Sull’importanza fondamentale della memoria storica
“Una vittoria mutilata? L’Italia e la Conferenza di Pace di Parigi”, il nuovo libro di Paolo Soave
Fra le tante prove che la memoria storica nazionale del nostro Paese stia progressivamente svanendo vi è stata anche quella del sostanziale silenzio con cui l’opinione pubblica italiana ha accolto l’anniversario del centenario della Conferenza della Pace di Parigi del 1919, nonostante l’importanza di quell’evento nelle vicende politiche del nostro Stato unitario.
Fu infatti la difficoltà della classe dirigente liberale nel tradurre la vittoria militare nella prima guerra mondiale in successo politico-territoriale alla Conferenza di Parigi una delle cause fondamentali della crisi del liberalismo italiano nel primo dopoguerra. E del conseguente emergere di un nuovo movimento politico alla sua destra, il fascismo, che avrebbe sconvolto gli assetti interni italiani e dominato il nostro Paese fra le due guerre mondiali.
In un panorama di disinteresse della cultura e della storiografia italiane verso questo anniversario spicca come importante e positiva eccezione il nuovo libro di Paolo Soave, “Una vittoria mutilata? L’Italia e la Conferenza di Pace di Parigi” (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2020), dedicato proprio ad un’analisi e ad una ricostruzione complessiva dell’azione diplomatica italiana alla Conferenza della Pace del 1919.
Va detto innanzitutto che l’opera di Soave colma un’importante lacuna nella storiografia italiana. Se esistono interessanti e documentate ricerche su singoli aspetti della politica estera del nostro Paese alla Conferenza della Pace – prodotte in gran parte da Pietro Pastorelli e da alcuni dei suoi allievi (Francesco Caccamo, Luciano Monzali, Luca Riccardi) – mancava ancora uno studio documentato sull’azione complessiva della delegazione italiana a Parigi.
L’unica eccezione era l’opera di René Albrecht-Carrié, Italy at the Paris Peace Conference (Columbia University Press, Columbia, 1938), studio edito nel 1938, all’epoca ricerca pionieristica, ma oggi molto datata, anche perché lo storico statunitense non aveva potuto usare e consultare la documentazione diplomatica italiana.
Come storico, Soave ha un background di studi che lo rende particolarmente adatto ad affrontare il tema della politica estera italiana nel primo dopoguerra. Erede della tradizione di studi di storia diplomatica di Santi Nava e Giovanni Buccianti, il docente dell’università di Bologna si è dedicato con solerzia e costanza allo studio dell’imperialismo coloniale europeo e alla storia della politica estera degli Stati Uniti.
Proprio la sua conoscenza approfondita dell’imperialismo europeo e della storia diplomatica americana danno a Soave la possibilità di analizzare al meglio i vari scenari sui quali si gioca la politica estera dell’Italia liberale dopo la prima guerra mondiale: Africa, Europa, Medio Oriente, il sistema politico mondiale globale.
Dopo il 1918 grande novità per la politica estera italiana è l’emergere della potenza globale degli Stati Uniti, ed è proprio la stimolante e intelligente ricostruzione delle relazioni italo-statunitensi nel 1918-1919 uno degli elementi di maggiore interesse del volume di Soave. Lo storico spiega bene la genesi e lo svolgimento dello scontro fra i leader italiani, Orlando e Sonnino, e il presidente americano Wilson.
Scontro derivante, in fondo, più che da un’inconciliabilità d’interessi di potenza, da un’incomprensione ideologica fra liberali italiani come Sonnino (che avevano forgiato il loro pensiero di politica estera nell’epoca degli imperialismi coloniali europei e dell’egemonia incontrastata dell’Europa nel mondo) e un democratico americano come Wilson (privo di una forte esperienza internazionale, che conosceva poco l’Europa al di fuori della Gran Bretagna, e che aveva una visione della politica mondiale tutta incentrata sul ruolo predominante delle Potenze anglo-americane, all’interno della quale l’Italia giocava un ruolo marginale e secondario).
Soave offre al lettore anche una ricostruzione precisa, documentata ed equilibrata delle trattative adriatiche e coloniali alla Conferenza della Pace, raccontando con chiarezza la genesi del programma territoriale italiano e le difficoltà nella sua realizzazione. Di fatto, come lo storico nativo di Siena ci mostra, le difficoltà dell’Italia alla Conferenza della Pace derivarono dall’incapacità del governo di Roma di costruire solide collaborazioni diplomatiche e politiche con gli alleati.
Il nostro Paese risultò così schiacciato dal crescente antagonismo con la Francia in Europa centrale e balcanica e dall’indifferenza e ostilità anglo-americana verso l’ambizione italiana di giocare un ruolo da protagonista in Africa e in Medio Oriente.
Oltre alle difficoltà e agli insuccessi, Soave segnala però il contributo costruttivo e positivo che l’Italia portò alla costruzione di un nuovo ordine europeo e internazionale alla Conferenza della Pace, ad esempio impegnandosi a difendere l’Austria e l’Ungheria da eccessive amputazioni territoriali e a frenare i progetti francesi e polacchi di dissoluzione totale dello Stato russo, proponendo più volte soluzioni territoriali equilibrate (nei Balcani, in Europa orientale) che cercavano di conciliare il rispetto del principio di nazionalità con le esigenze strategiche e militari dei vari Paesi.
Ma, nonostante le difficoltà di espansione in Africa e Medio Oriente, possiamo ritenere la politica estera dell’Italia liberale alla Conferenza della Pace, con gli importanti guadagni territoriali ottenuti (l’Alto Adige, Trieste e Gorizia, l’Istria e Zara) come un grave insuccesso politico, così come proclamò la propaganda nazionalista e fascista nel primo dopoguerra? Nel capitolo finale del libro, nel quale l’autore compie una riflessione interpretativa e svolge un bilancio sul significato della Conferenza di Parigi e sul ruolo dell’Italia in essa, Soave sembra in fondo condividere il giudizio di Harold Nicolson sulla politica estera italiana del primo dopoguerra, secondo il quale l’Italia “was determined to become a Great Power without the internal force to justify such an ambition”.
Era questa la valutazione che fece pure il diplomatico italiano Pietro Quaroni, affermando che l’Italia liberale dopo la prima guerra mondiale si lanciò in un programma di espansione eccessivamente ambizioso, per il quale non aveva le risorse economiche, il sostegno interno e la determinazione politica.
Ma furono soprattutto le conseguenze di politica interna italiana delle vicende diplomatiche di Parigi, l’interpretazione che si diede alla Conferenza della pace di Parigi, ad avere una grave rilevanza.
A tale riguardo di grande interesse sono le considerazioni che nel capitolo finale del suo volume Soave fa sul significato del mito della “vittoria mutilata” nella storia italiana.
Prima di Lyttleton e Burgwyn era stato Salvemini a sostenere che “il movimento fascista sorse, crebbe, trionfo e alla fine si stroncò, sul mito della “vittoria mutilata”. Certo si trattò di una “febbre” che colpì gran parte degli italiani, inclusi coloro che erano stati ostili all’ingresso nel conflitto. Contagiati dal nazionalismo di guerra o decisi a far pressioni politiche sul governo, i più reclamarono Fiume. Tuttavia la storiografia ha ormai ampiamente dimostrato che la genesi del fenomeno fascista ebbe più complesse ragioni interne, di importanza superiore rispetto a quelle legate alla politica estera.
La “vittoria mutilata” non esaurì la complessità sociale, economica, politica e morale della guerra, che ebbe ben più potente impatto su un Paese che al termine della grande prova sperimentò l’amarezza di sentirsi più sconfitto che vittorioso e che soprattutto si rivelò profondamente diverso, alle prese con tensioni nazionali che vennero incanalate verso uno sbocco rivoluzionario che non fu quello previsto, di ispirazione bolscevica.
La “vittoria mutilata” fu l’elaborazione nazionalistica di vicende politico-diplomatiche che si articolò in due fasi, quella dannunziana culminata nel fiumanesimo, e la successiva, prettamente politica, mussoliniana e strumentale.
L’avvento del fascismo, imponendo il monopolio interpretativo del conflitto e della Nazione, investi anche il senso della “vittoria mutilata”. Come ha rilevato Emilio Gentile, fu il regime a spostare il mito fondativo dell’Italia dal Risorgimento alla Grande Guerra. Celebrata come vittoria degli italiani, essa fu per Giovanni Gentile l’evento che introdusse l’Italia nella grande storia. Giuseppe Bottai scrisse che ai fascisti non interessavano le firme apposte ai trattati, quanto le piazze, e Mussolini ammise di avere a cuore più la rivoluzione che i problemi della pace.
Derubricata da tema nazionale a politico, la “vittoria mutilata” servì la causa del fascismo nella misura in cui consenti la delegittimazione della screditata classe politica liberale.
Il libro di Paolo Soave costituisce quindi un contributo importante a meglio conoscere un passaggio fondamentale della storia italiana ed internazionale quale quello della politica estera del primo dopoguerra. La lettura della sua opera ci conferma una volta di più nella convinzione che una storiografia rigorosa e documentata ha ancora un ruolo importante da svolgere nel dibattito politico e culturale italiano e nel processo di definizione di quella che è la nostra identità di nazione.
D’altronde, senza una conoscenza e una consapevolezza precisa della propria storia comune, un popolo e uno Stato non hanno futuro.