La gestione dei poteri nel tempo storico delle pandemie – seconda puntata
Napoli, Masaniello e l’anticristo: l’infezione come punizione divina (anche oggi)
Stiamo ripercorrendo, come nella puntata precedente, la storia della gestione dei poteri durante le pandemie.
>> Leggi anche la prima puntata
Circa tre secoli dopo la grande peste del Trecento, durante un’altra crisi che sconvolge i Paesi europei, l’organizzazione dello Stato in formazione e le strutture dei poteri urbani si trovano meglio preparate – pur nei limiti delle condizioni mediche e sanitarie del tempo – ad affrontare l’ondata di pestilenze che investe, a partire dai primi decenni e per tutto il Seicento, l’Europa.
Un solo esempio di particolare interesse: la distribuzione per quartieri degli ospedali di Napoli che svolgono anche il controllo dello spazio sociale urbano. Una grande metropoli, abitata da oltre trecentomila persone tra la fine del Cinquecento e la metà del secolo successivo, non presenta certo una rete ospedaliera sufficiente a rispondere ai gravissimi problemi sanitari del tempo: si tratta di una dozzina di istituzioni in grado di poter ospitare non più di quattromila ammalati. Eppure gli ospedali sono perfettamente inseriti nel tessuto urbano e la loro collocazione sul territorio riproduce la particolare articolazione urbanistica voluta dal viceré Pedro de Toledo fra gli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento.
Gli ospedali della Vittoria, di San Giacomo, di San Nicola della Carità sono situati in una zona di circa cinquantamila persone che vivono tra Posillipo, Mergellina, Santa Lucia, il porto, Castelnuovo. In una seconda area, tra Castel Sant’Elmo e Mezzocannone, dove vivono circa sessantamila persone, sono situati due ospedali: Sant’Angelo a Nido e Pellegrini. L’ultima area, tra Porta Nolana e Porta Capuana, è quella più densamente popolata. Proprio qui è dislocato il maggior numero di ospedali: l’Annunziata, Sant’Eligio, gli Incurabili, San Giovanni di Dio, Santa Maria della Pace.
Dopo la peste del 1656 viene edificato un nuovo ospedale fuori le mura della città, San Gennaro extra moenia, proprio per rispondere ad un più efficace intervento sanitario sul territorio e creare distanziamento e isolamento dei contagiati.
Il Regno di Napoli appare tagliato fuori da una delle grandi direttrici europee dei secoli XVI e XVII, lo schema generale di quella che è stata definita “la grande reclusione”. Ad essa cercano di ispirarsi, sia pure in forma e misura assai variabili, le politiche assistenziali degli Stati a modello assolutistico: uno schema che traduce, su una materia specifica, l’esigenza politica della centralizzazione e della reductio ad unum statale di fronte alla disseminazione dei poteri nella società. L’immagine che ci restituisce il sistema ospedaliero del Regno ispano-napoletano è quella di una ricca articolazione dell’intervento pubblico e privato.
Anche durante la peste del 1656 nel Regno di Napoli i poteri concorrenti sul territorio sono protagonisti della gestione del fenomeno pandemico. In gran parte degli ospedali il controllo politico-amministrativo è prerogativa della rappresentanza popolare che, insieme con i cinque Seggi della nobiltà, governa il municipio di Napoli e partecipa alla gestione di alcune importanti funzioni urbane. Nel governo della peste entrano giurisdizioni a volte in rapporto di collusione, più spesso di collisione fra di loro: il re, il viceré, l’arcivescovo, la Chiesa diocesana e pontificia, gli Ordini religiosi, le strutture sanitarie, il Collegio medico, gli organismi rappresentativi nobiliari e popolari della capitale.
Ma è soprattutto la Chiesa, in tutte le sue espressioni e articolazioni giurisdizionali, che entra prepotentemente nell’affermazione del suo potere durante la peste. Con la pandemia del 1656 si inaugura forse la tendenza all’uso politico del contagio, che sarà ricorrente nei secoli successivi. Ed è proprio la Chiesa con i suoi predicatori che diventa protagonista di tale tendenza. Essa non può limitarsi alla generica storicizzazione del male nella genealogia sacra. Assai efficace si rivela allora una immediata concatenazione causale tra la rivolta napoletana del 1647-48 e la peste.
Al fine di rispondere meglio alle domande dell’immaginario popolare, i predicatori, nei giorni della peste, promuovono una più spinta personalizzazione del peccato attraverso la costruzione della figura demoniaca e mostruosa di Masaniello l’anticristo.
L’elaborazione più compiuta e organica di questo profilo, ovverosia il rovesciamento sistematico e meticoloso dell’identità sacro-santo-potente attribuita a Masaniello, è effettuata nel Quaresimale di padre Stefano Pepe, pubblicato a Venezia nel 1658, a due anni di distanza, cioè, dalla catastrofe epidemica.
Masaniello non è l’eroe, il santo, ma solo un prodotto della capricciosa fortuna, una creatura del diavolo prestigiatore e, come tale, evento effimero, verità non vera, “perché oue ti volgi all’hora, che ‘l rapace del regno superbamente imperaua, eccolo disteso da sette palle infuocate che gli destinò l’imprudente ambitione; ecco gli amici che gli segan il capo designato alla corona, oue ordito s’era il brutto ammutinamento; e ecco le voci populari che confuse con gridi e cachinni onorauan d’opprobrij la morte; e ecco il busto ignudo fatto scherzo di fanciulli per le pubbliche strade”.
La stessa mutevolezza della plebe è il segno della verità non vera. La verità vera è l’Ercole della Spagna che ha vinto questo Anteo fantasmatico, anima del demonio. Svuotati completamente di senso gli attributi della potenza soprannaturale, restano ben più corpose, nel loro orrifico realismo, le immagini di un Masaniello ricondotto alla misura dell’umana miseria con tutto il suo inventario di “biasimevoli sozzure”. ( Si veda: A. Musi, Masaniello. Il Masaniellismo e la degradazione di un mito, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2018).
La peste del 1656 a Napoli diventa così il castigo di Dio per il doppio peccato imperdonabile commesso dal popolo nel 1647-48: essersi affidato ad un miscredente, sodomita, demonio come Masaniello anticristo; essersi rivoltato contro il Dio in terra, il legittimo sovrano spagnolo.
La pandemia come castigo divino per le deviazioni dalla retta via dell’ortodossia è contrastata dai provvedimenti per contenere il contagio. Il rappresentante più illustre di tale atteggiamento è stato l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, nunzio apostolico emerito negli Stati Uniti. Viganò ha rilasciato dichiarazioni inquietanti che ricordano i contenuti, il linguaggio, lo stile controriformistici e barocchi della predicazione quaresimale impartita dai pulpiti delle chiese napoletane durante la peste del 1656.
Alle masse di fedeli, predicatori di grido, soprattutto barnabiti, facendo leva sull’immaginario e sulla predisposizione degli ascoltatori alla forsennata ricerca del capro espiatorio, inviavano un messaggio inequivocabile: la peste era il castigo di Dio al popolo napoletano, colpevole di essersi rivoltato contro il suo sovrano, Filippo IV. E, naturalmente, additavano nel demoniaco, sodomita, miscredente e peccatore impenitente Masaniello il responsabile non solo dell’atto di insubordinazione, ma anche dell’epidemia pestilenziale.
Come un terrificante predicatore barocco, Viganò ha dichiarato che il Coronavirus è stata la punizione divina per i peccati dell’aborto, dell’eutanasia, per “l’orrore del cosiddetto matrimonio omosessuale, la celebrazione della sodomia e delle peggiori perversioni, la pornografia”. Nell’intervista al giornale cattolico “The Remnant” ha tuonato contro la corruzione dei piccoli, la profanazione della domenica, la corruzione finanziaria. E ancora: “Il Signore, quando col peccato disobbediamo ai suoi precetti, non ci lascia morire, ma ci viene a cercare, ci manda tanti segnali”.
È la visione di un Dio vendicatore che restituisce l’amicizia con lui solo a chi si pente e fa penitenza. Manca solo il supplizio finale dell’auto da fé barocco. Il peccato è quasi “uno sputo sull’amorevole volto del Signore. La Chiesa non è mai imperfetta, è infallibile e santa, è il corpo mistico del Signore”. L’ultima perla di Viganò esplicita senza equivoci la sua posizione: “Papa Bergoglio ha affermato nella dichiarazione di Abu Dhabi che tutte le religioni sono volute da Dio. Questa è non solo un’eresia, ma una forma di gravissima apostasia e una bestemmia”.