Porta Nuova, l’autocelebrazione di un principe – Parte seconda
Quando l’aristocrazia intonava la Città
Incipit parte prima
Nell’acropoli palermitana del Palazzo Reale, Porta Nuova é il più bell’esempio di architettura manierista. Una gigantesca scultura fatta edificio di straordinaria complessità strutturale e decorativa.
Pur se meno famosa della coeva Porta Pia di Michelangelo, non bisogna pensarla come a un provincialistico fraintendimento stilistico, quanto alla precoce intuizione di un barocco illuminato dal sole mediterraneo. Avanguardia. Chiunque sia stato l’autore – e vi sono più dubbi che certezze – è un artista che ha saputo selezionare il meglio dei suoi anni, ricavare le regole della perfezione e riassumere se stesso in un’immagine compiuta con caratteristiche originali e mai pedanti.
Analisi e compendio storico
Il nome più frequente nella storia della Porta è Gaspare Guercio.
“Sono da attribuirgli, quali opere scultoree, i due telamoni su Via Colonna Rotta, bugne, mascheroni, lesene, modanature e fregi, nonché i quattro busti (Pace, Giustizia, Verità e Abbondanza), dentro i medaglioni della facciata che da’ sul corso Vittorio Emanuele.[26]”
Guercio è restauratore delle opere scultoree, ma non autore dell’impianto architettonico. Chi invece? Manca un documento, una lettera d’incarico o una ricevuta di parcella. E’ necessaria quindi un’analisi comparativa e compendio storico degli elementi decorativi. Uno ad uno.
a Trabeazione
Molto inconsueta. La trabeazione è affrancata da metope e triglifi sostituiti da bugne a punta di diamante e decorazioni a bassorilievo. Sirene bifide con ali compaiono sopra le teste dei ‘mori’ captivi; sono raffigurazioni di un brano sicuramente parte di un racconto iconografico centrato su una testa coronata (il Sole?) affiancata e protetta da due draghi[27].
Un ipertesto potrebbe raccontarci di un nobile gentiluomo diviso tra amore e dovere. Sono raffigurazioni simboliche non inconsuete in edifici pensati e costruiti nel tempo: “Una teratologia positiva esiste forse nella cultura manierista e in ambito riformato, in parte inerente alle teoria neoplatonica delle idee e delle loro trasformazioni o metamorfosi…[28]
L’operazione si attesta sulla trascendenza intesa sia in senso teologico che conoscitiva.
Le sirene mitologiche hanno una sola coda, mentre con due rappresentano un simbolo sessuale d’origine pagana che sincretizza l’antica dea della fertilità. In più queste forme, usate nei luoghi di culto e nell’architettura civile, sono citate perché intese come elementi apotropaici capaci di allontanare le forze maligne assicurando fertilità, procreazione e rinascita. Una raffigurazione diffusa sia nel mito che nei racconti popolari[29].
Il viceré Colonna predilige questa figura e addirittura erige ai piedi della Porta Felice una fontana[30] dedicata al suo amore Dn. Eufrosina, raffigurata come sirena, centrata e dominante sui mostri marini – le malelingue? – che la circondano. Una protagonista con forme che oltrepassano il marmo e zampillano acqua dai prosperosi seni. Autore Vincenzo Gagini.
Una sirena bifida compare anche nello stemma araldico dei Colonna.
“Colonna d’argento in campo rosso con due corone sopra il capitello, una d’alloro e l’altra imperiale, concessa da Ludovico il Bavaro[31] per l’appoggio prestato dalla famiglia per l’incoronazione a Roma; al di sopra campeggia una sirena portata su cimiero, in ricordo della battaglia navale affrontata dai Colonna nel 1435 a Ponza a fianco di Alfonso V d’Aragona contro Giovanna II d’Angiò, nella lotta per la successione al trono di Napoli”[32].
Altra sirena bifida, adiacente la famiglia della moglie Dn. Felice Orsini, é nel Parco Sacro di Bomarzo (arch. Pirro Ligorio?) voluto da Pierfrancesco II Vicino Orsini. Questa volta è la mitologica mostruosa Echidna, la madre di Cerbero cane a tre (e più) teste e guardiano degli Inferi.
Una sequenza di sirene bifide compare anche nella predella del coevo (post 1564) e calamecchiano pergamo della Cattedrale di Messina.
b/c Telamoni
Nell’apparato figurativo della Porta essi sono elementi prevalenti: non reggono che se stessi, mantengono interni i loro baricentri e non soffrono. Hanno matrice romana e antenati greco-siciliani. A cominciare dai colossali telamoni[35] del ciclopico Tempio di Giove di Agrigento[36].
Sono i primi che si conoscano e non solo in Sicilia; Luigi Crema scrive: “Dopo questo esempio si volgarizzò in Sicilia l’impiego architettonico di figure maschili e femminili, come gli atlanti di arenaria trovati a Solunto (e conservati a Palermo nel Museo Nazionale) e le figure di satiri (o, meglio, di attori camuffati da satiri) che appartenevano probabilmente alla scena ellenistica del teatro greco di Siracusa. Il motivo architettonico degli atlanti che sorreggono la trabeazione dorica sembra sia stato in voga nell’arte siracusana dell’età di Gerone II, e molti esemplari passati nell’arte ellenistica e romana sono di accertata origine siciliana…”[37].
Le Cariatidi dell’Eretteo di Atene sono di quarant’anni dopo[38]. Nei secoli ritroveremo il modello del telamone in alcuni dei più notevoli monumenti dell’antichità. Ancora Luigi Crema: “Secondo Vitruvio (I, 1) la loro origine, come quella delle cariatidi, le figure femminili impiegate allo stesso scopo, risale a una guerra. Gli Spartani, dopo aver vinto i Persiani nella battaglia di Platea, costruirono a ricordo della vittoria un portico detto appunto ‘persiano’ (porticus persica), con copertura sostenuta da statue rappresentanti i prigionieri nelle loro vesti barbariche. In realtà il sostegno a forma umana compare fin dai tempi più antichi in molte architetture (…) I Romani, tanto nell’architettura quanto nelle arti decorative, li ripresero tutti con la stessa libertà di concezione e di adattamento con cui interpretarono le forme greche. Inoltre, e specialmente negli archi trionfali, introdussero figure di barbari prigionieri, che devono considerarsi come dei pseudotelamoni, poiché non reggono nessuna cornice o trabeazione, ma sono semplicemente addossati ai sostegni di esse. Tali sono le statue di barbari prigionieri trovate a Corinto, che erano addossate a pilastri corinzî”[39]. Come i vinti Daci raffigurati nell’Arco di Costantino di Roma, o le loro statue nel Foro Traiano. Nei secoli avverrà la distinzione tra telamoni eretti ed inginocchiati.
Un approfondimento colto ed esauriente sui telamoni lo fornisce G. Capecchi[40]: “Con questi e altri aspetti furono impiegati spesso come elemento decorativo non solo nelle architetture ma anche in bronzi, mobili, ecc.”[41]. Presso i Romani assunsero anche forma di erme con la metà inferiore del corpo trasformata in pilastro tronco-piramidale. Bartolomeo Ammannati, coevo dello sconosciuto architetto della Porta Nuova di Palermo, le usò nella progettazione del Ninfeo di Villa Giulia a Roma[42] per focalizzare l’attenzione sulla fontana centrale[43]. Un’opera d’arte dentro un monumento all’architettura che, progettata e scolpita da Vasari e Ammannati, rappresenta le divinità dei fiumi.
Esempi di telamoni sono ovunque: a Palazzo Baleani (Jesi), a Palazzo Davia Bargellini (Bologna) e nella Sala dei Giganti del Castello di Ehrenburg (Sassonia-Coburgo), opera di maestranze italiane. Famosi i Telamoni del Palazzo Leoni[44] di Milano, abitazione dello scultore Leone Leoni con sculture di Antonio Abondio[45] .
Telamoni ed erme vanno dalla Magna Grecia alla Madre Grecia, emigrano nella Roma Imperiale e nella sua cultura figurativa ri-scoperta e ‘recuperata’[46] durante il Rinascimento. Il loro catalogo figurativo (dopo il Sacco di Roma del 1527) si diffonde in tutta l’Italia e in quell’Europa che l’aveva saccheggiata e rapinata per fondare ricchissimi monasteri o costruire castelli e palazzi cittadini di prestigio e superbia.
Analizzando telamoni, elementi architettonici ed altri dettagli decorativi dovremmo trovare analogie e corrispondenze chiarificatrici sull’identità dell’autore della prima edizione (cioè la prima elevazione) di Porta Nuova.
Prove illuminanti, ma non sufficienti spingono verso Andrea Calamech. Bastano per un’attribuzione prudente? No, e neppure per un conferimento.
Nel suo Palazzo Reale di Messina sono presenti due erme (o telamoni) a lato degli stipiti della grande vetrata del balcone principale.
Nel suo Palazzo Balsamo[47], invece, compaiono figure d’erme e telamoni realizzati con un misterioso impasto che – demolito il palazzo – li ha fatti sopravvivere.
La tecnica del calco è maggiormente visibile nella resa plastica delle mani e nella bella sintesi dei frutti che adornano le teste.
L’erma regge uno scudo perale accartocciato[48], cioè appuntato[49] e centrato su una simbologia tipicamente femminile ‘a semicerchi crescenti (la fecondità del parto? L’urlo?) ripresa qualche anno dopo da Bernini[50] a Roma nella Basilica di S. Pietro.
Il telamone invece non mostra il suo attributo maschile nascosto dietro un fiocco centrato tra due festoni ispirati agli affreschi romani delle grottesche[51]. Secondo l’archeologo Giacomo Bonisono un ‘riflesso dell’armonia divina’[52].
Dopo appena un passaggio semplificativo, i frutti – simbolo propiziatorio dell’abbondanza – potrebbero essere le ‘verruche’ della superficie di alcune bugne di Porta Nuova.
Calamech ha usato erme e telamoni, ma ciò non significa che sia l’autore di Porta Nuova. Oltre lo schizzo dell’Ingrassia non c’è alcun disegno progettuale di mano di nessun architetto. Però. Per vie parallele qualcosa rafforza una matrice calamecchiana e messinese: un’acquaforte di Rinaldo Bonanno, datata 1591 e incisa per ricordare uno dei suoi due archi di trionfo (sui 10 allestiti da vari artisti) progettati per la festa di S. Placido[53]. L’anno sembrerebbe escludere Calamech, ma alcuni elementi ne testimoniano una paternità che va oltre la ‘bottega’. Rinaldo Bonanno era suo genero e strettissimo collaboratore. L’arco è stato approntato per il 4 agosto 1589 (giorno della festa del Santo) e i lavori di costruzione sono cominciati nel novembre 1588. Quanto tempo è stato necessario per la progettazione, le modifiche e i difficili placet?
Questo della fig.19 è sicuramente un progetto della bottega d’arte di Calamech, inciso e stampato due anni dopo la sua morte. Impegno non nuovo per Calamech che nel 1571, secondo Fernando Marías[54], aveva eretto l’Arco trionfale[55] per celebrare l’ingresso di D. Giovanni D’Austria di ritorno da Lepanto. Del 1577 è l’arco di trionfo per il viceré Colonna che potrebbe averlo apprezzato così tanto da chiedergli un progetto per la Porta Nuova. Il disegno non è mai pervenuto, ma minuziosamente descritto dallo storico Giuseppe Buonfiglio Costanzo almeno nelle parti dipinte[56]. Tornando al disegno di R. Bonanno (fig. 19) i protagonisti del progetto sono quattro telamoni in coppia che, dipinti o tridimensionali, non sorreggono la poderosa trabeazione cimata. Come quelli di Palermo che reggono solo se stessi. L’acquaforte[57] illustra quanto di più simile all’originale della Porta Nuova di Palermo sia oggi reperibile.
Le analogie sono evidenti e lo sarebbero ancora di più se il frontone della Porta non fosse stato demolito per sopraelevarla.
Dov’è il suo disegno originale? Deve essere sicuramente esistito. In sostituzione solo una congettura: è un caso che a Palermo – escludendo lo schizzo di Ingrassia – non esista un disegno, uno schizzo, un progetto o una descrizione della Porta stessa?
Forse perché era un progetto che veniva da Messina? I Messinesi illustri operanti a Palermo per qualche motivo campanilistico (o altro) sono stati accomunati in quel (voluto?) silenzio riservato anche all’arcivescovo Marullo e all’architetto Natale Masuccio, volutamente dimenticato co-autore della grande chiesa gesuita di Casa Professa[58].
Marullo è stato Inquisitore e sappiamo molto poco della sua attività nel ruolo. Il grande rogo di registri e faldoni voluto dal viceré Domenico Caracciolo (1783) ha cancellato le tracce del criminale regesto della (poco) Santa Inquisizione. Ma sappiamo che nel 1585 ha ordinato vescovo Diego de Haedo inquisitore feroce e nemico personale del Viceré Colonna. Co-autore della sua fine?
Entrambi (come altri) sono stati destinatari di ‘malumori’ palermitani, coevi o successivi al bombardamento di Palermo da parte delle truppe franco-messinesi di Luigi XIV Re di Francia[59]. Anche gelosia e irritazione per cultura e architettura proveniente dalla più ricca Messina, co-capitale del Regno. Era stato già troppo il nuovo Palazzo Reale, la sistemazione della Cattedrale, la grande Chiesa dei Gesuiti, la ristrutturazione del Palazzo arcivescovile e l’impronta (guidata) del Seminario dei chierici… a Palermo no, silenzio, mentre architettura e cultura messinese avrebbero continuato a Catania e nella Val di Noto sconquassate dal terremoto del 1693. A Palermo no, proibito. Eppure sarebbero arrivate sino a Torino con le prestigiose (numerose) architetture[60] di Filippo Juvarra e a Madrid, capitale d’Europa, per il Palazzo Reale e il palazzo reale della Granja de San Ildefonso.
A parte i malumori da invidia o l’incendio degli archivi notarili durante il primo moto carbonaro di Palermo (1820), da ciò che è pervenuto si possono confrontare l’acquaforte dell’arco trionfale di R. Bonanno e l’edificio esistente della Porta. In entrambe struttura e proporzioni della prima elevazione sono secondo lo schema di Sebastiano Serlio, mentre lo stesso timpano cimato è sintetizzato e inciso nella fig. 3 di Hogenberg. Visti i tempi lunghi di lavorazione e stampa (1591), la data è compatibile con la sua ipotetica demolizione avvenuta nel 1583 per consentire ‘una’ sopraelevazione. Senza di essa Porta Nuova sarebbe stata sempre più somigliante al Settimo arco di Bonanno/Calamech. Oltre ai telamoni la decorazione presenta due motivi identici a quelli della Porta Nuova: le squame[61] e i draghi a lato del ‘sole’, analogie riscontrabili anche nel Sesto arco (v. fig. 20) a firma di R. Bonanno.
Le paraste del terzo ordine mostrano l’identica decorazione dei piedritti dei telamoni della Porta e identica la loro sequenza: intreccio a caduceo/drappeggio/drappeggio/intreccio a caduceo.
I quattro piedritti del secondo ordine, uniti ai mascheroni della cornice superiore, compongono altri quattro telamoni su base trapezoidale allungata. Supporto liscio e geometrico decorato con un motivo verticale ad ‘anelli’, lo stesso dell’erma di Palazzo Balsamo (v. fig. 18).
La stessa composizione di piedritti-mascheroni è presente nel monumento funebre Marchesi Barresi, splendido esempio di collaborazione tra Calamech e Bonanno[62] .
Archi trionfali e Porta non presentano monotone ripetizioni delle partizioni: le differenze sono calibrate in un equilibrio perfetto grazie alle modanature di separazione. Il ricorso agli effetti chiaroscurali, poi, accentua la resa plastica e conferisce all’insieme un gradiente decorativo sviluppato nella nitidezza del disegno e nelle corrispondenze di elementi unificati dalla simmetria. L’impianto, pur rigidamente geometrico, possiede una morbidezza plastica che evita il rischio di stanca riproposta di modelli classici. Invenzione ed originalità sono concretizzate in una ricerca formale in equilibrio tra la classicità romana ‘fotografata’ da S. Serlio e la innovazione figurativa della successiva architettura barocca.
d/e Mascheroni
L’uso di protomi umani o animali proviene dall’architettura romana e si diffonde dal XV secolo sino ai culmini espressivi della seconda metà del Cinquecento e dell’intero Seicento. L’esibizione di potenza e i trofei di guerra che rappresentano hanno lo scopo di informare gli sprovveduti che la città é protetta dai morti e dai nemici, reali o mitici che siano. Il loro inconsueto disegno è influenzato dalla pervasività di strutture simboliche ed epistemiche che sovradeterminano la libertà della progettazione e l’arricchiscono con elementi di un catalogo figurativo usuale nelle più aggiornate architetture manieriste. Da nord a sud dell’Italia, dai ‘crotti’ della borromea Isola Bella di Stresa (VB), al Ninfeo di Villa Visconti Borromeo Litta a Lainate (MI) sino al palazzo Castrone-S. Ninfa di Palermo. E a un semisconosciuto Palazzetto Maggiore ad Alì (Messina), esempio superstite dell’architettura messinese ‘minore’ del Valdemone.
Fig. 22 Palazzetto Maggiore, Alì (Me)
Un massivo portale bugnato ‘a cuscinetto’ con un mascherone apotropaico e mensola reggi-stemma sopravvive in “Un piccolo edificio che potrebbe essere di bottega calamecchiana (…) sono inconsueti e forse unici i conci di arenaria dell’arco d’ingresso concepiti su due piani sfalsati, doppio ordine e due livelli; il primo è costituito da conci pentagonali con gli angoli arrotondati alternati a bugne di diamante, il secondo – più arretrato – trapezoidale con angoli vivi.[63]” Una complessità inconsueta che sfugge a prima vista, ma che testimonia le grandi capacità dell’autore. Una progettazione d’alta scuola, sicura nella resa grafica e nella padronanza stereometrica di volumi resi come superfici. E’ il modo di Calamech di scolpire: quasi a strati paralleli e nello spessore minimo di superfici. La matrice è classica ed un raffinatissimo esempio é ancora visibile nel piedistallo della Colonna di Traiano di Roma.
Sull’archivolto c’è un mascherone apotropaico parlante, fornito di terzo occhio e con’espressione assai simile a quello di Porta Nuova dove i mascheroni sono tredici. Il 13 esoterico?[64] Uno é l’archivolto del fornice d’ingresso; quattro sono nei podi e otto nella zona iliaca dei captivi.
Palazzetto Maggiore, archivolto apotropaico
I più interessanti e significativi sono gli otto dei captivi. Dialogano tra loro con significati opposti: il mascherone del telamone con le braccia conserte é quasi sorridente e dalla sua bocca escono due festoni riflesso dell’armonia divina ispirati dagli affreschi romani delle grottesche. Il mascherone del telamone con le braccia tagliate[65] ne ha invece tre e rappresenta Cerbero guardiano degli Inferi.
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Note
26 Cosentino F., Dizionario Biografico degli Italiani, v. 60 (2003). Corso V. Emanuele è la vecchia Strada Toledo, già Cassaro o Via Marmorea.
27 In araldica la figura del drago rappresenta la fedeltà, la vigilanza e il valore militare.
28 Di Carpo M., Sonzogni V., Architettura e animali: Linguaggi, modelli, autorialità, Graphe.it Ed., 2014, p. 150.
29 Un esempio è la maga Alcina descritta nel 1409 da Andrea da Barberino nel romanzo “Il Guerin Meschino”. La tradizione popolare tramanda che le sue bellissime ancelle si accoppiavano con i giovani locali, ma ben attente a rientrare entro la mezzanotte temendo una mutazione in serpenti.
30 La fontana nel 1820 fu trasferita in Piazza Indipendenza dove, nel 1848 fu danneggiata dai patrioti anti-borbonici.
31 Ludovico IV il Bavaro imperatore (Monaco di Baviera,1282-1347).
32 Vittorio Ricci Requesens Zúñiga, Dissertazione Storica, Il Feudo di Sonnino dai Caetani ai Colonna: la parentesi del Regio Deposito Spagnolo (1549-1591), Academia.edu, 2015, p. 36.
33 La sirena bifida è rappresentata in moltissime chiese italiane, da Pavia a Bitonto, da Como ad Acerenza, un simbolo delle acque messo in evidenza dalla coda di pesce. A volte é Echidna, la mostruosa madre di Cerbero guardiano degli Inferi e come tale è rappresentata nel frontespizio del volume di Hubert Goltzius, Sicilia et Magna Grecia sive Historiae Urbium et populorum Graciae, Bruges, 1576.
34 “La sua concreta progettazione, tuttavia, dovrebbe spettare esclusivamente ad Andrea…” A. Migliorato, Una maniera molto graziosa, p. 236.
35 Sinonimo di Atlante, colui che regge il Mondo. Qui erano alti circa 9 metri mentre le semicolonne avevano un diametro di circa 4 metri. I Telamoni erano costruiti con 12 filari di conci sovrapposti e, posti tra le colonne, sorreggevano trabeazione e timpano con funzione statica ed estetica. Staticamente erano puntoni, esteticamente statue di captivi cartaginesi: simili nella corporatura e nella tecnica scultorea, si differenziavano nei tratti somatici di teste con barbe, capelli lunghi o giovani senza barba, capelli corti e/o ricciuti. I telamoni erano semplicemente poggiati: solo le braccia piegate e parte della testa erano inseriti nella muratura retrostante. R. Koldewey e O. Puchstein (Die griechischen Tempel in Unteritalien und Sicilien, Berlino 1899, pagina 160 segg.) li pongono negl’intercolunnî esterni, a metà colonne; B. Pace (Il tempio di Giove Olimpico in Agrigento, in Mon. Lincei, XXVIII, 1922, col. 218) li ipotizza addossati ai pilastri nell’interno della cella; P. Marconi (in Riv. R. Ist. arch. e st. dell’arte, I, 1930), li immagina all’esterno e poggiati su mensole.
36 Dopo la battaglia di Himera (460 a.c.) tra Cartaginesi e Greci, quest’ultimi eressero ad Agrigento il più grande tempio dorico della Grecia, terzo dopo l’Artemision di Efeso e il Tempio di Apollo a Didime.
37 Crema L., Treccani, da Enciclopedia italiana, 1937, ad vocem.
38 “… Il tesoro dei Sifni a Delfi, realizzato prima del 525 a.C. e ricordato anche da Erodoto (III, 57) come «uno dei più ricchi», rimanda le origini di questa tipologia in Attica e alla tradizione ionica delle isole Cicladi, strettamente legate alla politica ateniese fin dall’epoca di Pisistrato. Non sorprende quindi se, un secolo dopo, all’angolo sud-ovest dell’Eretteo, fu realizzata, con un linguaggio architettonico simile e da maestranze in buona parte originarie delle Cicladi, la loggia delle Cariatidi…” Giorgio Ortolani, Vitruvio (I, 1, 5) e la cultura dell’architetto: Cariatidi e telamoni nell’architettura ‘imperiale’, Università della Sapienza, Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura, f.lo 51, 2008, p. 4.
39 Crema L., Treccani, da Enciclopedia italiana, 1937, alla voce ‘telamone’.
40 Capecchi G., Treccani, Enciclopedia dell’Arte Antica (1997), alla voce ‘telamone’: “Alla difficile questione della Porticus Persica nell’agora spartana (Vitr., 1, 1,6) e dei suoi mutamenti nel tempo (Paus., in, II, 3) si collega quella della nascita delle immagini di prigionieri barbarico vestis ornatu come sostegni. Poiché entrambe le fonti alludono all’aspetto della porticus come apprezzabile tra la prima e la media età imperiale, resta discusso se anche la stoà originaria, eretta con le spoglie persiane di Platea, prevedesse Persiani come figure portanti; ed eventualmente, secondo quali modelli fossero redatti. Di fatto, a partire dall’ultima età ellenistica, la documentazione di barbari in contesto architettonico ce li attesta ancora in Satyrschema, sia in piedi (stele di Hanisa, forse della seconda metà del II sec. a.C.: ma sulla loro connotazione come orientali sottomessi non c’è certezza), sia inginocchiati; ovvero atteggiati in gesti di sottomissione o rassegnazione (Barbarenschema), che cancellando ogni evidenza dell’immagine come direttamente portante rendono necessaria la connessione della figura a colonne o pilastri o altri opportuni elementi architettonici, ai quali è devoluta sotto ogni rispetto la funzione di sostegno.”
41 Crema L., Treccani, Enciclopedia italiana, 1937, alla voce ‘telamone’.
42 Il casino fu costruito su progetto di Jacopo Barozzi da Vignola (1551–1553) e vi lavorarono Bartolomeo Ammanati, Giorgio Vasari e Michelangelo Buonarroti; il Papa spese grosse somme per aumentare la bellezza di una villa che è uno degli esempi più significativi dell’architettura manierista. La sua facciata (Vignola) è il prototipo della villa georgiana del XVIII secolo, tipica di molte abitazioni della Stato della Virginia.
43 Una struttura costruita intorno alla fontana centrale, con tre livelli di logge coperte e decorate con statue di marmo e balaustre, ovvero un ninfeo per pranzare al fresco durante la calura estiva. Ambiente al riparo dal sole ardente e da occhi indiscreti, adatto a feste che duravano l’intero giorno, notti comprese.
44 Il monumento a D. Giovanni d’Austria di Calamech ha la stessa postura della statua di marmo che Leone Leoni fece nel 1553 per l’imperatore Carlo V (Museo del Prado, Madrid): mano destra con simbolo del comando, piede destro sulla testa di un nemico vinto.
45Allievo del Leoni. In questo lavoro mostra forza espressiva e una maestria calligrafica derivata dall’essere un medaglista.
46 E’ stata fondamentale la scoperta della Domus Aurea dell’Imperatore Nerone e di tutto il suo stupefacente catalogo figurativo e progettuale. La Domus non era un Palazzo Reale ma una città dentro la Città.
47 Elegante edificio disegnato e costruito per D. Pietro Balsamo principe di Roccafiorita. La facciata si sviluppava su due elevazioni poggiate su un bugnato rustico fortemente plastico “ripreso dall’Ammannati, ma sperimentato in un contesto dove si afferma quel gusto illuministico e teatrale, che avrà ampio sviluppo in periodo barocco”(*). (…) Il sistema del portale-balcone sorretto da inconsuete alte mensole é quello del Palazzo Reale di Messina e divide simmetricamente la facciata con tre aperture per lato (…) Prima c’è lo studio dei modelli classici, in questo caso le Canefore dell’Eretteo dell’Acropoli d’Atene, quindi il superamento dello schema di figure che trasmettono la rigidità del pilastro sotto una trabeazione. Superamento come? Prima con l’abbandono della rappresentazione classica obbligata all’Olimpo, sostituita da una anima esoterica, poi con il rimodellamento dei volumi. Allungati e sinusoidali.” G. Provenzale, Andrea Calamech in Messina…, op. cit. p. 48.
(*) BoscarinoS., I caratteri dell’architettura civile di Calamech, 1986,74.
48 Il cartoccio é una sorta di cartiglio che si piega a volute fantasiose imitanti il cuoio, per delimitare uno spazio simile a quello di uno stemma.
49 Guelfi Camajani P., Dizionario araldico, Milano, 1940.
50 Bernini G.L., podi in marmo delle colonne tortili del baldacchino dell’altare maggiore della Basilica di San Pietro, Roma. Particolare dello stemma del Papa Urbano VIII Barberini. Gli otto stemmi finiscono con un mascherone che rappresenta ognuno una fase del parto.
51 La Domus Aurea era stata ricoperta da uno strato di terra per cui le ‘visite’ di archeologi e studiosi avvenivano calandosi in stanze battezzate ‘grotte’. Lì sotto sopravvivevano gli affreschi romani ripresi da Raffaello.
52 Consolato S., Giacomo Boni, l’archeologo-vate della Terza Roma, in Gianfranco De Turris (curatore). Esoterismo e Fascismo. Roma, Edizioni Mediterranee, 2006, p. 190.
53 Raccuia 1545-Me 1591?, scultore ed architetto. Comincia il suo apprendistato con G.A. Montorsoli e M. Montanini, quindi diventa allievo di Andrea Calamech di cui sposa la figlia Veronica. Nella rappresentazione dello spazio è profondamente influenzato dalla lezione rinascimentale di Montorsoli e Calamech, anche se non passivamente e senza dimenticare la lezione di Antonello Gagini. Seguire il regesto professionale del Nostro “permetterebbe di seguire il primo cammino del Rinascimento in provincia…” (M. Accascina, 1966, p. 21). La produzione di B. è numerosa e qualificata. I suoi archi di trionfo sono almeno due – forse di più ma non firmati – e ultimi lavori della sua vita.
54 Profesor Catedrático, Universidad Autónoma de Madrid. Studio su una Una estampa con el arco triunfal de don Juan de Austria (Messina 1571): desde Granada hacia Lepanto.
55 1577. Un’installazione effimera eretta per festeggiare l’arrivo del viceré Colonna. “Per queste opere l’artista si ispirò probabilmente al Libro VI dell’Architettura del Serlio dedicato alle porte come rivela l’uso delle bugne e la decorazione scultorea”(*). G. Buonfiglio e Costanzo ne fa’ una dettagliata descrizione (**) alla voce ‘Arco di Trionfo del viceré Colonna. L’unica indicazione architettonica parla di colonne, arco/archi?, tabelle e cimase, ma è assolutamente insufficiente per illustrarla.” Da G. Provenzale, Calamech in Messina… op. cit., 2016, p. 29. Forzando, l’Arco di trionfo ‘Colonna’ potrebbe essere la matrice progettuale del Terzo arco per la festa di San Placido perché stilisticamente simile al Sesto e Settimo arco e la più adatta a contenere “… tutte quattro le fronti compartite in quadroni, ne’ quali dipinti si vedevano molte ingegnose Imprese & Emblemmi”(**). Un’osservazione: anche se non firmati il Terzo e il Quarto arco hanno ai lati del fornice le due Vittorie alate presenti nel Sesto e Settimo delle acqueforti firmate da R. Bonanno. In più le nicchie ai lati del Terzo contengono due statue che sembrano riprese dall’Apostolato della Cattedrale. Una firma di Calamech?
(*) La Barbera S., Dizionario architetti..., v. III, p. 45.
(**) Messina Città nobilissima, 1738, p. 92-94
56 Terzo arco, anonimo, 1591
57 Settimo Arco, eretto nella strada Austria sotto l’Arcivescovado, per i Gloriosi Martiri Placido, Eutichio, Flavia, Vittorino. Autore: Rinaldus Bonanus Inventor da Filippo Gotho, Breve raguaglio dell’Inventione, e Feste de’gloriosi Martirj Placido, e compagni mandato al Seren.mo Don Filippo d’Austria Principe di Spagna da Filippo Gotho Cavaliere Messinese, Messina 1591, Biblioteca Regionale Universitaria di Catania.
58 Masuccio Natale (1568-1619), messinese e gesuita. Architetto nato, e nato architetto. Sa d’architettura già a diciassette anni quando entra come fratello laico nella Compagnia di Gesù e viene mandato quasi subito a Roma. “Alloggia presumibilmente nel Collegio Romano, ove può assorbire a pieno lo stile tosco-romano di Bartolomeo Ammannati e di Giuseppe Valeriani” (Maria Clara Ruggeri Tricoli, in Dizionario. Architetti v. I, p. 296) ed imparare le forme severe ed il già codificato modo di costruire della Compagnia.
Egli transita l’architettura gesuitica verso forme plastiche più concettuali, senza riflessi sub-regionali e già pre-barocche. Il Nostro è sicuramente il protagonista dell’architettura della Controriforma in Sicilia e non è un caso che nel 1596, a soli ventotto anni “è già alla direzione generale di tutte le fabbriche gesuitiche di Sicilia” (Maria Clara Ruggeri Tricoli in Dizionario Architetti, p. 296).
Nel 1596 è a Palermo per la costruzione della Casa Professa iniziata dal Padre Cesare Cosso su disegni originali di Giovanni Tristano (*). Disfa, ingrandisce e incassa malumori palermitani che si concretizzano nell’accusa di “fare disfare” senza necessità. Sono invece prova di quanto “la sua opera apparisse inusitata nel panorama delle fabbriche gesuitiche d’allora” (Maria Clara Ruggeri Tricoli, in Dizionario Architetti, p. 296). Dal 1602 al 1608 accelera la sua attività: direzione dei lavori nella provincia; correzione dei progetti di Giuseppe Valeriani per Malta; proseguimento dei lavori (**) del Noviziato di Monte Tirone a Messina cominciato nel 1573 su disegni di Andrea Calamech (***); inizio dei lavori della chiesa del Collegio di Caltanissetta (1605). Nel 1607 è nuovamente a Palermo: modifica la casa del Noviziato e (forse) progetta anche la chiesa a navata unica (***). Nel 1608 è a Messina per completare il suo progetto più importante: l’ambizioso Collegio Primario, con tre cortili, una chiesa al centro e una estensione pari ad una contrada. Diventerà l’Università degli Studi di Messina, ma resterà incompiuto. 1616 è l’ anno del destino: inizia il Monte di Pietà, suo ultimo lavoro. E’ vittima sacrificale di vecchi malumori tra Padre Giordano Cassio, palermitano Provinciale dei gesuiti e il Senato messinese. Il primo non voleva dare spazio ai gesuiti messinesi e ne aveva chiuso il noviziato, il secondo non accettava lo sgarbo e proponeva la suddivisione della Provincia gesuitica siciliana. Il messinese Masuccio si schierò con la sua Città e “Quindi tutto il danno cadde su Padre Masuccio, il quale d’ordine del provinciale fu carcerato in Caltanisetta, ed ivi trattenuto per lungo tempo, e finalmente cacciato dalla religione con ignominia” (C.D. Gallo, Annali, T.III, lib. II, p. 199).
(*) Maria Clara Ruggeri Tricoli, in L. Sarullo op. cit., v. I, 296.
(**) Co-direttori i Padri Francesco Costa ed Alfio Vinci.
(***) Il progetto di Calamech, inviato a Roma per l’approvazione, venne respinto e la nuova progettazione fu affidata a Giovanni Tristano che mandò un progetto irrealizzabile a causa della ripida pendenza. Il progetto definitivo ritornò a Calamech.
59 Guerra ispano-messinese del 1674-1678. Il 2 giugno 1676 la flotta franco-messinese(*) per finire il lavoro della battaglia navale di Augusta, insegue sino a Palermo e cannoneggia quella ispano-olandese rifugiatasi alla fonda. More solito solo gli Olandesi combattono – e bene – mentre gli Spagnoli “alli conflitti la spagnola era sempre tarda e si metteva dietro” restano a guardare… Spira un Grecale che spinge il fumo contro gli Spagnoli. “Azzuffatesi le due armate, ne avevano la peggio li Spagnoli e l’Olandesi” (**) costretti in un groviglio che annulla regole e strategie. Con il favore del vento i piccoli brulotti francesi si mischiano all’armata nemica e l’incendiano. Le navi, per evitarli si sparpagliano alla cieca, diventando bersaglio dei cannoni francesi. Saltano polveri, cannoni e corpi. L’ammiraglia Nuestra Señora del Pilar, imponente galeone arredato con arazzi, sete, ori, argenti, dipinti e vasellame pregiato, viene centrato da una cannonata e salta in aria. Forse “un grosso brulotto francese (…) gli appicciò fuoco così fiero, che non si puotè estinguere (…) si perdè con tutta questa bella machina tutta quella gioventù nobile che sopra aveva.”(**) L’apocalisse durò sette ore e terrorizzò una Palermo offuscata da un fumo talmente denso da oscurare il sole. Francesi e Messinesi entreranno in Città? No, inspiegabilmente rientrarono a Messina e la Città cominciò a tramontare sul Re Sole, regale traditore.
(*) I Messinesi furono arruolati nei reggimenti di re Luigi XIV, loro riconosciuto sovrano, e nello specifico nel battaglione ‘Cambis’: “… Levé par le Louis Victor de Rochechouart, duc de Vivonne, en 1676, il est crée en Sicile à partir d’un bataillon du régiment de La Marine et de recrues siciliennes.” (Jean-Louis Vial, France Infanterie ). Ricordiamo un nome: Geronimo Marchese, naturalizzato ufficiale della Marina Francese.
(**) Cuneo G., Avvenimenti della Nobile Città di Messina, ms. s.d. (1734?), trascrizione di M. Espro, Messina, 2001, p. 162.
60 Dal Palazzo Reale alla Palazzina di caccia di Stupinigi, dalla Reggia di Venaria al Duomo di Torino, da Palazzo Madama alla Basilica di Superga… più due altre dozzine d’edifici che costituiscono il corpus del catalogo figurativo della Torino barocca.
61 All’interno della Fontana di Nettuno di G.A. Montorsoli il gruppo marmoreo di ‘Scilla’ di cui alla fig. 128 è opera di R. Bonanno.
62 Visibile nella ricostruzione digitale in Migliorato A., Una maniera molto… fig. 40, p. 266.
63 Provenzale G., Andrea Calamech in Messina, Carrara 2016, p. 116.
64 Il 13 rappresenta l’Alchimista, in relazione con l’universo dei sensi e delle forme. Contiene anche il principio dell’ineluttabilità del cambiamento e il monito a non aggrapparsi a ciò che non produce progresso. Chi è sotto l’influenza del 13 può riparare o completare l’incompiuto delle vite passate. Si dice.
65 Ai vinti in battaglia venivano tagliate le braccia e messe sotto i corpi.