Pasta in tavola
“Pasta in tavola” è il volume sulla storia e la cultura della pasta che il Gruppo Banco Popolare ha editato come strenna di Natale 2016. In questi giorni il libro ((320 pagine, s.i.p, edito da Sagep di Genova, a cura di Carlo Ottaviano) viene presentato a Verona (23 novembre), Bergamo (24), Lodi (1 dicembre), Modena (5), Benevento (12), Roma (13), Napoli (14), Campobasso (21).
Pubblichiamo uno stralcio del primo capitolo.
Quando al idrisi batte Marco Polo di Carlo Ottaviano
C’era una volta un nobile veneziano, anzi c’erano una volta tre nobili veneziani – Niccolò, Matteo e Marco Polo – che nel 1271 partirono alla volta dell’Oriente, attraversarono l’Anatolia e l’Armenia, conobbero Mossul e Baghadad, la Persia e il deserto del Gobi. Infine giunsero in Catai e si fermarono a Khanbaliq, la Pechino di oggi. Marco entrò nelle grazie di Kubilai Khan, fondatore del primo impero della dinastia Yuan, tanto che ne divenne consigliere e ambasciatore. E fin qui la storia è nota, chiara e certa.
Si narra che durante la lunga navigazione nei mari occidentali della Cina, la piccola flottiglia della famiglia veneziana raggiunse un punto imprecisato della costa. Tre marinai furono mandati a terra a fare rifornimento di acqua potabile. Uno di questi aveva un cognome che era già tutto un (buon) programma: Spaghetti. Il nome di battesimo non è noto, ma abbiamo doviziosi dettagli circa la sua ricerca di viveri e acqua e della maggiore fortuna che ebbe rispetto agli altri due marinai che furono invece inviati ognuno in direzione diversa. Spaghetti, dopo qualche ora di cammino, giunse in un villaggio dove trovò dinanzi a un grosso coccio una coppia di sposi affaccendata a mescolare del cibo nell’acqua. “Alcuni frammenti fuoriescono dal recipiente e finiscono sul suolo dove l’aria secca e calda li rende duri e friabili. Il marinaio pensa che un cibo del genere avrebbe un grande successo a bordo, prende nota mentalmente della fasi della lavorazione e si fa in qualche modo spiegare gli ingredienti dalla coppia di indigeni. Si fa dare anche un po’ di pasta fresca e alcuni fili già essiccati. Spaghetti torna sulla nave senz’acqua, ma tutto eccitato dalla grande scoperta”. Ecco, tanto è vero Marco Polo quanto inventato di sana pianta il signor Spaghetti nella brillante ricostruzione di Alessandro Manzo Magno (Il genio del gusto, Garzanti, 2014) che smonta una per una molte delle tante “bufale” che oggigiorno circolano nel mondo del cibo diventato così di moda. (… ) Riprendiamo il favoloso (in quanto narrazione) viaggio del marinaio Spaghetti, per spazzar via legenda legata a Marco Polo. Che ha anche una precisa data di nascita: ottobre 1929. A pubblicarla per prima è The Macarony Journal, l’house organ dell’Associazione dei pastai degli Stati Uniti d’America. L’articolo, non firmato, si intitola A Saga of Cathay e prosegue raccontandoci che una volta a bordo il marinaio Spaghetti si pose il problema di come gustare quei fili croccanti. Crudi erano decisamente immangiabili; se cotti nell’acqua dolce, ancora più sgradevoli. E da qui l’idea di farli bollire nell’acqua salata del mare. Gli industriali americani della pasta, 10 anni dopo – nel 1938 – infiocchettarono ancora di più la storia rendendola romantica: una donna cinese mentre impastava il pane restò così scossa dagli ardenti racconti d’amore di un marinaio veneziano da far cadere per distrazione delle foglie di farina nell’acqua calda. L’uomo concepì l’idea di tirar fuori dall’acqua la pasta, di stirarla e allungarla in sottili fili e farla asciugare.
Insomma invenzione dopo invenzione, già a partire dal cognome Spaghetti del fortunato membro dell’equipaggio veneziano. Nomen omen, appunto. (…) E a un altro mostro sacro del cinema di Hollywood si deve ulteriore “merito” per l’accreditamento della bizzarra quanto falsa storia della pasta portata in Europa da Marco Polo. Gary Cooper, che nel 1938 interpreta il mercante veneziano nel film The Adventures of Marco Polo (inopinatamente trasformato dalla censura fascista in Uno scozzese alla corte del Gran Khan), punta il dito verso una scodella di vermicelli e domanda al cinese che gli sta accanto che nome abbia quella cosa. Nella nostra lingua li chiamiamo spa-gheth, risponde il cinese. Basta, è fatta: a quel punto, con la benedizione hollywoodiana, la storia farlocca fa il giro del mondo. Se qualche nostro odierno lettore dovesse vergognarsi ora per la sua creduloneria, non ne faccia dramma alcuno: un tal Cristoforo Colombo, navigatore di lungo corso e appassionato lettore del Milione di Marco Polo, spirò nel 1506 convinto non di aver scoperto anni prima le Americhe ma di aver raggiunto il Catai a bordo delle sue caravelle Nina, Pinta e Santa Maria.
Archiviamo la favola degli spaghetti portati dalla Cina in Europa. Del resto, nel Devisement du monde, il titolo originario del Milione scritto in francese dal pisano Rustichello da Pisa, non si trova traccia dell’aneddoto. (…)
Proviamo allora a mettere qualche punto fermo. Intanto individuando una data certa: 1154. Risale a quell’anno la prima citazione relativa alla pasta su un testo scritto. L’autore noto a noi col nome di Al Idrisi – abbreviativo di Abū ‘Abd Allāh Muhammad ibn Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn Idrīs al-Sabti – era un geografo e viaggiatore chiamato da Ruggero II re di Sicilia a realizzare la più completa cartografia dell’epoca. Idrisi ci offre così un punto fermo quando nel 1154, appena pochi mesi prima della morte del suo committente, scrive: “Ad una giornata di cammino da Palermo, verso levante, sorge Tirmah (Termini) sopra un poggio che sta a cavaliere sul mare… A ponente è un abitato che s’addimanda ‘At Tarbî’ah (la quadrata, Trabia), incantevole soggiorno, (ricco) d’acque perenni che (fanno muovere) parecchi mulini. La Trabia ha una pianura e dei vasti poderi nei quali si fabbrica tanta (copia di) pasta da esportarne in tutte le parti, (specialmente) in Calabria e in altri paesi di Musulmani e Cristiani: che se ne spediscono moltissimi carichi di navi.” (Al Idrisi, Il Libro di Ruggero, trad. di Umberto Rizzitano, Flaccovio, 1966)
Il documento certifica quindi in modo inoppugnabile che – già centinaia di anni primi del più famoso rally della storia sulla tratta Venezia-Pechino – la pasta era un alimento conosciuto, tanto da essere prodotta in quantità industriali, essere oggetto di importanti commerci internazionali, far parte del menù dei nostri dirimpettai del Mediterraneo. Ma non solo. La parola che Idrisi usa per definire i fili di pasta non lievitata che i nomadi portavano con sé, ci rimanda ancora più indietro. Chiama infatti col termine itriyya gli spaghetti ed ecco che già due secoli prima un medico ebreo che viveva nei pressi dell’odierna Tunisi in un trattato di medicina araba aveva definito con la stessa parola “i lunghi e sottili fili di farina essiccata che venivano cotti in acqua bollente”(John Dickie, Con gusto. Storia degli italiani a tavola, Laterza, 2007). Ancora oggi in alcune zone della Sicilia gli spaghetti a capello d’angelo si chiamano tria. Più avanti diremo dei “delitti” commessi cuocendo la pasta, intanto, a proposito degli arabi, basti dire che usavano immergerla in poca acqua, farla bollire a lungo e poi lasciarla riposare nel medesimo liquido per un’altra ora (Reay Tannahill, Storia del cibo, Rizzoli, 1987).
Il fondamentale testo che Idrisi ci ha lasciato (e che fortunatamente non è andato rubato e fuso come avvenne all’enorme disco di argento sul quale aveva realizzato la Tabula Rogeriana, il planisfero commissionato dal re siciliano) ci porta a retrodatare ancora di più la creazione della pasta. La parola araba itriyya rimanda alla greca itrion e alla latina itrium e, arrivando all’era volgare, a trijes che assieme al termine vermishelsh viene citata nel Talmud di Gerusalemme, redatto intorno al 350-400.
La pasta – con qualunque nome la si voglia chiamare – è quindi parte della storia e della cultura dell’intera umanità. Attraversa epoche e continenti, è “un cibo universale”, come sottolinea già il titolo del più approfondito e rigoroso studio storico pubblicato sul tema (Francoise Sabban e Silvano Serventi, La pasta. Storia e cultura di un cibo universale, Laterza, 2000). Oggi le parole pasta, spaghetti, maccheroni sono quasi sinonimo di Italia e italianità e del carattere degli abitanti del Belpaese. Possiamo vantarne la migliore qualità prodotta al mondo, ma non la primogenitura, l’invenzione. Gli ebrei ne facevamo grande uso in cucina e nei commerci esportando i vermicelli in tutta Europa. Anche se – sinceramente – non dovevano però essere particolarmente buoni: un vero mappazzone, direbbe il giudice di Masterchef Bruno Barbieri al cospetto di quella pappa aggrovigliata di filamenti cotti – pardon: scotti – perfino nel latte di mandorla, come ci tramanda una ricetta del XV secolo attribuita a una famiglia israelita di Fez, in Marocco. Traccia di vermicelli nei pasti a base di carne e di fettuccine vicino ai latticini si trovano nei testi del rabbino Jacob Mulin Segal, attivo a Treviso nel 1380. Ce lo ricorda Ariel Toaff che racconta anche del divieto affisso a Perugia nel 1432 col quale si vieta agli ebrei di “vendere, né far vendere, né donare, in oculto o in palexe, veruna quantità di lasagne ai cristiani” (Ariel Toaff, Mangiare alla giudia. La cucina ebraica in Italia dal Rinascimento all’età moderna, Il Mulino, 2000) . E’ però anche vero che a metà del Duecento i lasagnari ebrei, spesso di origine siciliana, usavano mangiare maccheroni bolliti e coperti di cacio. Diversamente, nei periodi ordinari, li riempivano di carne.
Insomma “l’origine della pasta non è italiana, non greca, non ebraica, non araba. Essa si trova diffusa in tutta l’area mediterranea ad uno stadio che potrebbe definirsi endemico, con probabilità di contagio lungo le vie della seta, visto che anche i cinesi sono stati chiamati in ballo come possibili progenitori, peraltro a sproposito. (Corrado Barberis, in La pasta, atlante dei prodotti tipici, Agra-Eri, 2004)”