La festa “totally social” (o quasi)
Nota sulla Settimana Santa nel tempo della pandemia
Appena tre anni addietro, in un originale e interessante contributo sulle “tradizioni al tempo di facebook” (2017), Lia Giancristofaro rifletteva sulla crescente partecipazione delle comunità alla perimetrazione dei patrimoni culturali locali e alla definizione delle relative politiche di valorizzazione, rilevando da un lato l’interesse socio-antropologico che presentavano le auto-riflessioni comunitarie sui fatti di cultura locale e le elaborazioni endogene di strategie di salvaguardia e promozione, dall’altro come il diffondersi dell’uso dei social avesse aperto nuovi importanti spazi di discussione e elaborazione non vincolati e diretti, almeno esplicitamente, da “agenzie” e “gruppi di interesse” esterni alle comunità locali.
La presa di coscienza da parte dei detentori del valore delle proprie “tradizioni” e il correlato crescente desiderio di partecipazione, in qualità di registi, alla gestione della loro rappresentazione verso l’esterno e delle loro modalità di fruizione “turistica”, come osserva Bortolotto, si erano andati d’altronde progressivamente affermando “ben prima che l’Unesco introducesse il principio della ‘partecipazione’ delle ‘comunità’ nel processo di salvaguardia del patrimonio immateriale”. E avevano visto gli attori sociali rivendicare “il ruolo di interlocutori diretti delle istituzioni nei processi di patrimonializzazione” attraverso la realizzazione di musei del territorio, di associazioni di tutela della cultura locale, di inventari spontanei del patrimonio immateriale e, fatto di particolare rilievo, attraverso la creazione di “comunità patrimoniali” virtuali (gruppi su facebook, flickr, ecc.) (Bortolotto 2013, p. 8. Cfr. Le Goff 1998; Ciarcia 2011).
L’ampio ricorso ai social come momento di promozione e valorizzazione dei patrimoni di cultura locale, la crescente diffusione di gruppi dove documentare, ridefinire, esaltare i fenomeni e i valori tradizionali, dove raccogliere e arricchire memorie storiche e culturali condivise, riunendo in un’eterea comunità virtuale anche tantissimi emigrati, ha certamente contribuito a proporre inediti e invero impensabili scenari della Settimana Santa isolana a fronte dei divieti alle manifestazioni pubbliche imposti dai Decreti Ministeriali intesi a contrastare la diffusione della pandemia da coronavirus.
In proposito possiamo ricordare le “dirette” di momenti liturgici apicali celebrati all’interno delle Chiese e di azioni para-liturgiche – quali l’allestimento dei “sepolcri” – in assenza dei fedeli, le numerosissime iniziative di riproposizione di video e gallerie di immagini dei riti degli anni trascorsi con proposte di partecipazione collettiva e interattiva alla visione e, ancora, la ricreazione virtuale di momenti topici delle singole cerimonie. Tra tutti segnalo il canto dei “lamenti” della Settimana Santa mussomelese realizzato su piattaforma virtuale e rilanciato su facebook dai cantori delle diverse confraternite nella sera del Giovedì santo, ossia nel tempo e nell’assetto con cui si sarebbe normalmente svolto il rito pubblico.
In questo quadro “sostitutivo”, forse di ancor maggiore interesse sono i casi di resilienza, documentati in alcuni contesti, che hanno visto ora piccoli gruppi di fedeli celebrare in forma semi-privata, in locali appositamente individuati ma anche all’interno degli edifici religiosi – talora anche in presenza di membri del clero – i riti pasquali, ora riproporre in spazi aperti, sotto gli occhi dei fedeli affacciati a finestre e balconi, momenti topici delle cerimonie. Così a Porto Empedocle dove, nella giornata del Venerdì Santo, in un quartiere “popolare”, utilizzando piccoli simulacri tratti dagli altarini domestici, recati ciascuno da un devoto e con il sottofondo della tradizionale musica bandistica diffusa da altoparlanti, è stato proposto il tradizionale “incontro” tra l’Addolorata e il Redentore: ancora una volta secondo le modalità e nel tempo della mancata cerimonia ufficiale.
Tutte queste iniziative, promosse da singoli parroci, da gruppi di fedeli, dagli stessi protagonisti ordinari dei riti “popolari” hanno certamente contribuito a lenire, se non a superare, il vulnus generatosi dalla mancata celebrazione delle cerimonie “dal vivo” e, di fatto, hanno testimoniato la perduranza di un diffuso e potente “bisogno di festa” presso larghissima parte delle comunità isolane.
Un bisogno che non è o non è solo sostenuto dalla necessità di affermare una comune appartenenza attraverso la condivisione di simboli e di riti e dal desiderio di riempire di senso la propria esistenza attraverso la partecipazione collettiva, ma è anche sostenuto dall’ineludibile umana tensione verso il sacro come spazio dove rinvenire soluzioni a drammi non resolubili nella prassi. Un bisogno e una tensione quindi accresciuti dalle drammatiche condizioni relazionali e socio-economiche dalle consistenti ricadute psichiche determinate dalla situazione di emergenza pandemica.
Guardare, in estrema sintesi, agli orientamenti interpretativi del farsi festivo appare utile alla comprensione degli inediti fenomeni osservati. È vero che con la regolarità del loro ricorrere, le feste e i riti religiosi “provvedono alla comunicazione e trasmissione del sapere garante dell’identità, e quindi alla riproduzione dell’identità culturale” (Assmann 1997, p. 31) costituendosi come potente veicolo di significati sociali: “Nel ricordo della propria storia e con l’attualizzazione delle figure di ricordo fondanti, il gruppo si sincera della sua identità” e tale ricordo “si coagula in testi, danze, immagini e riti” (ivi, p. 27). È vero, altresì, che credenze, comportamenti e oggetti rituali, agiti e condivisi, rappresentano e al contempo ribadiscono con forza significati sociali, imponendo indirizzi e confini ai rapporti inter-individuali cioè riproducendo la coesione sociale (Valeri 1981, pp. 213-214; Pace 2007, pp. 31 s.).
È però altrettanto vero che nella festa, in quanto spazio-tempo dell’incontro con il sacro, l’uomo fa esperienza di quella trascendenza che valorizza e da senso alla sua esistenza. Se la festa è, infatti, “fatto sociale totale” (Mauss 1923-24), essa è anche “il tempus per eccellenza, il tempo distinto dall’insieme della durata in quanto particolarmente potente” (Van der Leeuw 1975, p. 305). La sua specificità rispetto al succedersi della contingenza è data dal fatto che il tempo della festa è il momento della “riattualizzazione di un evento sacro avvenuto in un passato mitico, al ‘principio’” (Eliade 1973, p. 47). Partecipare alla festa significa divenire contemporanei del tempo del mito, ri-tornare all’origine delle cose per ritrovarvi il senso stesso dell’esistere (Kerényi 2001, p. 58). Le festa, dunque, in quanto rito religioso, si configura come lo spazio-tempo elettivo in cui gli uomini, la comunità e il singolo fedele, comunicano con il trascendente, esprimendo la loro fragilità e la loro assoluta dipendenza dal sacro, richiedendo protezioni e garanzie.
Attraverso il ricorso al Cristo, alla Vergine, ai Santi e nell’iterazione di una struttura sancita dalla tradizione, e perciò efficace, le feste offrono risposte forti, tanto alla comunità quanto all’individuo, proponendo soluzioni positive a problemi irresolubili nella prassi, rispondendo, cioè, in maniera comprensibile, alle ansie, alle inquietudini, ai dilemmi fondamentali dell’esistere (Kligman 1981, p. XIII; Kurtz 2000, p. 15). Costituisce un errore, dunque, “ridurre il religioso alle funzioni sociali che esso esercita in una certa società”; questo è “un modo utilitaristico di cogliere il religioso, come se si potessero ridurre i sistemi simbolici alla loro funzionalità. Ma il religioso è forse ciò che eccede ogni funzionalità, gestendo la mancanza, l’incertezza, l’alterità” (Willaime 2006, p. 182).
Pena, dunque, la caduta in una sorta di riduzionismo socio-funzionalista teso a sottovalutare o “ignorare le motivazioni ed altre variabili psicologiche” (Spiro 1998, p. 296), va proposta una lettura del rituale festivo come sistema simbolico capace non solo di riprodurre i principi etici fondanti e la coesione e l’ordine sociali, di mantenere vivo il senso dell’appartenenza e dell’identità collettiva, di aprire uno spazio svincolato dalle norme ordinarie, ma anche di fornire risposte e certezze individuali sulla vita e sul suo senso e di soddisfare desideri e bisogni tanto biologici che psicologici (cfr. Spinks 1963; Kluckhohn 1969, p. 150 s.; Evans-Pritchard 1971, pp. 67 ss.; Spiro 1998, p. 284 ss.).
Va perciò prestata attenzione alla dimensione soggettiva del sacro, una dimensione che sfugge a ogni analisi quantitativa e si rende esplicita e “comprensibile” attraverso l’osservazione diretta, “partecipante”, attenta a “guardare i gesti compiuti ed ascoltare le parole pronunciate” (Dewitte 2006, p. 38) cioè alla “dimensione materiale” della religione (Fabietti 2014). Ancora una volta così si comprende come nessuna speculazione sui fatti culturali “contemporanei” possa essere oggetto di interpretazione sottraendosi all’osservazione diretta: “se infatti la cultura e il simbolico possono essere intesi come una rete di significati – miti, rappresentazioni, credenze, valori, idee, modi di pensare ecc. – prodotta dagli attori e che attraversa la struttura sociale, è anche vero come tale rete sia sfuggente e, in molti casi, non sia di fatto granché visibile, cioè osservabile fino a che non viene incarnata in qualche forma di azione” (Navarini 2003, p. 14).
Ed oggi più di ieri è lo spazio virtuale del web – spazio che prevede e consente nuove forme di azione e interazione, di comunicazione e partecipazione – a rendere visibile la “rete dei significati” e perciò a offrirsi come campo di indagine dove poter misurare la validità generale di certe consolidate letture sulla dinamica dei fatti culturali nonché sul senso e sulle funzioni che essi detengono per i loro produttori e fruitori.
Riferimenti bibliografici:
Assmann J., 1997, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino
Bortolotto C., 2013, Partecipazione, antropologia e patrimonio, in ASPACI, a cura di , La partecipazione nella salvaguardia del patrimonio culturale immateriale: aspetti etnografici, economici e tecnologici, Editore Regione Lombardia, Milano
Ciarcia G., 2011, a cura di, Ethnologues et passeurs de mémoires, MSH-M, Paris-Montpellier
Dewitte J., 2006, Credere a ciò in cui si crede. Riflessioni su religione e scienze sociali, in M. R. Anspach, H. Arendt, A. Caillé et Alii, Che cos’è il religioso. Religione e politica, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 28-60
Eliade M., 1973, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino
Evans-Pritchard E. E., 1971, Teorie sulla religione primitiva, Sansoni, Firenze
Fabietti U., 2014, Materia sacra: corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa, Raffaello Cortina, Milano
Giancristofaro L., 2017, Le tradizioni al tempo di facebook. Riflessione partecipata verso la prospettiva del Patrimonio Culturale Immateriale, Carabba, Lanciano
Kerényi K., 2001, Religione antica, Adelphi, Milano
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Kurtz L. R., 2000, Le religioni nell’era della globalizzazione. Una prospettiva sociologica, Il Mulino, Bologna
Le Goff J., 1998, a cura di), 1998, Patrimoine et passions identitaires, Actes des Entretiens du patrimoine 1997, Fayard, Paris
Mauss M., 1923-24, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques, in «L’Annee sociologique», s. II, t. I
Navarini G., 2003, L’ordine che scorre. Introduzione allo studio dei rituali, Carocci, Roma
Pace E., 2007, Introduzione alla sociologia delle religioni, Carocci, Roma
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Valeri V., 1981, Rito, in Enciclopedia Einaudi, vol. XII, Einaudi, Torino, pp. 210-243
Van der Leeuw G., 1975, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino
Willaime.J-P., 2006, La religione: un legame sociale articolato sul dono, in M. R. Anspach, H. Arendt, A. Caillé et Alii, Che cos’è il religioso. Religione e politica, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 175-200