Naufragi e la pratica dei recuperi subacquei nel ‘500 siciliano
Posted On 10 Gennaio 2017
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Antonino Giuffrida
In età romana è documentata l’attività di compagnie di urinatores, cioè di operatori subacquei in grado di operare anche a profondità relativamente elevate, alle quali era affidato il compito di recuperare il carico delle navi naufragate. Il relitto romano della Madrague de Giens è la testimonianza che i tuffatori erano in grado di recuperare un carico a quattordici metri di profondità. La tecnica di immersione era quella usata dai pescatori di spugne dell’arcipelago greco: lunghe apnee e l’utilizzo di pietre usate come zavorra da utilizzare per raggiungere rapidamente il fondo e potere lavorare con sufficiente tranquillità. La Nomos Rhodion Nautikos, compilazione marittima bizantina del VII sec., disciplina questa attività e, soprattutto i compensi dovuti per il recupero che sono commisurati alle diverse profondità alla quale si trovava il relitto (G. Purpura, Il naufragio nel diritto romano: problemi giuridici e testimonianze archeologiche, Aupa, XLIII, 1995, pp. 465-476).
Una professionalità che non si estingue con il disfacimento dell’impero romano, ma rimane radicata nelle realtà collegate all’attività marittima e, soprattutto, alla gestione degli scali portuali. Una presenza carsica che affiora casualmente nella documentazione, collegata al momento traumatico del naufragio, contenuta nei contratti che il comandante della nave stipula per cercare di recuperare il carico e alcuni dei più importanti armamenti della nave in modo da limitare il danno provocato dalla furia del mare.
La presenza di operatori subacquei in grado di intervenire negli scali siciliani in caso di naufragio è attestata da diversi documenti del ‘500 che fanno esplicito riferimento al recupero di merci o di attrezzature navali “in fundo maris”.
1533, 24 novembre, approdo e caricatore di Castellamare del Golfo, in provincia di Trapani, Stefano de Arano di Fontirabi (città della Cantabria) stipula un contratto con Roberto Lanfranca e Geronimo Volterrano per il recupero degli armamenti della sua nave naufragata nel caricatore predetto recuperando 7 bombarde di ferro, quindici smerigli (piccoli cannoni) con 32 caricatori, gomene, alberi e altro materiale che si trova “in fundo maris”. La lettura del documento ci fornisce l’immagine di una nave che si è infranta nelle secche dello scalo e che deve essere smantellata nella parte che affiora dalla superficie del mare recuperando tutto il materiale di pregio, come gli armamenti, che si trovano sotto la superficie “in fundo maris”.
Sempre nello stesso anno, nel mese di dicembre Michele Taraffa e Michele Busquetti si occupano del recupero delle merci che si trovavano in un galeone naufragato nel mare di Ficarazzi. In particolare devono ricondizionare una partita di panni rovinati dalla permanenza nell’acqua salata per poterli reimmettere nel circuito delle botteghe dei pannieri palermitani e siciliani. Si rivolgono quindi a dei maestri pannieri palermitani che devono attivare la procedura di recupero mettendoli “in aqua dulchi et exinde axuccari et passari di cardo, mettirili in prensa … usque ad integra conciaturam”. (Entrambi i documenti sono conservati in ASP, notaio Ruggieri Giacomo vol. 3582).
Frammenti di documentazione che meritano attenzione non già per la notizia in sé stessa bensì come momento di riflessione per confrontarsi con altre esperienze simili nel Mediterraneo e per costruire un database di riferimento che permetta di conoscere al meglio il funzionamento di questo strumento di supporto all’attività del trasporto marittimo con le sue ricadute importanti sui contratti di assicurazione dei trasporti marittimi.