Monarcas infieles: amantes e hijos ilegítimos en la Corona de Aragón, desde Ramón Berenguer IV a Jaime II (1131-1327) 1, in «En la España Medieval» 2022, pp. 272, e ID., De la libertad al ostracismo: Amantes, hijos naturales e ilegítimos de los reyes Pedro II y Jaime II (1240-1327), in «Edad Media. Revista de Historia», pp. 43-45. Il nome Nicoloso è la variante genovese di Nicola, e rimanda a Nicoloso conte di Malta, figlio dell’ammiraglio di Federico II Enrico Pescatore. Maria potrebbe essere una figlia dì Nicoloso, e la discendenza da ammiragli siciliani potrebbe spiegare la nomina ad ammiraglio del giovane Jaime.
4. Nera, figlia di Giovenco degli Uberti, poi radicato in Sicilia, aveva sposato il nobile napoletano Corrado Capece: L. SCIASCIA , Le donne e i cavalier, gli affanni e gli agi. Famiglia e potere in Sicilia tra XII e XIV secolo, Sicania, Messina 1993, e Pergamene siciliane dell’Archivio della Corona d’Aragona, a c. di L. SCIASCIA , Società siciliana di Storia patria, Palermo 1994, pp. 172-175, 178-180.
5. Il Roman de Meliadus è stato pubblicato nel 2021 a cura di L. CADIOLI e S. LECONTE, sotto la direzione di L. LEONARDI e R. TRACHSER ( Edizioni del Galluzzo, Firenze ). Per la diffusione in Italia, F. CIGNI, Per la storia del Guiron le Courtois in Italia. Storia, geografia, tradizioni manoscritte,in «Critica del testo» VII / 1, 2004., in particolare le pp. 301 s. Nell’estate dell’83, al ritorno dalla Sicilia, a Logroño, il re ebbe una breve relazione con una certa Maria Perez, da cui nacque un Sancho che in seguito è stato confuso con un omonimo fratellastro nato da Iñes Zapata: S. M.CINGOLANI , De la libertad, pp. 48-51.
6. I Registri della Cancelleria Angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri, con la collaborazione degli Archivisti napoletani, Accademia Pontaniana, VI, Napoli 1954, p. 171; XI, Napoli 1958 , p. 144; XIII, Napoli 1959, pp. 142, 298; R. STRACUZZI, Il Tabulario di S. Maria dell’Alto di Messina, Società messinese di Storia patria, Messina 2008/2009, pp. 82, 113, 195, 204.
7 .NEOCASTRO, cap. XXIII.
8. G. PETTI BALBI, L’assedio di Genova degli anni 1317-1331:maligna et durans discordia inter gibellinos et guelfos de Ianua in «Reti Medievali Rivista», VIII – 2007, p.2 s. Gli ghibellini genovesi avevano fatto di Savona la loro base: tra i fondi notarili savonesi potrebbero trovarsi tracce della presenza di Melyadus.