Porta Reale di Messina, la storia – Parte prima
Inizio o fine dell’Ottava Meraviglia del Mondo
Non c’è più.
Come la città di Messina di cui l’attuale porta solo il nome, la Porta Reale non c’è più e già il poterne parlare è difficile per scarsità di fonti da compulsare, poche rappresentazioni grafiche e appena qualche descrizione. Il gradiente di una città squassata da innumerevoli terremoti (di cui si ricordano solo quelli del 1793 e 1908), dalle distruzioni sistematiche post guerra ispano–messinese del 1674 e dai bombardamenti borbonici del 1848 e anglo-americani del 1942-43.
Distruzioni, incendi e morte di quasi tutti i suoi cittadini hanno consegnato ricordi zoppi e scarne notizie ben conservate presso l’Archivio di Stato. Più numerose le testimonianze reperibili al Museo Regionale, locus di autentici eroi del Passato. Profonde e approfondite le produzioni di storici dell’Università e di autentici appassionati di Storia Patria. Una rivincita generale sulla Dimenticanza, una punta di Nostalgia e un mai dichiarato Orgoglio orfano del permanere delle Fortune.
Oggi, l’indeterminazione è la caratteristica che impronta le notizie che riguardano la Messina che fu. Indeterminazione e tenacia di coloro che per ricostruire una memoria educata della città operano una sorta di archeologia archivistica sospesa nel dubbio delle fonti, incerta sul metodo e poco certa dei risultati. A volte annaspando tra i falsi storici.
Perché scrivere di questa Porta Reale? Per una beffa al destino che l’ha fatta dimenticare. Bilanciando memoria perduta e qualità del monumento è tra i più dimenticati. L’ho scelta estrapolandola da un apparato cittadino sepolto in macerie sotto le strade larghe e diritte della Città attuale. Una vendetta silenziosa contro i rumorosi trattori Fordson che l’hanno fisicamente tracciata. Una Pompei che nessuno mai scaverà, un fastidio da ricoprire immediatamente tutte le volte che qualcosa viene alla luce e per caso.
Dunque la Porta. Le Porte erano ventisei: otto nella cinta muraria e diciotto nel Teatro Marittimo (o Palazzata). Due le Porte Reali: una nella cinta muraria nord detta Porta Reale bassa, l’altra in quella est detta Porta Reale. A volte nominate viceversa. Storici e annalisti le dicono (le confondono?) entrambe dedicate a D. Giovanni d’Austria per commemorare il suo trionfale ingresso dopo la Battaglia di Lepanto.
Perchè interessarsi proprio delle Porte? Erano luoghi a futura memoria. Con le loro epigrafi raccontavano fatti e personaggi meritevoli di ricordo collettivo. Mai celebrazioni personali, ma austeri e solenni brani della storia cittadina raccontati non sui rarissimi libri, ma testimoni quotidianamente visibili su marmo e pietra.
La Porta Reale è quella più antica e probabilmente è solo un elegante portale addossato a un antichissimo fornice delle mura aragonesi. Era ‘reale’, non perché attinente al Palazzo Reale, ma perché dedicata a un re mancato. E’ anche connessa con la Porta Reale bassa a sua volta coeva di un’altra chiamata Porta Imperiale perchè innalzata nel 1620, all’arrivo del viceré D pedro Giron Tellez duca d’Ossuna, a ricordo di (altro) memorabile ingresso (1535) dell’imperatore Carlo V d’Asburgo (padre di D. Giovanni d’Austria) proveniente da Djerba e vincitore dei barbareschi. Dalle descrizioni pervenute, manteneva il carattere di arco trionfale più che porta di città, e celebrava oltre che l’aiuto che Messina gli aveva dato in oro e vettovaglie anche il contributo dei molti nobili che erano morti in Tunisia.
La collocazione delle tre porte è nella seguente fig. 1.
L’asse viario che l’architetto toscano Andrea Calamech aveva progettato, aveva regolarizzato la tortuosa Via dell’Uccellatore e previsto agli estremi due di queste porte. Non è improbabile quindi che le abbia disegnate e che siano state edificate postume per decisione (e scudi) del Senato. Esecutore materiale l’ingignieri del Senato, il toscano G. Maffei.
1620. Porta Imperiale
La Porta Imperiale potrebbe essere la copia dell’arco di Trionfo disegnato e innalzato nel 1535 da Polidoro Caldara da Caravaggio nella stessa occasione dell’ingresso in città dell’Imperatore Carlo V (1).
Dalle descrizioni degli storici si può dire che ha mantenuto questo carattere e solo in subordine è da ritenersi Porta di città. Un riscontro parziale di questa Porta si ha solo per la sagoma posteriore della controfacciata che compare nell’incisione di F. Sicuro (1768) nella tavola ‘Grande Ospedale’.
Escludendo quella nella nota(2) nessuna immagine è reperibile, ma deve esserci stata e sicuramente dispersa insieme alla montagna di disegni venduti ai primi collezionisti del genere(3). Resta la descrizione di un edificio con “Architettura ed intagli di marmi assai riguardevoli”(4) costruito con grossi conci bugnati e (quattro?) colonne toscane poggiate su un alto zoccolo decorato da bassorilievi a tema guerresco. Un’aquila imperiale apriva le sue ali di marmo nel punto più alto e teneva sul petto uno scudo con il blasone degli Asburgo. Dall’incisione di Sicuro le murature di spalla al fornice non sono abbastanza larghe da contenere 2+2 colonne e questa circostanza non confermerebbe Polidoro, a meno che le colonne descritte non fossero ‘binate’ o “con quattro colonne due tonde, e due piane” (v. n. 1) . L’aspetto generale potrebbe essere quello della Porta Reale di Calamech, anche le controfacciate sono simili. Duemila scudi il costo.
1620. Porta Reale
Solo duecentocinquanta(5) scudi per la Reale Bassa. Nel ‘700 ribattezzata Borbonica “per la memorabile entrata del nostro invittissimo e glorioso monarca Carlo Borbone”(6). L’illustrazione è di Van Wittel che nel XVIII secolo dipinge alcune vedute di Messina, assai fedeli grazie alla sua scatola ottica(7). Il gusto fiammingo abbagliato dal sole mediterraneo le fa’ ricche di un’atmosfera sospesa nel tempo senza tempo dei sogni colorati.
La porta dipinta sulla tela è appena un minuscolo particolare delle mura nord tra collina e mare: poche pennellate mostrano un bugnato rustico che non specifica alcuna ombra che lo mostri lesena o colonna. Il carattere è evidente e avvicina l’opera ai non-canoni dell’architettura manierista.
Fig. 2 G. Van Wittel, Porta Reale, particolare, olio su tela, 1714
Il disegno successivo è un’ipotesi fondata sulla sola immagine di Van Wittel. Un modello largamente usato nei secoli successivi sia in Italia sia in Europa e riproposto sino alla fine dell’800 con maleducate varianti. Il colore suggerisce il laterizio d’argilla cotta, come la fascia marca-ronda delle mura. Era sicuramente di pietra l’alto zoccolo sul terreno umido dell’adiacente torrente-fossato.
Da questa porta facevano il loro solenne ingresso i vicerè appena sbarcati (e riposati) alle Case Pinte dei Marullo. Normalmente aspettavano cinque giorni, in attesa che venisse montato e ultimato un arco di trionfo e “… con ogni diligenza il ponte al solito luogo di Porta Reale per la entrata solenne…”(8). Con il dubbio che nel caso di venuta dal Casino Marullo la porta d’ingresso fosse la Reale Bassa, ma nel caso di approdo (e quindi si giustifica il ‘ponte’ citato da Caio Domenico Gallo) la porta fosse quella Reale delle mura sul porto.
Fig. 3 Porta reale bassa, ricostruzione grafica dell’Autore
In queste occasioni l’alta società dei benvestiti, amministratori e potenti si mostrava ossequiosa all’arrivo di vicerè e viceregine. ‘Cavalcata’ di carrozze, cavalieri e ordini religiosi da anni erano esercitati allo sfilare composti e susseguiosi con sorrisi di maniera e gesti misurati. Percorso dalla Porta, per tutta la Strada Marina, la Via Austria sino all’ingresso in Cattedrale e al tuonare dei suoi quattro organi. Lì, stordito da suoni apocalittici e nuvole d’incenso, il vicerè giurava di rispettare i (super pagati) privilegi della Città. Almeno il primo giorno e sin quando fossero arrivate quelle attese personali ‘galanterie’ per cui aveva maneggiato a Madrid. A Corte aveva investito (tanto) denaro che si aspettava di aver compensato moltiplicato in loco. Corruzione o concussione fa’ lo stesso.
Illuminante è una cronaca riportata da C.D. Gallo(9):
“Il 22 dicembre 1651, dopo quel lungo viaggio per mare che fa desiderare la terra ferma, sbarcò il nuovo vicerè D. Rodrigo Mendoza Roxas y Sandoval duca dell’Infantado, con consorte, figli e numeroso seguito. Per il che avvisata la città di sua venuta, pose l’alloggio nel casino dei Marulli nella spiaggia di S. Francesco di Paola”. Sbarcò il vicerè e “dismontò la viceregina, accompagnata e servita dallo stratigò alla destra, e dal senatore Balsamo alla sinistra, e salite le scale del casino, che corrispondono al primo piano del bellissimo e vago giardino furono incontrate da ottanta dame messinesi superbamente addobbate, a vista delle quali la viceregina uscì dalla sedia (portantina, n.d.a.) e le accolse con molta cortesia ed amorevolezza, ed entrate nella sala si trattenne (…) restando il vicerè e la sua sposa molto appagati di tal ricevimento, dell’alloggio pomposamente accomodato e della magnificenza, con cui fu trattata la sua famiglia di trecento persone, fra i quali molti di cospicua qualità”.
Casino Marullo? Un casino interamente affrescato nelle facciate e negli interni, capace d’ospitare ‘con magnificenza’ una corte di trecento persone è una villa reale! Mentre per la definizione di magnificenza è bene ricordare di cosa fossero capaci intagliatori, indoratori e argentieri messinesi, tessitori di seta e mani di ricamatrici. Tutto magnifico, ma grande prudenza per quegli aristocratici non familiares dell’Inquisizione e per i commercianti ricchi ma non potenti. Nessun problema per i Marullo protetti da D. Cesare Marullo vescovo di Palermo e Grande Inquisitore, cioè Re del Regno Inquisitorio, vero regno nel Regno di Spagna e dintorni.
“Sebbene l’Arcivescovo Don Cesare, di cui abbiamo fatto ora parola, avesse trascorso quasi tutta la vita lontano dalla sua città natale, egli continuamente le rivolse il suo pensiero affettuoso e nostalgico, e volle adornarla edificando in riva al mare, fuori Porta Reale, in prossimità della Chiesa dedicata a San Francesco di Paola, un sontuoso ed originale edificio che fu comunemente chiamato col nome di Case Pinte. In questa splendida costruzione il Presule profuse grandi somme, quasi una fortuna, ma egli, per un estremo senso di delicatezza chiese ed ottenne dal Papa dell’epoca che dalle entrate che gli spettavano come personale suo appannaggio, potesse distrarre quel tanto che era necessario a fronteggiare quelle ingenti spese. Chiamati a raccolta i più valenti architetti ed artisti del tempo, che aveva già sperimentati nella costruzione del nuovo Palazzo Arcivescovile di Palermo e nei restauri di quel Duomo, Don Cesare Marullo vide ben presto sorgere quella incantevole villa che destò meraviglia ed ammirazione in quanti poterono visitarla. Era cinto questo nobile edificio da terrazze fiorite e da giardini pensili, ornato da pitture e da statue.
Fu chiamato Le Case Pinte per i dipinti che ne adornavano i muri esterni. Completata la costruzione nel 1580, fin dal suo sorgere divenne la dimora preferita dei più grandi personaggi che vennero a Messina.” C. Marullo di Condojanni, La famiglia Marullo, Messina, 1956, p. 45.
Note
1 Nel 1535 gli archi di trionfo erano stati sette. Effimeri. Cinque, disegnati e alzati da Domenico di Carrara (a) con epigrafi dettate da Baldo Granati: erano collocati fuori città, a sud, sulla strada del Dromo che portava a Catania. Il primo (e più lontano) era “su sei colonne, tutto d’alloro trasposto, e nel mezzo della sommità v’era una vittoria galeata et alata vestita di rosso e con la man destra che distesa teneva, porgea una corona d’alloro, e di sotto al primo cornicione verano queste parole in lettere d’oro, Vittoria, Augusti. Gli altri quattro erano simili, ma cambiava la decorazione vegetale: erano intrecciati d’edera, alloro, fiori e frutta, sino al sesto “… posto sopra xviij colonne sei nella prima faccia, (…) molto belle, poste d’oro, il pavimento tutto di panni fini di stametta, gialli, e rossi (…) le colonne, contraffatte di marmo lavorate, assai vaghe, coperte di raso, carmesino giallo e bianco, i capitelli fatti con morabile, arteficio, parti, hionici, parti corinti e parti toscani tutti posti d’oro queste colonne, con sue basi, e capitelli erano alte palmi xxiiij. Gli portici che duo erano l’un nella prima faccia, e l’altro, nell’altro, nell’altra, erano contraffatti di, marmo lavorati allantica di bellissima maniera erano alti palmi xxxv. (…) Il pavimento prese di canni. cxx. Questi tutti andarono assacco passato sua maghestà, l’uno e l’altro architravo delli portici erano di marmo intagliato al modo antico di maravigliosa bellezza lunghi palmi. liiij. Sopra l’architrauo il suo friso di petra miscia, e di sopra il friso il suo cornicione, intagliato di marmo, e di sopra quest’ordine, già detto era uno epitaffio, con sua cimasa, che faceva il fenimento con giusta misura in cima delli portici v’erano l’arme Dell’imperator di grandezza proporzionate a tal loco con due vittorie di marmo che regevano con mani quest’arme, e con l’altre mani, tenevano una palma, e nell’una e l’altra estremità della cimasa, erano l’arme della citta le quali tenevano certi puttini ignudi…”(b). Il settimo ed ultimo arco era prima dell’ingresso in città: “sua maghestà venne adentar nella città per la porta di santo antonio, al presente detta imperiale, onde fu fatta un’altra porta di impetra miscia di bellissimo artificio, con quattro colonne due tonde, e due piane con suo architravo, friso, e frontespizio, e nella sommita del frontispitio v’era una fama alata di marmo (c) con due trombe nella bocca in atto di sonare, e nell’estremità, del frontespizio due braciere con fiamme di foco, erano anchor nel friso di questa porta molti trophei, raccquistati nella guerra della goletta e di Tunisi, e nell’architrauo queste parole poste in oro, a solis ortu ad occasum. Questo arco di sopra descritto, e questa porta fe maestro polidoro di caravaggio pittor famosissimo, e meraviglioso di versi e prose fe Prete, Francisco Maurolico…” (d). Uno studio su come questa porta fosse stata pensata da Polidoro ce lo fornisce Pierluigi Leone de Castris nella sua monumentale opera Polidoro da Caravaggio: L’opera completa. Napoli, Electa, 2001.
(a) C.D. Gallo, Annali…, v. II, pp. 507-508. Nome non meglio specificato, però (Giovan) Domenico potrebbe essere il figlio di Giovan Battista Mazzolo (da Carrara). Collaboravano.
(b) Dalla relazione a stampa scritta dal Prete Colagiacomo D’Alibrando, Il triompho il quale fece Messina nella Entrata del Imperator Carlo V. e Molte altre cose Degne di notizia, fatte di nanzi, e Dopo L’avento Di sua Cesarea Maghestà in detta Città. Interamente riportata da C.D. Gallo, Annali…, pp. 499-516.
(c) Per necessità di tempo nessun elemento architettonico degli archi poteva essere di marmo, ma sicuramente “disegnato a finto marmo”.
(d) Mamertini, decreto patrum ac CesaRS, SiculorS primates Carolos cae Imperatori Augusto Cristiane Reip.patri, obmemoriam reRS Africe feliciter gestaRS arcum paepetuitatis erexere.
2 A Sx il Grande Ospedale, in mezzo la Chiesa di S. Cecilia, poi la Porta Imperiale (retro)
3 Fenomeno rafforzatosi dalla prima metà del XVII secolo con la splendida produzione di P. Del Po, C. Cesio e i siciliani G. Vasi e P. Aquila (entrambi operanti a Roma). Di seguito riporto un eccellente esempio della produzione di P(i)etro Aquila. Un calligrafica riproduzione del Portico Farnesiano affrescato da A. Carracci. “Il suo linguaggio incisorio, fondato, come quello di P. del Po, sull’intelligenza della forma per mezzo di linee modellanti, ammorbidite dall’impiego di puntini ad impasto di origine campagnolesca e leoniana”.Alfredo Petrucciin Dizionario Biografico degli Italiani, V. 3, 1961. Rispetto alle incisioni di Sicuro la qualità è eccelsa.
4 C.D. Gallo, Annali, Messina, 1877, T.III, lib. II, p. 210.
5 C.D. Gallo, Apparato agli Annali…, Messina, 1877, p. 223.
6 Ibidem.
7 Una camera oscura composta da una scatola oscurata con un foro stenopeico sul fronte e un piano di proiezione dell’immagine capovolta sul retro. Un grande ausilio per il gusto del dettaglio e l’impostazione descrittiva tipica del vedutismo olandese.
8 C.D. Gallo, Annali…, L III p. 247. La frase è riferita al solenne ingresso (1627) del Vicerè duca d’Albuquerque.
9 C.D. Gallo, Annali, op. cit., L. IV, pp. 338/339.