C’era una volta Pinocchio, che morì impiccato per avere creduto nel mondo
Nel suo nuovo libro, Salvatore Ferlita si confronta con la prima, oscura edizione del burattino più famoso del mondo
È una fiaba gotica, oscura, in cui sull’ingenuità prevale la furbizia e spesso a essere puniti sono proprio i più indifesi.
Una versione sconosciuta ai più, di una delle storie più conosciute di tutti i tempi: Salvatore Ferlita riprende con coraggio la prima stesura che Carlo Collodi fece di “Pinocchio. La storia di un burattino”, di recente pubblicata da Il Palindromo, e mostra il racconto per quello che è, per come il suo autore l’aveva pensato per “Il giornale dei bambini”, che lo rende noto nel 1881. Senza, pare, eccessivo entusiasmo dell’autore: tanto che i giorni di pubblicazione delle puntate non sono fissi.
Quindici capitoli, in cui il burattino conosce il lato peggiore del mondo: un universo tetro, in cui un essere appena “nato” non fa in tempo a capire la differenza tra bene e male che si trova subito ingannato. Chiede ospitalità e riceve in cambio (da un adulto, particolare tutt’altro che secondario) una secchiata di acqua gelida; si fida dei sogni di grandezza del Gatto e della Volpe e muore, impiccato, dopo una tremenda e sfiancante agonia.
È capace però di una certa autonomia di pensiero, questo burattino che Ferlita descrive bene nel suo saggio contenuto nel libro. Un “Pinocchio rimosso” il cui candore splende tanto da indurre il burattinaio Mangiafoco e graziare una delle sue marionette destinata a cuocere l’arrosto. Pinocchio riesce a commuoverlo tanto che l’omone dagli occhi di brace non soltanto gli rende la libertà, ma gli dà cinque zecchini d’oro per fare fronte agli sperperi del burattino. Una stesura, questa prima, che secondo Italo Calvino è probabilmente l’unico romanzo italiano da ascrivere al Romanticismo nero e fantastico.
Succede però che, alla fine della storia – quando Pinocchio irrevocabilmente muore, strattonato dal vento e significativamente invocando il padre Geppetto (“Oh babbo mio! Se tu fossi qui!”) – i piccoli lettori scrivono infuriati al giornale. Pare anche il figlio di Giosuè Carducci, indignato quanto i suoi coetanei per una fine così impietosa. A Collodi viene così offerto di continuare la storia, e di ricevere quindi più denaro.
Lo scrittore non è esattamente il narratore di fiabe che ci si aspetterebbe dagli stereotipi: visceralmente attaccato alla figura materna, è perennemente in rosso per i debiti di gioco. Fuma, è un alcolista. E così accetta. E, osserva Ferlita, nel febbraio del 1882 quel racconto in origine veloce, guizzante, che precipita verso un epilogo nero come la realtà che tratteggia, viene risucchiato dal Pinocchio bino (la definizione è di Emilio Garroni) e prosegue fino al capitolo 36. Dove non la morte attende Pinocchio, ma una vera e propria risurrezione nella nuova veste di bambino in carne e ossa. Un romanzo di formazione dai tratti notevolmente più chiari, incentrato su una morale adesso ben rintracciabile. E molto, molto meno gotico.
Ma questa è un’altra storia, quasi antitetica a quella ripresa dal libro a cura di Salvatore Ferlita: necessario, per chi voglia comprendere appieno lo spirito e l’immaginario di un’Italia post-unitaria in cui i carabinieri appaiono per la prima volta su un testo scritto. Gotiche, efficaci e di grande poesia sono le illustrazioni con cui Simone Stuto invita il lettore a costruire una storia parallela, in cui i personaggi si moltiplicano e si rifrangono come in un caleidoscopio. E, se si osserva bene, riflettono anche noi, ancora pronti a gettare acqua gelida sul capo di chi chiede ospitalità.