Nell’officina dello scriba. Breve storia degli strumenti per la scrittura – Parte prima
Scrivere sull’argilla: lo scriba mesopotamico e i suoi strumenti
Nella Mesopotamia, povera di legno e di pietra, il principale supporto scrittorio fin dal IV millennio a.C., era l’argilla. Per incidere la soffice argilla erano utilizzate due specie distinte di canna: Phragmites australis e Arundo donax, quest’ultima detta canna gigante (alta fino a 9 metri) sembra essere stata quella usata per produrre lo stilo (in accadico qan tuppu, lett. canna da tavoletta) con cui era realizzata la scrittura cuneiforme. Una parte del gambo era recisa con una sega e poi era suddivisa con uno scalpello. La superficie esterna della canna, lucida e impermeabile, impediva l’assorbimento dell’umidità dell’argilla e il suo attaccamento alla superficie scrittoria, dispensando gli scribi da puliture e asciugature come a esempio nel caso di stili di legno. La lunghezza dello stilo era presumibilmente di circa 5-6 cm, ma forse era anche più corto. Questa sorta di calamo aveva un’estremità di forma cilindrica, mentre l’altra estremità era smussata; la parte circolare serviva per imprimere i segni circolari o semi circolari dell’antico sistema di numerazione sumero, l’altra per i restanti segni. Con il tempo però questo strumento mutò forma per adattarsi all’utilizzo della scrittura cuneiforme. La punta dello stilo era tagliata in forma triangolare, per ottenere la caratteristica forma della testa del cuneo, mentre l’altra estremità era piatta per spianare l’argilla incisa. Durante il III millennio e all’inizio del II millennio a.C., gli strumenti utilizzati sembrano più diversificati, ma le opinioni degli studiosi moderni sono molto diverse. Infatti alcuni ritengono che fossero utilizzati due diversi calami, e non uno solo per incidere segni diversi. Oltre la canna, gli scavi archeologici hanno evidenziato la presenza di altri strumenti utilizzati per l’incisione sull’argilla come stili d’osso (specie in Siria) mentre i testi letterari accennano all’esistenza di stili d’oro e d’argento ma che si ritiene fossero utilizzati solo in funzione cerimoniale o cultuale. Oggi si ritiene che probabilmente erano utilizzati anche stili di corno e d’osso specialmente in zone d’altopiano come l’Anatolia: non a caso i testi in cuneiforme ittita non mostrano tracce organiche residue di canna come alle volte quelli scritti in Mesopotamia.
L’antica lingua sumera ci ha tramandato il nome dello scriba e dei suoi strumenti:
LÚDUB.SAR: colui che scrive le tavolette (in accadico: ṭupšarru).
GI.DU.BA: la canna per scrivere (stilo), prima a sezione tonda e poi triangolare (in accadico: qan tuppi, cioè canna per le tavolette).
É-DUB-BA: la casa delle tavolette (in accadico: bit ṭuppi).
GišDUB-DIM in sumero (in accadico dubdimmu) e in ittita LÚDUB.SAR.GISH: lo scriba delle tavolette di legno.
DUB: tavoletta d’argilla (in accadico: ṭuppu), è raffigurata con una tavoletta rettangolare con una piccola appendice che serviva probabilmente per sostenere il legno su cui era posta l’argilla. Purtroppo questo tipo di sostegno sino a ora non è stato rinvenuto in nessuno scavo.
Nabu: dio protettore degli scribi, era rappresentato da una tavoletta d’argilla e da un bastoncino per inciderla posati su un altare retto dal dragone cornuto, suo attributo animale.
Da una ricerca condotta da H. Waetzoldt, sappiamo che nell’antica città sumera di Ur del III millennio a.C. esistevano ben sessanta tipi di scribi, ognuno addetto a un particolare aspetto dell’amministrazione, ma L. E. Pearce ha osservato che nel corso del tempo i titoli cambiavano spesso. Si registrano così la donna scriba, lo scriba sulla pietra, il matematico, lo scriba militare, lo scriba della proprietà del tempio di Anu, lo scriba nadītu (clausura) donna, ecc. Un dato interessante è quello relativo all’alfabetizzazione che da quanto conosciamo e dalla lettura delle tavolette con testi privati, era sicuramente molto diffusa. La professione di scriba non era riservata a un’elite, ma erano in molti a sapere leggere e scrivere in cuneiforme. Un particolare interessante è quello relativo alle donne che, seppure in numero ridotto, risultano anch’esse in grado di leggere e scrivere e in alcuni casi erano impiegate anche come scriba.
L’ambiente di lavoro dello scriba
Lo scriba sumero-accadico sedeva sul lastricato a gambe incrociate, con una giara d’argilla accanto a sé e degli scaffali per conservare e disporre le tavolette incise, riposte verticalmente su un ripiano, la prima appoggiata contro il muro e le altre in fila. Secondo quanto rappresentato in alcuni bassorilievi, la posizione dello scriba mesopotamico era invece in piedi, ma probabilmente si tratta di due diversi momenti in diversi contesti. L’argilla modellata a forma di tavoletta era rapidamente incisa con uno stilo. Lo scriba pressava la punta della canna tagliata triangolarmente, con un angolo di scrittura che variava dai 90 ai 45 gradi, e poi tracciava una linea completando il segno: un insieme di cunei, disposti in maniera differente, indicavano sillabe o logogrammi differenti. Lo stilo con testa tonda, fu invece continuato a essere utilizzato per scrivere i numeri, costituiti da segni circolari, combinati tra loro.
Un testo proveniente dal periodo antico babilonese, probabilmente un testo scolastico, mostra come si preparava la tavoletta:
Veloce, vieni qui, prendi l’argilla,
impastala, appiattiscila,
calcola (la quantità necessaria), piegala,
rinforzala, forma (la tavoletta),
[…] spianala […]
in fretta […].
Scrivere sul papiro
Gli strumenti utilizzati dallo scriba egizio, riprodotti anche nell’ideogramma o determinativo scrivere (sš) e in quello per rotolo di papiro (md3t), come hanno dimostrato gli scavi archeologici, sono un pennello ricavato da uno stelo corto e fiorito di giunco (Juncus acutus), per poter tracciare i segni della scrittura geroglifica – la penna metallica fu introdotta durante il periodo Tolemaico -, due piccoli recipienti per contenere i pigmenti rosso e nero e una piccolissima brocca in cui era conservata l’acqua necessaria a sciogliere gli inchiostri. Il giunco utilizzato per scrivere era preparato tagliando lo stelo di giunco della lunghezza di circa 20 cm con uno spessore di circa 1,5-2 mm. L’estremità era tagliata obliquamente con un coltello e quindi era masticata per separare le fibre. L’ovale della punta consentiva di tracciare i tratti spessi e sottili delle scritture corsive ieratica prima e demotica poi. Gli scribi erano comunque in grado di modificare questo effetto, modificando la presa della penna o cambiando la posizione con cui scrivevano.
È stato comunque accertato che verso la fine del periodo Tolemaico, gli Egiziani cominciarono a utilizzare, invece del giunco, un pezzo di canna (Phragmites communis), come i Greci. Gli strumenti dello scriba presentano, fin dalle prime dinastie, una forma simile a quella che ci è familiare, grazie alle raffigurazioni e ai materiali rinvenuti in numerosi siti archeologici. Inoltre il segno geroglifico sẖ, che appare già in documenti protostorici, riproduce in forma stilizzata gli strumenti dello scriba raggruppati insieme. Sui pannelli di Hezyra, della III dinastia, sono appunto raffigurati, nelle mani o sulla spalla del funzionario, gli oggetti che compaiono in miniatura nel segno sẖ: infatti a sinistra è evidente il contenitore per i pennelli a destra una piccola tavolozza a due incavi e in mezzo un oggetto oblungo raffigurante un sacchetto per i pani dell’inchiostro, che presenta alla sommità delle frange dovute alla chiusura del sacchetto tramite un laccio.Questo oggetto che appare nelle raffigurazioni delle epoche più antiche dipinto in rosso-marrone come fosse un sacchetto di cuoio, sarebbe stato interpretato in seguito come il vasetto per l’acqua utilizzata dagli scribi per diluire l’inchiostro. Ed è proprio questo che si trova stilizzato nel geroglifico sẖ dipinto di blu. A partire dalla IV dinastia l’equipaggiamento degli scribi si arricchisce di cesti di vimini di varia forma e cofanetti in legno, all’intero dei quali o sopra ai quali si sistemavano gli strumenti scrittori e i rotoli di papiri arrotolati, recipienti a pareti concave utilizzati per diluire l’inchiostro o sciacquare i pennelli, di stracci e grattatoi spesso appesi alla tavolozza. Quest’ultima, nelle epoche più antiche poteva essere una conchiglia di tipo unio ovvero una piccola paletta a due incavi. Dalla V dinastia comincia a essere utilizzata una tavolozza sempre rettangolare, ma di tipo allungato (fino a 43 cm) che presenta due cavità per l’inchiostro nero e rosso e una specie di astuccio per sistemarvi i pennelli.
Da alcuni ritrovamenti archeologici e dall’esame delle pitture parietali e dalla statuaria egizia, siamo riusciti a ricostruire le posizioni adottate dallo scriba egiziano nel suo lavoro. In una celebre statua della V dinastia (2500-2350 a.C.) si vede uno scriba seduto per terra a gambe incrociate, mentre tiene il rotolo poggiato sulle gambe, intento all’atto dello scrivere. In un bassorilievo presente nella tomba di Mereruka a Saqqara, della VI dinastia, sono invece rappresentati alcuni scribi che tengono una gamba piegata a sorreggere il foglio poggiato sopra una tavoletta di legno, mentre l’altra poggia per terra, nella mano destra un pennello, mentre con la sinistra tiene fermo il foglio di papiro e gli strumenti per scrivere.
La scrittura presso i Maya
Tra gli strumenti utilizzati per scrivere, è da citare la parola maya cheb, che negli antichi dizionari coloniali è registrata come pluma para escribir. Una ricerca nell’iconografia Maya, ha portato gli studiosi ad identificare con questo termine la penna d’uccello, utilizzata per scrivere alla stessa maniera che in Europa, anche se la mancanza di esemplari, non ci consente di conoscere la maniera di tagliare la punta.
Sugli inchiostri impiegati dai Maya conosciamo molto poco. Con certezza sappiamo che erano usati molti colori, come testimoniato in particolar modo dai manoscritti che ci sono pervenuti; sappiamo inoltre che il rosso era ottenuto con l’impiego dell’ematite ridotta in polvere e mescolata ad acqua. Tra i reperti archeologici che ci sono pervenuti, vanno infine citate alcune conchiglie utilizzate per conservare gli inchiostri.
Per dipingere, sia sulle pareti sia sui manoscritti, i Maya utilizzavano il pennello, ma non è pervenuto nessun esemplare. La sua forma la possiamo però ricavare da numerose testimonianze iconografiche che ci sono giunte.
La scrittura del codice greco-romano
Informazioni sugli strumenti scrittori greci, ma utili anche per il periodo medievale, ci provengono da alcuni epigrammi dell’Antologia Palatina (VI 63-68, 295), composti da alcuni poeti che consacravano agli dei i loro strumenti, quando «mettevano a riposo gli occhi stanchi e le mani tremule per la vecchiaia». Essi erano:
- rotella di piombo per tracciare le righe a secco della rigatura sul foglio;
- temperino (gr. smílē, lat. scalptrum), per appuntire le penne;
- regula, norma (gr. kanṓn, lat. regula, norma, linearum, ligniculus) per guidare la rotella che traccia le righe sul documento da scrivere;
- spugna (gr. spóngos, lat. spongia) per cancellare;
- la scatola in cui conservare l’inchiostro e le penne (gr. melandocheĩon, lat. atramentarium);
- lo stilo (gr. stýlos o grapheíon, lat. stilus, graphium), per incidere sulle tavolette cerate;
- la penna, prima di canna (gr. kalámos, lat. calamus), poi di volatile (gr. koudílion o kóndulos ), tagliata in punta come i moderni pennini;
- la pietra pomice (gr. kísēris, lat. pumex lapis cavernosus), per cancellare sulla pergamena o rendere appuntita la punta della penna.
- l’inchiostro (gr. graphikón mélan, o più semplicemente mélan e più tardi énkaustum, lat. atramentum);
- il compasso (gr. diabḗtes, lat. circinus) per segnare i fori che determinavano la distanza tra le righe.
Il calamo
In origine per scrivere con l’inchiostro si usava il calamo, presso i Greci ricavato da una sottile canna di palude (Phragmites communis) o un tubicino di metallo. Per temperare il calamo, cioè il bastoncino di legno impiegato per scrivere chiamato in latino arundo, era utilizzato lo scalprum (temperino) chiamato nel Medioevo cultellus, scalpellus o artavus, in greco smílē. La punta del calamo era divisa in due da un taglio come i moderni pennini metallici e le penne stilografiche; il tipo di taglio della punta cambiava secondo il tipo di scrittura che si voleva ottenere, a seconda che il tratto dovesse essere più o meno sottile. Nel IV secolo d.C. si cominciò a utilizzare la penna d’oca, ma talora anche di cigno, in greco chiamata kondúlion o kóndulos, temperata nel medesimo modo; ma essa non sostituì mai il bastoncino di legno, anzi i due strumenti furono utilizzati a lungo insieme e non è possibile stabilire quando uno sostituì l’altro. Il calamus e il recipiente per l’inchiostro (atramentum) erano conservati nel calamarium (calamaio).
La penna di volatile
Intorno al IV secolo d.C. si osserva il passaggio dal calamo alla penna d’oca, ma talora anche di cigno, in greco chiamata kondúlion o kóndulos, che veniva anch’essa tagliata in punta come il calamo, rendendo oggi quasi impossibile distinguere tra la scrittura con penna di volatile e quella con la canna. Per tagliare la punta del calamo, era utilizzato un coltellino, chiamato cultellus, scalpellus o artavus, in greco detto smílē.
Il primo a parlare delle penne d’uccello impiegate per scrivere è Isidoro di Siviglia (560-636), nella prima metà del sec. VII, che scrive (Etym. VI, XIV, 4, 3-5): «Calamo e penna sono strumenti di scrittura. Con questi, infatti, le parole vengono foggiate sulle pagine; ma il calamo deriva dall’albero, la penna dall’uccello, la cui punta è divisa in due […] il calamo è stato così chiamato in quanto depone un liquido: da qui che anche presso i marinai calare significhi porre. La penna invece, ha preso nome dall’azione di pendere il che significa librarsi, ossia volare: si tratta infatti, come detto, di una penna d’uccello». Oggi molti studiosi ritengono che la penna d’oca fosse già in uso fin dal IV sec. d.C. Esistevano diverse maniere di tagliare la penna d’oca per scrivere, a seconda del tipo di scrittura che si vuole ottenere. L. Arrighi, nella sua opera Il modo de’ temperare le penne con le varie sorti de littere, Roma, 1533, fornisce questa descrizione: «[…] Adonque la penna sie legera, che sia rotonda, lucida, e dura, e che non sia molto grossa, communemente di occa sono le megliori. E similmente si pigliera un coltellino di buon acciaio, e ben tagliente, la cui lama sia dritta, e stretta, e non incavata, come qui ti ho notato, percio che la panza, la largeza e la incavatura del coltello non lasciano, che la mano il possa governare a suo modo. E letto che haverai la penna e il temperatoio, prima guarderai quella parte di essa penna, che suol stare verso l’animale, la quale ha uno canaletto, che va, da onde termina il rotondo fino a la sommita di lei, e da questa parte farai un taglio circa un dito o poco piu sopra il principio di essa, cioe sopra quella parte, che sta fitta nell’ala, e per esso potrai trarmi la midolla de la penna, cosa che si fa agevolmente con la cima, che si taglia via da la penna. E dico che’l taglio sia da la parte del canaletto, percio che communemente le penne sonno dritte, ma pendeno verso detta parte, benche alcune pendono anchora verso la parte dextra, e pero in questo bisogna haver cura, che la curvita de la penna penda alquanto verso la inforcatura del dito grosso, e dell’indice. Hor fatto questo, con dui tagli assottigliarai l’un lato e l’altro poco di sotto dal primo taglio, facendo che la vada in punta a guisa di vomero, overo a guisa di becco di sparavieri, la quale parte tutta di sotto dal primo taglio chiamaremo il vomero da la penna. E bisogna fare che detto vomero sia da l’una parte e da l’altra equalmente tagliato, come ne lo exemplo vedi, cioe chel taglio non penda piu da la parte di dentro, che da quella di fuori. E fatto questo prenderai detta penna, e ponerai il vomero di essa con la parte di dentro sopra l’ungia tua del pollice, e col coltello prendendo da la parte di fuori, e venendo in sguinzo a l’ingiu verso la punta per spacio di meza costa di coltello, o poco meno, farai la temperatura, la quale se vorrai che la penna geti sottile farai acuta, ma se vorrai che geti grosso la farai piu larghetta. Oltra di questo, bisogna ne la fine del sguinzo, cioe ne l’ultima parte de la punta temperata, tagliare un poco di essa punta temperata per dritto, e senza sguinzo, percio che se la fosse tutta in sguinzo, sarebbe troppo debile, tal che per aveutura farebbe la lettera bavosa, ma a questo modo facendo sempre le penne geteranno benissimo. Poi se qualch’uno, che havesse la mano leggiera, volesse che la tinta piu facilmente scorresse, potra con la punta del temperatoio fendere la punta del vomero de la penna in due parti uguali, cominciando la fessura poco poco di sopra dal sguinzo, et hara quello che cerca, e questo bastera quanto al temperare de le penne, le quali per piu tua chiareza ti ho quivi designato».
Mina di piombo
La mina di piombo può essere fatta risalire al XII secolo, come ci attesta il monaco Teofilo, che nel suo Diversarum artium schedula, spiega che sulla pergamena si disegnava con una punta fatta di una lega metallica formata da tre parti di piombo e una parte di bronzo; il suo uso continuò sicuramente per parecchi secoli, fino a quando fu sostituita dalla matita di grafite.
Carboncino
Il carboncino era usato più per disegnare che per scrivere; il suo uso risale alla preistoria, quando gli uomini primitivi ricoprivano le pareti delle caverne con disegni, per lo più di animali, realizzati con pezzi di legno carbonizzati. Il carboncino è, infatti, un gessetto di carbone vegetale costituito da sottili rami di legno leggero e poroso, per lo più di salice o di vite, che erano bruciati senza però raggiungere la combustione completa. Il carboncino si usava per sfregamento e raggiungeva neri molto intensi, anche se poco stabili, che potevano essere sfumati con le dita, ottenendo una gamma completa di grigi; il tratto poteva essere cancellato direttamente con uno straccio.
La matita di grafite
L’invenzione della matita di grafite risale al 1565, subito dopo la scoperta delle miniere di grafite del Cumberland in Inghilterra. L’esemplare più antico di matita di grafite rivestita di legno conosciuto è conservato presso il Museo Faber-Castell di Stein, e risale al XVII secolo. Nel 1839 Lothar Faber creò delle matite di grafite con diverso grado di durezza e di nero, miscelando in percentuali diverse l’argilla e la polvere di grafite. Nacque così la scala HB con cui si indica ancora oggi la durezza e il colore delle matite, che va da 1 a 8, dove H sta per hard (duro) e B per black (nero).