La pandemia della solitudine: le conseguenze psicologiche
Il Coronavirus e la crisi che esso ha determinato hanno aggravato i problemi della solitudine.
Oltre alle conseguenze economiche, sociali, civili, il Covid-19 ha avuto un’incidenza pesantissima su ragazzi e giovani. È aumentato il numero di minori in povertà assoluta: in Italia un milione e 200mila, una cifra triplicata dopo la crisi del 2008. Il 41% di bambini e ragazzi vivono in abitazioni sovraffollate.
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Le categorie più a rischio povertà, a seguito del Covid-19 e alla chiusura di attività determinata dal virus, sono state donne, lavoratori autonomi, gli “informali”, cioè i lavoratori in nero. Più di una famiglia su quattro è a rischio povertà per gli effetti del contagio se per tre mesi consecutivi rimane senza fonte di reddito.
È tornata la gerarchia tra poveri meritevoli e poveri inaffidabili, come nell’antico regime prima della rivoluzione francese. Si è scelto chi ha diritto di sostegno in base alla categoria di appartenenza. A Napoli hanno bussato alla porta della Caritas per un pasto gratis migliaia di persone al giorno: sono stati parcheggiatori abusivi, badanti, lavoratori in nero, ambulanti, commercianti. Venticinquemila nuclei familiari hanno richiesto il buono pasto. Quindicimila avvocati in Campania hanno fatto domanda per il bonus da 500 euro. Sempre a Napoli è aumentato il numero di coloro che vivono sotto i portici della città.
Le conseguenze educative sono state la chiusura sociale e la difficoltà di accesso alla didattica a distanza. L’isolamento di ragazzi e giovani è stato inevitabile. I bambini più svantaggiati sono stati i minori stranieri non accompagnati e gli “invisibili”.
L’impatto psicologico del lockdown e il cosiddetto “distanziamento sociale” hanno lasciato preoccupanti strascichi: sintomi di stress postraumatico, confusione e rabbia tra i più ricorrenti, secondo la rivista “Lancet” già nei primi giorni del contagio (24 febbraio 2020). Fattori di stress sono stati la maggiore durata del lockdown rispetto alle previsioni, la frustrazione, la noia, i rifornimenti alimentari ritenuti inadeguati, l’informazione scorretta, le perdite finanziarie.
Lo stress postraumatico è all’origine dell’epidemia di solitudine. Essa può colpire singoli: i più a rischio sono adolescenti e anziani. Può colpire la collettività. La quarantena collettiva è contagiosa. Il proprio corpo viene scrutato alla ricerca di segnali. Lo stress cronico può produrre sensi di colpa per i casi accertati, processi ossessivi, aumento di cortisone, infiammazioni, rischi di malattie cardiache, può attaccare la salute mentale di medici e personale sanitario.
In casi estremi, la soluzione finale del suicidio. Ancora un articolo a firma di 42 esperti mondiali, pubblicato su “Lancet”, enumera otto fattori psicologici, sociali ed economici, legati alla pandemia, che possono aumentare il rischio del suicidio: dai motivi finanziari a violenze domestiche a maggiore uso di alcool. L’isolamento sfalsa i ritmi del sonno, dell’alimentazione, aumenta l’assunzione di cibo e bevande alcooliche. I livelli di stress aumentano anche per il fatto di non conoscere gli esiti della pandemia. Si attiva uno stato di tensione permanente che può aggravare le condizioni di chi già soffre di disturbi nervosi e scatenare crisi di ansia e panico anche in chi non ne ha mai sofferto. Già in passato alcuni studi avevano associato le pandemie ad un aumento di depressione, ansia e insonnia: fu il caso della Sars del 2002-2003.
Un’infermiera ventenne del King’s College si è tolta la vita non reggendo al peso dello stress psicologico per il lavoro e dell’angoscia di essere causa di trasmissione del virus. Altri due casi simili si sono verificati a Monza e Iesolo.
“Troppi morti, non posso salvarli”: una dottoressa di New York, Lorna Breen, si è tolta la vita. Dirigeva un pronto soccorso a Manhattan. Si era ammalata di Covid-19. Dopo dieci giorni a casa, si era presentata al lavoro, ma era stata rimandata indietro. I 200 letti del suo reparto erano tutti occupati. Non ha retto ai turni massacranti del suo lavoro, allo stress, si sentiva sola, inutile, frustrata. Nei giorni di riposo visitava gli anziani come volontaria di una Ong.
Un paramedico di 23 anni, John Mondello, portantino sulle ambulanze del Bronx, si è sparato usando la pistola del padre poliziotto. Ha vissuto lo stesso stress postraumatico dei soldati rientrati da zone di guerra (Ptsd). Altri casi di medici in Russia: due di loro si sono tolti la vita buttandosi da una finestra dell’ospedale in cui lavoravano. E si tratta solo dei casi meglio conosciuti,
Il primo suicidio politico eccellente, in larga misura legato al Coronavirus, è stato quello del ministro delle finanze dell’Assia, Thomas Schaefer, il cui cadavere è stato rinvenuto accanto ai binari del treno superveloce tedesco nelle vicinanze di Hocheim il 28 marzo 2020. Secondo il governatore del Land, Volker Bouffier, sarebbero state le preoccupazioni per il futuro della regione a mandare in depressione e “schiacciare” il politico cristianodemocratico poco più che cinquantenne. In una lettera d’addio Schaefer definiva “senza speranza” il futuro sociale ed economico del Land. La sua solitudine, sfociata nel suicidio, è derivata dalla preoccupazione di non riuscire a soddisfare le aspettative della popolazione nella gestione sia dell’emergenza sia della ripresa dopo il picco del contagio. Pochi giorni prima della morte, davanti ai deputati del Parlamento, Schaefer aveva definito l’epidemia da Covid-19 “la sfida del secolo”.
Uno studio pubblicato negli USA prevede nel prossimo decennio 75mila suicidi per quarantena, lockdown ed effetti economici del Covid-19. Isolamento, distanziamento sociale come killer silenzioso, ma anche la forbice ricchezza-povertà: nella fascia di reddito inferiore a 40mila dollari, un cittadino statunitense su quattro segnala problemi psicologici preoccupanti. I disoccupati statunitensi sono schizzati a quasi 33 milioni, il triplo della Grande Depressione. L’America segna allo stesso tempo il record di decessi mondiali per Coronavirus e il formidabile rimbalzo dell’indice tecnologico del Nasdaq a Wall Street.
In Italia al 13 maggio 2020 si registrano 42 suicidi, 36 tentati suicidi, 21 collegabili alle settimane di isolamento forzato per la pandemia.
“Quando si muore si muore soli”, canta Fabrizio De André. Il ministro della Difesa spagnolo, Margarita Robles, ha rivelato che molti anziani in una casa di cura, contagiati dal Covid-19, sono stati ritrovati morti nei propri letti dai militari, abbandonati dal personale in fuga. È come se Enea abbandonasse Anchise e scappasse via. A Londra decine di persone sono state scoperte morte in casa dopo oltre due settimane, con i corpi in avanzato stato di decomposizione. Erano prevalentemente anziani, che non si erano recati al Pronto Soccorso per paura del contagio.
Sul fronte opposto, un esempio virtuoso: in un ospizio italiano 11 operatori sanitari e addetti alle pulizie si sono autoisolati nella struttura per stare vicini agli anziani affetti dal virus per assisterli e non lasciarli soli. Hanno dormito in palestra. In Italia a fine maggio 2020 sono stati 26998 gli anziani morti: l’83% del totale, con più di 70 anni. Il filosofo Salvatore Veca ha definito le Rsa “discariche di esseri umani”. E ha aggiunto: “In Lombardia si è compiuto un rito sociale di decimazione”.
L’Italia, col Giappone, è il Paese più vecchio del mondo: 1 su 4 abitanti ha più di 65 anni. Nelle case di cura sono custoditi in 280mila. In alcune regioni l’accreditamento dell’assistenza nelle Rsa è stato inferiore a quello previsto per i penitenziari: di qui, personale sottopagato e aumento dei costi per le famiglie. Il trasferimento degli ammalati di Covid nelle Rsa della Lombardia è stato, sempre per usare le parole di Veca, “un killeraggio silenzioso, una condanna alla fucilazione di massa”. Con una delibera del 30 marzo la giunta della regione lombarda decide che “chi ha più di 75 anni e altre patologie eviti il pronto soccorso”. Nel momento più buio chi ha avuto il massimo bisogno si è trovato più solo: nessuna mascherina, nessun tampone, minore assistenza per i più vecchi. Alcuni di loro nelle Rsa sono rimasti legati al letto giorno e notte.
La condizione di solitudine negli ospedali è stata ampiamente documentata dai media. I malati in un ospedale di Bergamo sono rimasti a occhi aperti anche di notte per paura di non svegliarsi. Qui, racconta il dottor Massimiliano De Vecchi: “l’atmosfera è quella pressurizzata di un sommergibile rotto. Nel pomeriggio, con l’onda sismica della febbre, sale una calma, disperata e a tratti euforica complicità. Si sparge nel vuoto, anche dentro la pediatria. Per i bambini colpiti da tumori e leucemie c’erano una sala giochi, una scuola e una biblioteca. In 25, aspettando il trapianto, sorridevano insieme. Anche loro ora sono isolati dal virus, soli nel letto in una stanza chiusa. Non possono infettarsi, una mamma o un papà da oltre un mese dormono sigillati con i figli. Non sono nell’elenco delle vittime, ma nemmeno a loro il virus restituirà i fiori di questa primavera”.
Un’altra scena ci viene descritta da un ospedale di Alessandria. Lo sguardo della persona colpita da Coronavirus è conficcato verso il groviglio delle apparecchiature, l’orecchio teso verso il frastuono delle macchinette, fastidioso quanto essenziale.
L’arrivo dell’infermiere è l’unico momento di contatto con una persona. Gli sguardi si incrociano e in quel letto si vedono gli occhi di chi mostra riconoscenza commovente unita alla paura. Il letto è una prigione, vissuta senza il conforto di nessuno. In quella stanza molti ci sono finiti all’improvviso. Senza neanche il tempo di rendersene conto, senza poter lasciare una parola a figli, genitori, amici. Chi era colpito da Coronavirus si imbatteva in persone che sembravano alieni. Percepiva immediatamente la distanza dal resto del mondo, catapultato in una realtà che non aveva più niente di normale. I colori diventavano luci lattiginose; non abbracci umani, ma solo di tubi e tubicini; le parole, solo quelle di un personale medico sempre costretto all’affanno, a cui il paziente non poteva far arrivare nemmeno un grazie fragoroso. Intorno, il vuoto: solo il velo di plastica trasparente di un respiratore rintronante nelle orecchie tappate per attutire il frastuono e aumentare i decibel dei pensieri nella testa. Per i pazienti intubati ogni parola era uno sforzo tremendo e il risultato era una frase pressoché incomprensibile proprio nel momento in cui avresti voluto dire centinaia di cose.
“Mentre l’unico contatto con l’esterno e con il quotidiano si percepisce appena da una porta: pigiami, biancheria e cazzate varie. Perché tutto il resto – scrive il giornalista Fabrizio Laddago – in quel momento è cazzata. Su quel letto da soli forse si sente il bisogno soltanto di una carezza e del conforto di una parola di chi ti ama. Che qualcuno dicesse che va tutto bene, anche se non è vero. Anche se poco più in là c’è una persona sottoposta alle tue stesse condizioni, segnata da tre lettere, ncr, non candidato alla rianimazione. Cioè condannata a morire. Ogni giorno è una battaglia. Lo è per chi combatte in corsia il nemico e per chi è finito su quel letto, circondato dal silenzio” .
“Sta impazzendo. Non sa se è giorno o notte. Non ci sono finestre ed è solo. Tremendamente solo”. È l’accusa di Raffaella. Lui è Alberto. Reduce da un tumore, semiparalizzato in una branda del Covid-center, costruito in tutta fretta davanti all’Ospedale del mare a Napoli, da un mese aspetta una biopsia.
È un cinquantatreenne musicista precipitato nel buco nero di una sanità che, nonostante i proclami, non è certo esempio di efficienza. La moglie racconta la condizione di abbandono per il paziente e per la sua famiglia. Tutto comincia con un linfoma un anno prima. Poi, grazie alle cure a ematologia dell’ospedale Cardarelli, la guarigione e i postumi della chemio: una neuropatia per l’immunodepressione che improvvisamente comincia a peggiorare. Prima del blocco totale per il Covid, Alberto parte per una vacanza. Le cose si complicano. Viene ricoverato in un reparto del Cardarelli con contagiati in corsia. Dice la moglie: “Il virus era trasportato da una camera all’altra”. Alberto fa il tampone. È positivo. Lo trasferiscono all’Ospedale del mare: ricoverato in un container per oltre un mese.
Avrebbe bisogno di una biopsia cerebrale. “Non gliela fanno – dice la moglie – perché aspettano che il tampone riveli la negativizzazione del virus. Al terzo tampone si accorgono che la virulenza è ancora molto alta”. Peggiora. La fisiatra che lo visita si rifiuta di fare la riabilitazione perché manca la risonanza. “Quando è arrivato, camminava, male ma da solo. Adesso, dopo un’altra caduta in bagno, dipende completamente dal personale”, dichiara ancora Raffaella.
Questo episodio rivela un’altra specie di solitudine vissuta dai malati di Covid: la condizione dell’iperisolamento in un prefabbricato senza finestre, in una tensostruttura separata dal corpo dell’ospedale che, almeno, il vissuto del paziente può associare ad una dimensione comunitaria.
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