Nascita, vita e avventure di Melyadus d’Aragona, figlio siciliano di Pietro il Grande – seconda parte
In famiglia
Giacomo esaudì la richiesta dei fratelli, e il 29 luglio del 1325 scrisse a Melyadus, rivolgendosi a lui come fratello diletto, e accogliendolo e riconoscendolo ufficialmente come fratello naturale: ma con la cautela che gli era propria, e con la raccomandazione finale di continuare a dare aiuto a Federico e a sostenerne le parti (devotis studiis insudare curetis )1.
Figlio riconosciuto di un re, Melyadus era ormai un partito di un certo prestigio, anche se non risulta titolare di rendite di nessun tipo, e Federico gli trovò immediatamente un’ereditiera catalana, Sibilla, figlia del defunto Bernat de Queralt, che col consenso della madre Geralda e degli altri parenti gli fece spontanea donazione di tutti i suoi beni. Diventata effettiva la donazione dopo la consumazione delle nozze, ancora una volta Federico si appella alla «fraterna paternità» di Giacomo. Tra i beni dotali ereditari della sposa c’erano infatti delle proprietà a Barcellona, tra cui un hospicium in quodam loco que dicitur Cavalles in contrada Vallesium, e allo scopo di recuperare questi beni Melyadus e la moglie stanno inviando a Barcellona un procuratore, che il re d’Aragona viene pregato di agevolare in tutto, per il suo onore, per amore di giustizia, per riguardo a Federico e in considerazione del debito che entrambi hanno nei confronti del fratellastro2. Anche in questa lettera si percepisce un calore inconsueto: nel rapporto tra Federico e il fratellastro c’è un nucleo di emotività che ci raggiunge malgrado la barriera dei secoli e il linguaggio stereotipato dei documenti.
Dal matrimonio nacque una figlia, Giovanna, monaca nel monastero reale di S. Chiara di Messina, fondato dalla regina Costanza, dove era badessa una figlia di re Pietro II, che ricevette l’indulgenza in articulo mortis nell’agosto del 1347 da Clemente VI3.
Morti i fratelli, re di Sicilia Pietro II, Melyadus, ormai cinquantaseienne, continua a sostenere la Corona siciliana con la sua esperienza d’uomo d’armi: insieme ad Orlando d’Aragona, figlio illegittimo di Federico III e a Giovanni Chiaromonte conte di Modica, sposato ad una sorella di Orlando, era a capo della flotta siciliana che doveva liberare Lipari assediata dalla flotta angioina nel novembre del 1339. Il tentativo si rivelò uno spaventoso disastro, e Melyadus fu preso prigioniero insiema ai regali parenti e al fior fiore della nobiltà militare di Palermo Trapani e Messina, per non dire dei populares. I prigionieri furono divisi fra le carceri del regno, e il loro riscatto fu pesante e rovinoso per diverse famiglie, e impegnativo anche per le comunità: le difficoltà della bella moglie di Giovanni Chiaromonte commossero persino Giovanni Boccaccio4.
Non sappiamo quale sia stata esattemente la sorte di Melyadus, se abbia riportato qualche ferita nello scontro, quanto sia durata la sua prigionia e come e da chi sia stato riscattato, ma sembra probabile che la dote della moglie sia stata inghiottita dal riscatto.
La società della Cristia
Una diecina d’anni dopo, morto anche Pietro II, regnante il giovanissimo Ludovico sotto la tutela dello zio Giovanni, a 65 anni, ormai decisamente vecchio, Melyadus era di nuovo nell’isola. Il 21 aprile del 1347, a Corleone, il providus vir Ferran Lopes, aragonese, socio e procuratore del magnifico ed egregio «Miliadussi d’Alagona» ( così il notaio corleonese interpreta il nome ), presentava una protesta, dicendo che già un anno prima si era rivolto agli incaricati dell’officium magistratus del Val di Mazara reclamando le 28 onze, 2 tarí e 10 grani dovuti pro stipendio del suddetto magnifico, somma che gli doveva essere versata dai proventi della gabella bucherie boni denarii di Corleone, e che nonostante le ripetute richieste (si era recato a Corleone per ben cinque volte, con un cavallo e un servitore) non ha ancora ricevuto. Il gabelloto risponde che nel periodo in cui erano state presentate le richieste a Corleone si erano verificati gravi disordini, e dunque le casse della gabella erano vuote, ma è ormai pronto a pagare quanto dovuto in denaro o in pegni5.
Lo stipendio a cui si allude nel documento potrebbe essere un vitalizio, assegnato all’ormai vecchio Melyadus dai nipoti e riscosso dal suo provvido procuratore aragonese. Ma il fatto che il documento sia stilato a Corleone, grosso centro di fondazione lombarda dell’entroterra palermitano, in un momento quanto mai critico della storia del Regno e del luogo in particolare, la presenza dell’aragonese e la definizione di socius, uniti ad alcuni particolari della biografia di Melyadus portano ad un’altra ipotesi. Da una decina d’anni infatti nella città di Palermo, sempre più sotto il controllo dei Chiaromonte, si erano verificati violenti episodi di ribellione che, con diverse motivazioni apparenti erano di fatto rivolti contro la monarchia6, e che culmineranno nei cosidetti Vespri anticatalani, nell’estate del 1348, e nella definitiva affermazione dei Chiaromonte su Palermo. A cercare di contrastare il potere chiaromontano nella Sicilia occidentale, rendendo difficile il collegamento tra la capitale e i feudi dei Chiaromonte dell’Agrigentino e del val di Noto era stata creata una linea di roccaforti che accerchiava la capitale, in mano a compagnie di mercenari catalani, e che andava da Ciminna, ad Est, a Vicari, dove si annidava Francesc Vallgornera con i suoi, a Calatrasi, definita dai Palermitani spelunca latronum, tenuta da Folc Robert, fino al castello della Cristia. Cristia «uno dei nidi d’aquila più inaccessibili e alti fra tutti i castelli siciliani», oggi in rovina, si trova tra Sciacca e Corleone in cima a un rilievo di difficile accesso; la sua pianta più o meno regolare porta Ferdinando Maurici ad attribuirne la fondazione ai primi del XIV secolo. «Base sicura e buen retiro per una compagine di armati a cavallo che, uscendo dal castello, può compiere azioni di guerra di ogni tipo, anche a distanze notevoli», già nel 1308 vi è attestata la presenza di una compagnia di mercenari catalani. Conteso tra Ventimiglia e Peralta, continuò comunque ad ospitare per tutto il XIV secolo una compagnia di mercenari catalani7. La mia ipotesi, che, lo riconosco, appoggia su basi piuttosto fragili, è che a guidare la «società» della Cristia o comunque a fare da tramite tra i mercenari e la Corona ci fosse il vecchio soldato di ventura, e che lo stipendio da riscuotere a Corleone servisse a finanziare la guerriglia contro i Chiaromonte.
Nel documento del 1347 il nome di Melyadus è deformato in Miliadussi de Alagona: si è persa non solo la memoria del mondo dei romanzi cavallereschi che ha presieduto alla sua nascita ma anche quella della sua origine regale, a cui si sovrappone la più potente famiglia di parte «catalana». È l’ultima notizia che abbiamo di lui, ma dopo pochi mesi la peste sbarcherà in Sicilia, e in tanti spariranno8.
Sciascia Laura
Note
1. CINGOLANI, Monarcas, p. 273 e J. E. MARTINEZ FERRANDO, Jaime II de Aragón: su vida familiar, II, Barcelona 1948, doc. 429
2. Diputación Provincial de Zaragoza – Documentos reales,ES/ADPZ – 744/6. Ringrazio vivavamente Stefano Cingolani per avermi fatto conoscere questo interessante documento
3. Definita filia Moliaducis de Aragonia: S. FODALE, La svolta siciliana nel pontificato di Clemente VI, in Incorrupta monumenta Ecclesiam defendunt. Studi offerti a mons. Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio monumenta Ecclesiam defendunt. Studi offerti a mons. Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, a c. di A. GOTTSMANN, P. PIATTI , A. E. REHBERG, Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano 2018 (Collectanea Archivi Vaticani, 106), I (La Chiesa nella storia. Religione, cultura, costume), 1, pp. 635-648. ). In un documento del 1350 ( Archivio di Stato di Palermo [=ASP ], Tabulario del monastero di S. Maria di Malfinò , perg. n. 281 ) suor Giovanna non è più citata tra le monache di S. Chiara.
4. Amorosa visione, cap. XLIII
5. Archivio di Stato di Palermo, Tabulario di S. Maria dì Malfinò, perg. n. 267, edito in D. CICCARELLI, Il Tabulario di S. Maria di Malfinò, III (1337-1383 ), Messina 2005, pp. 185-187; inoltre H. BRESC, Le gouvernement de l’étranger: aristocrates et marchands «experts» à la cour de Sicile ( 1296-1355 ), in Una stagione, p.190
6. L. SCIASCIA , Le rivolte di Palermo (1282-1351), in El món urbà a la Corona d’Aragó del 1137 als decrets de Nova Planta. XVII Congrés d’Història de la Corona d’Aragó. Barcelona, Poblet, Lleida, 7-12 de desembre de 2000, 3 vols., Publicacions Universitat de Barcelona 2003, vol. II, p. 395-400
7. Sul castello e la sua storia: F. MAURICI, Castelli medievali in Sicilia da Carlo d’Angiò al Trecento, Kalós, Palermo 2020, pp. 229
8. Queste pagine nascono in margine ai due dettagliati articoli di Stefano Cingolani sopra citati, e in seguito a uno stimolante dialogo con l’autore, che mi hanno riportato alla memoria dimenticate notizie su questo oscuro e ambiguo figlio di Pietro il grande.