Quando internet non c’era: la rappresentazione del terremoto
Nel gennaio del 1968 un forte terremoto colpì la Sicilia, ventuno paesi furono rasi al suolo. In quella drammatica circostanza gli inviati dei giornali divennero protagonisti, c’era ancora l’eco del miracolo economico ma loro denunciarono il dramma dei paesi distrutti dopo essere stati svuotati dall’emigrazione.
La mutazione antropologica provocata dai mezzi di comunicazione di massa era di là da venire, ma da Palermo la televisione mostrò il salvataggio di una bimba rimasta sotto le macerie: la sua sorte divenuta spettacolo commosse milioni di persone, sgomente dinanzi a tragedie più grandi di loro. In quel panorama di desolazione l’apparecchio televisivo dominava incontrastato con le sue immagini in bianco e nero.
Quasi mezzo secolo dopo, la simultanea trasmissione di innumerevoli immagini e commenti ha messo all’angolo l’informazione dall’alto. Il giornalismo è diventato partecipato: il lettore prende parte e diventa protagonista, produce immagini, posta link, lancia commenti che possono raggiungere una vasta platea ed essere rilanciati diventando virali. Una mutazione antropologica, appunto: che rischia di lasciare su uno sfondo divenuto piatto, indifferenziato, un passato per definizione sempre lontano. Sono i rischi della più compiuta forma di democrazia oggi esistente, quella di internet.
I giornali cartacei hanno un vantaggio rispetto alla realtà virtuale dei social: si possono rileggere. La tragedia del Belice rivive grazie alla costruzione di immagini mentali che ricreino nel lettore i sentimenti vissuti dal cronista.
Il terremoto del Belice
Il gennaio del 1968 fu molto freddo, la neve cadde abbondante. Il 14 del mese molti paesi di montagna erano isolati, e continuava a nevicare. Era una domenica ovattata, silenziosa. Forse tranquilla, sino alle prime scosse di terremoto.
La terra si mosse alle 13,28 e alle 14,15. Due scosse leggere. Nella valle del Belice la paura, quella vera, iniziò con la terza scossa delle 16,48. Poi la notte fredda e buia, che diventò un incubo alle 2,33 e alle 3,01. Quando interi paesi vennero distrutti.
Rileggiamo le cronache de L’Ora e del Giornale di Sicilia, che pubblicarono pagine degne di figurare nelle antologie.
Nell’edizione del 15, lunedì, le notizie sono ancora incomplete. Solo con L’Ora, nel pomeriggio, si ha la misura di cos’è accaduto. L’epicentro del sisma è nel triangolo Gibellina-Salaparuta-Poggio Reale, al suo interno altri paesi presto famosi: Montevago, Santa Margherita Belice, Menfi, Salemi. Da Gibellina, Mauro De Mauro scrive: “si tratta di paesi vecchi, decimati dall’emigrazione. L’abbandono e la miseria che vi regnano sono stati messi crudamente in luce da questo movimento sismico, che non ha risparmiato niente”. Gibellina è distrutta, dei suoi 7 mila abitanti chi non è riuscito a scappare è sotto le macerie. Ma la mobilitazione generale lascia sperare in soccorsi rapidi.
Il 16 gennaio, il primo bilancio sul Giornale di Sicilia è di 400 morti e mille feriti. L’incessante susseguirsi di scosse fa cadere i muri semidiroccati, la terra continua a tremare mentre si rimuovono le macerie. Sui tornanti da Alcamo verso Gibellina non c’è un metro di paesaggio tranquillo: alberi schiantati, paracarri divelti, frane, fenditure sull’asfalto. Odore di zolfo che prende alla gola, magma ribollente chissà dove nelle viscere della terra. Nella montagna si sono aperti piccoli crateri, emanano colonne di fumo nerastro e vampe solforose: “il fiato rovente dell’Apocalisse”.
Da Montevago, Roberto Ciuni scrive di ruspe per aprire la strada alle squadre di soccorso, di un paese crollato addosso a chi si era svegliato dopo la prima scossa notturna e ancora fuggiva. È una tragedia contadina, che distrugge povere case di sassi, canne e tufo. Frana anche il volto dimesso del locale, risicato boom edilizio. Sono le abitazioni degli emigranti: in blocchetti di tufo legati con “calce magra”, appena una spolverata di cemento. Una tragedia dei poveri, feroce e assurda. A cui si somma il danno della disorganizzazione, subito visibile. A 12 ore dalla catastrofe a Montevago non ci sono soccorsi: “alle 4 del pomeriggio non c’è una tenda, una coperta, un cibo”. Sta tornando la notte, piove.
Lo stesso giorno 16, su L’Ora, Leonardo Sciascia riprende la denuncia di Ciuni e scrive di una Sicilia “pulviscolo umano disperso al vento dall’emigrazione”, un residuo, popolato da “quelli che ancora faticano con l’aratro a chiodo e col mulo. Un Paese non unificabile”.
Le corrispondenze diventano denunce. Felice Chilanti scrive di gente affamata, che chiede “latte per i picciriddi”. Ma da Montevago a Poggioreale, dove sono i soccorsi? Monta la rabbia, che lascia un frustrante senso di impotenza. La Sicilia del terremoto è povera, con vuote campagne lavorate in modo arcaico, “piegata su se stessa, sotto gli elicotteri che rimbombano nel cielo e se ne vanno”.
Continuano le scosse, alle 17,43 la terra trema per 52 interminabili secondi. Il pezzo di Marcello Cimino è un viaggio notturno nei paesi della morte, con sopravvissuti tremanti dal freddo, senza cibo: ma “non posso evitarmi di ricordare come nel passato, al solo annuncio di scioperi e occupazioni di terre, fosse fulmineo l’intervento della Celere”.
Scenari apocalittici si presentano ai soccorritori, il generoso moltiplicarsi delle iniziative trova un’eco nel caos della disorganizzazione. Ognuno agisce per conto proprio, “mancano gli ordini”. Si crea un’ingiusta gerarchia della tragedia, Montevago è la protagonista e vi è anche troppo cibo, che si spreca. In altri paesi, come a Camporeale o a Roccamena, i danni sono ingenti ma la visibilità è molto minore. Gli abitanti accampati nelle campagne sono stati dimenticati, tagliati fuori dai soccorsi: il 18 Ciuni scrive di persone terrorizzate, affamate e anche inferocite, che minacciano di marciare sino a Palermo, “gli andiamo a morire davanti agli occhi”. L’indignazione trova un facile bersaglio nell’inerzia dell’Ars, che placida e sonnolenta rispetterà il calendario delle sue convocazioni. Come se niente fosse.
Sono passati tre giorni, il terremoto non finisce. Ogni paese ha un suo dramma particolare. Nella corrispondenza da Salaparuta, raggiungibile solo in elicottero, leggiamo di sopravvissuti che vagano inseguiti dalle scosse sismiche, “migliaia di fantasmi di uomini che scappano in un paesaggio infernale”. Un pezzo di Sicilia è un cimitero di case, le foto a tutta pagina sono più eloquenti di mille parole. A Santa Ninfa i soccorsi ufficiali arrivano solo il 17, le strade per Santa Margherita Belice sono bloccate e i morti vengono allineati in piazza. Non ci sono certezze nemmeno sul loro numero. A Montevago, dove quintali di pane marciscono sotto la pioggia mentre a pochi chilometri si soffre la fame, i carabinieri ne contano 125. “Fame freddo e terrore” è il titolone a tutta pagina dell’Ora. Nei paesi isolati, con eroismo si cerca di strappare i sopravvissuti alle macerie. La morte di Cudduredda, la bimba estratta viva dalle macerie di Gibellina a 48 ore dal sisma, commuove il mondo: si chiamava Eleonora Di Girolamo ma per tutti era “Cudduredda”, dolcino. Diventata suo malgrado il precario simbolo della vita, al cui salvataggio avevano assistito milioni di telespettatori.
Il 24 gennaio, il bilancio ufficiale è di 216 morti e 563 feriti. È cominciato l’esodo. Il 22 gennaio la prefettura di Agrigento comunica che il 30% dei sopravvissuti è già partito. In compenso la valle del Belice si popolerà presto di imprenditori-avvoltoi, che sul terremoto sono pronti a edificare uno dei grandi affari siciliani. Ma questa è un’altra storia.
Il terremoto a Palermo
La notte dal 14 al 15 gennaio Palermo piomba nel caos, in un panico contagioso, “per i palermitani questa è stata una delle notti più drammatiche dal dopoguerra”. Le case vengono abbandonate, piazza Massimo e piazza Politeama sono subito piene di gente. Il 15, sul Giornale di Sicilia leggiamo “stamattina alle 4 l’incrocio tra via Notarbartolo e via Libertà era ingorgato da una lunghissima colonna di macchine, che fuggiva dall’ombra dei palazzi della città nuova suonando i clacson a distesa”. .”Ingorghi e tamponamenti favolosi”, affari d’oro per bar e panellerie. Molti incidenti, pronto soccorso che lavorano a pieno ritmo. Le macchine si dirigono verso la Favorita, verso Mondello ma anche a Bellolampo. Ovunque ci sia uno spiazzo abbastanza ampio da risultare rassicurante si improvvisano bivacchi e fuochi, che resistono per diverse notti.
Non ci sono grossi danni. Di fronte a quello che succede nei paesi, si sorride nel leggere che a Brancaccio è andata in frantumi la scorta di specchi della vetreria Mistretta. Ma il 15 la città è ferma, gli uffici vuoti, le scuole e i negozi chiusi. Anche i processi saltano, perché non arrivano i testi.
Martedì 16 si diffonde la voce che l’epicentro del sisma si sta spostando verso la città, che nel pomeriggio ci sarà un movimento di assestamento. Aumenta la paura. La stazione ferroviaria è presa d’assalto, si vendono biglietti come a ferragosto. E ogni volta che diminuisce la paura subito si formano lunghe code in via Lincoln, davanti alle cabine della teleselezione.
Pare incredibile, ma a Palermo le informazioni sul terremoto arrivano da fuori. Esiste un solo sismografo, appartiene al seminario dei frati minori di via del Vespro: le carte che produce vengono inviate al convento di Gibilmanna, dove risiede l’unico specialista in grado di leggerle. Siamo quindi ben lontani dal potere affrontare qualsiasi emergenza. Alla prima scossa seria saltano i pennini del sismografo, e bisogna contentarsi del rettore che dichiara “il sisma è stato violentissimo e intensissimo”. Su L’Ora leggiamo “stamattina il tecnico ha cercato di darsi da fare, è necessaria una molla ma non si trovava quella giusta nei negozi di Palermo”.
I pilastri del II Liceo scientifico, due piani e un seminterrato in via Maggiore Toselli, risultano seriamente lesionati. E L’Ora puntualmente denuncia come questi locali “adattati” a scuola siano in affitto, il fortunato proprietario è il costruttore “ufficiale” delle scuole di Palermo.
Non ci sono crolli “neanche nei rioni decrepiti”, un esperto spiega che il movimento tellurico è assorbito dai calcari compatti che formano il sottosuolo palermitano. Ma il caos non accenna a diminuire. La stampa sottolinea come manchi “una parola chiara”, i volontari che arrivano da ogni dove non trovano nessuno a cui rivolgersi, la città appare abbandonata a se stessa. Gli abitanti del rione Castello S. Pietro si trasferiscono in massa a piazza XIII vittime, ricoverati sotto “tende di fortuna”. Il terremoto mette a nudo le piaghe del centro storico, rende visibili lesioni alle pareti vecchie di “alcuni anni”, che all’improvviso fanno paura.
La notte del 20 le famiglie di Castello San Pietro occupano numerose case a Fondo Patti, a Pallavicino: dove gli appartamenti erano pronti da anni, ma non assegnati. Altri disperati si rifugiano nei vagoni che le Ferrovie hanno messo a disposizione della Prefettura alla stazione Lolli, a Brancaccio, a Tommaso Natale.
Messa da parte la paura, l’incalzare di drammatiche notizie crea un’ondata di solidarietà anche a Palermo. I giornali organizzano colonne di soccorsi, è Mario Farinella a guidare i tre camion riempiti da L’Ora con pane, latte, omogeneizzati e coperte. È una gara di generosità, tutti vogliono dare qualcosa e tanto più avvilente risulta l’andare a sbattere contro una colpevole disorganizzazione.
Come sempre, la città mostra due volti. Ci sono il caos e la paura ma, come scrive Mario Genco su L’Ora del 17, “questa incredibile Palermo, che si sbriciola alle prime piogge e si schianta alle brezze, ha resistito bravamente. Neanche una chiamata per i vigili del fuoco. Cornicioni e vecchi palazzi sono rimasti, per fortuna, al loro posto”.