La storia, il razzismo e gli Stati Uniti
Perché il “caso George Floyd” è diverso rispetto a casi simili solo in apparenza
Ne La democrazia in America, Tocqueville afferma che il più temibile di tutti i mali che minacciano l’avvenire degli Stati Uniti è la presenza dei neri sul loro territorio. Nel lungo capitolo dedicato alle tre razze che popolano l’America, il filosofo francese appare preoccupato del futuro della “giovane” democrazia incapace di risolvere il nodo di una società bianca che non riesce a fare i conti con i suoi ex schiavi neri (1).
Se, da una parte, il senso di superiorità dei bianchi sembra essere insito e radicato, dall’altra i neri sono, agli occhi di Tocqueville, del tutto incapaci di venir fuori dal ruolo che la Storia ha cucito loro addosso: una razza inferiore, nata per servire. Un quadro pessimistico, certo, che richiama la visione aristotelica (2) della schiavitù, sebbene le differenze tra passato e presente siano ben chiare allo stesso autore (3).
Tocqueville morirà qualche anno prima dell’abolizione della schiavitù in America, ma il dibattito di quegli anni, che avrebbe portato alla sanguinosa Guerra di secessione, era ben noto allo studioso. Egli era certo che l’abolizione della schiavitù nel Sud avrebbe prodotto effetti contrari a quelli auspicati: l’odio razziale dei bianchi contro i neri sarebbe aumentato. La sua previsione si basava su un’evidenza, a suo dire, incontestabile: gli Stati del Nord, che furono i primi ad abolire la schiavitù, videro triplicarsi i casi di intolleranza, discriminazione e razzismo. Al Sud, invece, dove le barriere tra bianchi e neri erano ancora ben salde, vi era una tolleranza maggiore. La paura della Miscegenation acuisce episodi di violenza che saranno ben noti, del resto, anche agli italiani emigrati negli USA. Si veda, a tal proposito, la celebre causa Rolling vs Alabama (4).
Che sia opportuno o meno porre fine alla schiavitù negli Stati Uniti, secondo Tocqueville non ci sono alternative per il futuro: «bisogna che i negri e i bianchi si confondano interamente o si separino».
Certo, può accadere che un uomo si metta al di sopra dei pregiudizi di religione, di paese, di razza. Ma affinché vi sia una vera rivoluzione nella società, è necessario che quest’uomo sia un re oppure un despota che riesca a mescolare neri e bianchi sotto lo stesso giogo. Un popolo intero, secondo Tocqueville, non saprà mai mettersi al di sopra di se stesso.
Sono passati secoli da allora. Eppure la questione razziale continua ad essere uno dei nodi irrisolti più spinosi con cui la democrazia americana deve fare i conti. Di fronte al brutale omicidio avvenuto il 25 maggio scorso a Minneapolis, si fa ancora più cocente l’esigenza di aprire un dibattito che, a partire da alcuni fatti epocali accaduti negli Usa tra gli anni Cinquanta del Novecento e i primi quindici del nuovo secolo, ci aiuti a capire in che modo la questione razziale possa davvero essere archiviata.
Questo primo contributo è dedicato ai fatti di Little Rock del 1957.
Il 5 settembre del 1957 a Birmingham (Alabama) l’afroamericano Judge Aaron viene rapito da un gruppo di bianchi che, dopo averlo rinchiuso in una casa abbandonata, lo picchiano e lo mutilano gravemente. Il giovane morirà poco dopo l’arrivo in ospedale. Judge Aaron si batteva per l’integrazione nelle scuole americane dei ragazzi neri. Il 17 maggio del 1954, infatti, la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva dichiarato contraria al diritto la segregazione nelle scuole pubbliche: «Si devono prendere al più presto i provvedimenti necessari ed opportuni per ammettere alunni alle scuole pubbliche su una base non discriminatoria» (5). La separazione era in contrasto con il 14esimo emendamento della Costituzione che stabilisce l’uguaglianza di tutti i cittadini americani.
L’anno successivo in Arkansas il board per l’educazione della scuola superiore Little Rock, in ottemperanza alla sentenza della Corte suprema, prepara un piano di graduale attuazione della direttiva stabilendo che, a partire dal 1957, gli studenti neri sarebbero stati ammessi gradualmente a scuola in modo scaglionato: prima negli istituti di istruzione superiore, nel 1960 alle medie e nel 1963 alle elementari. Si trattava, dunque, di un’integrazione simbolica: pochi neri, infatti, sarebbero stati integrati ai bianchi. Nel caso di Little Rock, a fronte dei 150 posti disponibili solo 27 alunni neri chiedono di essere iscritti e solo 9 partecipano alle lezioni. (6) Le proteste dilagano: molte associazioni del profondo Sud si fanno promotrici di provvedimenti dinanzi alla Corte dello Stato dell’Arkansas, firmano appelli diretti alla Corte federale del distretto e pongono in essere una serie di ingiunzioni davanti a giudici.
Il governatore dell’Arkansas, Orval Faubus, manda la Guardia nazionale a impedire l’ingresso degli studenti neri a scuola. La paura è quella della Miscegenation, ovvero la mescolanza tra le razze attraverso il matrimonio (7) e, in un contesto tale, la scuola assume un grande rilievo: è qui infatti che fioriscono i primi amori tra i ragazzi.
La scintilla scoppiata tra segregazionisti e integrazionisti non lascia indifferente la Casa Bianca. Dinanzi alla concreta possibilità di un incendio devastante, l’11 settembre del 1954 Faubus invia un telegramma al presidente Eisenhower: «Certamente è mio desiderio adempiere l’ordine della Corte distrettuale (integrazione)… Posso conferire con voi quando vi riesca più comodo?» (8). I due si confronteranno il 14 settembre a Newport, alla presenza del procuratore generale Herbert Brownell e di un membro della Camera dei rappresentanti, Lawrence Brooks Hays.
Alla fine dell’incontro, durato oltre due ore, Faubus e il presidente si fanno fotografare mentre si stringono la mano in segno di accordo. Ma, appena rientrato in Arkansas, Faubus continua a mantenere il presidio davanti la scuola con le guardie in tenuta di guerra, con elmetto e fucile a baionetta.
La risposta di Eisenhower non si fa attendere: il presidente invia a Little Rock cinquecento paracadutisti della 101esima Divisione Aviotrasportata, mettendo di fatto la Guardia nazionale dell’Arkansas sotto il controllo federale. Era la prima volta, dopo la guerra civile, che il governo di Washington inviava le forze armate per far applicare una legge federale. I sudisti accusano il presidente di intrusione illegale in una materia che è di competenza del governo statale dell’Arkansas e invitano Faubus a proclamare lo stato di emergenza, mettendo la Guardia nazionale sotto il suo comando e sottraendola così all’autorità di Washington.
Da questo scontro emerge la lacerazione più sanguinosa del sistema politico americano: il rapporto tra la sovranità tra i singoli Stati e quella del potere federale. Tale conflitto sembra essere all’origine stessa degli Usa e risale già al primo presidente americano, George Washington, il quale invia truppe federali nello Stato della Pennsylvania per reprimere la “ribellione del whisky” scoppiata nel 1794 (9).
Dopo un lungo braccio di ferro, i nove studenti neri (6 ragazze e 3 ragazzi) riusciranno a entrare a scuola il 26 settembre del 1957.
Ma chi era Orval Faubus? Figlio di piccoli agricoltori di Combs (Arkansas), a soli 40 anni è già governatore. Medaglia al valore per aver combattuto durante la seconda guerra mondiale, diventa presto l’eroe dei segregazionisti, partito predominante negli Stati del Sud. L’Arkansas è ai tempi uno degli Stati d’America in cui la percentuale dei neri è tra le più basse tra gli Stati del Sud: solo il 30% (Mississippi e Carolina del Sud, solo per fare un esempio, superavano il 40%). Nella prima fase del suo mandato, Faubus sposa una politica moderata facendosi persino promotore dell’integrazione dei colored nelle scuole.
Perché allora si trasforma in segregazionista convinto ai tempi della vicenda di Little Rock? Davvero possiamo spiegare questa trasformazione solo con la ricerca di consensi e di voti? Certamente la voglia di consolidare e allargare il proprio bacino elettorale avrà giocato un ruolo determinante, sebbene quella scelta gli abbia successivamente precluso l’arena politica nazionale. Dietro quell’improvvisa radicalizzazione del governatore dell’Arkansas, un ruolo fondamentale è giocato proprio dagli Stati del profondo Sud, i quali vogliono capire fino a che punto lo Stato federale sia disposto a tollerare una forte resistenza contro le leggi della nazione americana. Secondo alcuni giornalisti del tempo, dietro Faubus c’era il Consiglio dei cittadini bianchi, un’organizzazione suprematista che si ispirava al vecchio Ku Klux Klan.
E in effetti, le dichiarazioni di Faubus all’indomani della decisione presidenziale di inviare le truppe federali appaiono perfettamente in sintonia con le posizioni dei segregazionisti del Sud, i quali accusano lo Stato federale di illecita intromissione. Faubus si spinge oltre, arrivando a paragonare l’invio delle truppe federali davanti Little Rock all’occupazione tedesca di Parigi durante la seconda guerra mondiale e a quella sovietica di Budapest.
Il Paese si divide letteralmente in due. I sudisti vogliono la divisione in nome di una filosofia antica: “uguali ma divisi”; gli Stati del Nord appoggiano invece Eisenhower.
Ma al Sud, la maggioranza della popolazione sta con i segregazionisti e rifiuta con ribrezzo i neri. La gente del Sud non vuole contatti con loro. Nessuna mescolanza né a scuola, né a casa, né in albergo e neppure al cinema o sui mezzi di trasporto pubblici. Persino nei caffè esistono due entrate: una per i neri e l’altra per i bianchi e dentro i locali di ristoro le panche creano ambienti separati tra le due “razze”. Le cause di quest’odio sono certamente antiche e trovano un fondamento nella questione sociale. Il 15 luglio del 1943, in pieno conflitto mondiale, le industrie automobilistiche di Detroit sono state convertite per produrre armi. Povertà, fame, carenza di alloggi e tensioni sociali sono all’ordine del giorno. A Belle Isle Park, 400.000 immigrati afro-americani e sudisti bianchi si contendono spazi e occupazione. Scoppiano tensioni e scontri (10) che vengono repressi nel sangue da 6000 soldati federali per ordine di Roosevelt e del Governatore: 34 i morti – di cui 25 neri uccisi da poliziotti bianchi e da uomini della Guardia nazionale – e 433 i feriti. Le autorità addossano la responsabilità delle rivolte ai teppisti neri e ai giovani.
In realtà, un’analisi successiva ha rivelato che i rivoltosi erano prevalentemente bianchi disperati per la mancanza di lavoro. Infatti, in seguito alla crisi provocata dalla grande depressione e successivamente allo scoppio della seconda guerra mondiale, i neri giungono in massa nelle industrie automobilistiche di Detroit dove si costruiscono jeep e carri armati. Un forte esodo di lavoratori afroamericani investe anche i cantieri navali di New York, le fabbriche di aeroplani di Los Angeles e le acciaierie di Pittsburgh e di Chicago. L’industria bellica, in quegli anni, arriva ad assorbire il 40% di manodopera nera (11). I bianchi credono che i neri rubino loro il lavoro e non accettano di avere gli stessi salari. Alcuni commentatori del Manchester Guardian (12), nei giorni successivi alla rivolta, parlano apertamente dell’odio razziale dei cittadini bianchi del Kentucky e del Tennessee, portati a Nord a lavorare nelle fabbriche di armi. Analogo ragionamento è quello del Sindaco di Detroit, Edward Jeffries, che al Chicago Tribune (13) fa esplicito riferimento all’insofferenza dei lavoratori bianchi, i quali non tollerano di essere trattati economicamente alla stregua dei neri.
Dunque allora, come oggi, alla base degli scontri ci sono sempre la marginalità sociale, la povertà e la mancanza di diritti che trasformano l’odio in una vera e propria guerra tra poveri per l’esclusivo possesso delle scarse risorse. Il “diverso” viene generalmente rifiutato perché percepito come portatore di degrado dello spazio urbano in cui, in realtà, egli ha facile accesso proprio perché quello stesso spazio è già precedentemente degradato. Tuttavia, se è vero che nell’America degli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento la mancanza di case e di viveri, la promiscuità, le disastrose condizioni igienico-sanitarie, spingono i poveri bianchi a rivolgere la loro ira contro i poveri neri (14), quello che sta accadendo oggi, dopo il brutale omicidio di George Floyd, è qualcosa di diverso. Le ribellioni esulano infatti dal prevedibile copione dello scontro tra settori marginali della società: a insorgere adesso è un’intera classe sociale, a prescindere dalla razza, accomunata da processi di mobilità sociale discendente della popolazione, da abitazioni degradate e fatiscenti, da disoccupazione, fame e mancanza di diritti.
E il nemico, questa volta, non è il “diverso”. Come dice bene Marina Catucci (15), l’appartenenza di classe è diventata più forte della divisione razziale. Lo stesso governatore del Minnesota, Tim Waltz, ha riconosciuto che le sommosse non hanno ormai più nulla a che fare con l’omicidio di George Floyd.
Alla rabbia per l’ultimo vile atto commesso dalla polizia contro un civile inerme, si innesta il malcontento per una crisi socioeconomica di dimensioni colossali, aggravata pesantemente dalla pandemia del Covid 19 che ha prodotto, in soli due mesi, 40 milioni di disoccupati in America. Nessun sussidio sociale è previsto a tutela di chi perde il lavoro e così il profondo bacino dei precari e degli immigrati senza voce e senza diritti si ribella all’unisono, minacciando da vicino il cuore pulsante del capitalismo.
Note:
1 A. de Tocqueville, La democrazia in America (1835-1840), a cura di N. Matteucci, Utet, Torino 2007.
2 «Dunque, quale sia la natura dello schiavo e quali le sue capacità, è chiaro da queste considerazioni: un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà: e oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all’azione e separato. […] Se esista per natura un essere siffatto o no, e se sia meglio e giusto per qualcuno essere schiavo o no, e se anzi ogni schiavitù sia contro natura è quel che appresso si deve esaminare. Non è difficile farsene un’idea con il ragionamento e capirlo da quel che accade. Comandare ed essere comandato non solo sono tra le cose necessarie, ma anzi tra le giovevoli, e certi esseri, subito dalla nascita, sono distinti, parte a essere comandati, parte a comandare. […] Ora gli stessi rapporti esistono tra gli uomini e gli altri animali: gli animali domestici sono per natura migliori dei selvatici e a questi tutti è giovevole essere soggetti all’uomo, perché in tal modo hanno la loro sicurezza. Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata – ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio così. Quindi quelli che differiscono tra loro quanto […] l’uomo dalla bestia (e si trovano in tale condizione coloro la cui attività si riduce all’impiego delle forze fisiche ed è questo il meglio che se ne può trarre), costoro sono per natura schiavi […]. In effetti è schiavo per natura chi può appartenere a un altro (per cui è di un altro) e chi in tanto partecipa di ragione in quanto può apprenderla, ma non averla: gli altri animali non sono soggetti alla ragione, ma alle impressioni. Quanto all’utilità, la differenza è minima: entrambi prestano aiuto con le forze fisiche per la necessità della vita, sia gli schiavi, sia gli animali domestici. Perciò la natura vuol segnare una differenza nel corpo dei liberi e degli schiavi: gli uni l’hanno robusto per i servizi necessari, gli altri eretto e inutile a siffatte attività, ma adatto alla vita politica […]. Dunque, è evidente che taluni sono per natura liberi, altri schiavi, e che per costoro è giusto essere schiavi», R. Laurenti (a cura di), Aristotele, Politica, I, 4-5, Laterza 1996.
3 «Nell’antichità la disuguaglianza sancita con la schiavitù rappresentava una finzione legale, maturata in circostanze conflittuali, che copriva una somiglianza d’origine fra schiavo e padrone. La guerra spesso riduceva allo statuto di servo uomini ben più civilizzati dei propri oppressori. In questa situazione, l’affrancamento costituiva la soluzione giuridica per ripristinare l’uguaglianza reale cui faceva seguito una dissipazione dello stigma dell’inferiorità nei costumi. Nella modernità il «fatto immateriale e contingente» della schiavitù si lega in un intreccio nefasto al «fatto materiale e permanente» della differenza razziale. Tra servo e padrone si apre un solco tracciato dall’origine, oltre che dalla libertà. Una reale emancipazione non potrà allora accontentarsi di abbattere le barriere legali, ma dovrà dissolvere i pregiudizi e le rappresentazioni che hanno fondato la supremazia del bianco. Inoltre, mentre “gli antichi incatenavano il corpo dello schiavo, ma lasciavano libero il suo spirito e gli permettevano di istruirsi”, i moderni hanno spiritualizzato il dispotismo per evitare che i servi possano maturare il desiderio della libertà ed elevarsi», N. Mattucci, Il punto di vista nazionale: razza, schiavitù e colonialismo negli scritti di Tocqueville, https://u-pad.unimc.it/retrieve/handle/11393/122006/2197/Mattucci_Tocqueville.pdf.
4 Nel 1922 un giovane nero, Jim Rollins, viene condannato per aver consumato una relazione sessuale con una donna bianca. Rollins fa appello e sostiene che la donna non è affatto bianca bensì italiana, siciliana per la precisione. Il giudice, P. J. Bricken, riconosce che la donna italiana non può dimostrare di essere di razza bianca e assolve Rollins da qualsiasi accusa: «It cannot be seriously questioned that in the absence of the alleged confessions of this defendant the evidence adduced upon the trial of this case is too vague and uncertain, and therefore insufficient to overcome the presumption of innocence, evidentiary in its nature, which as a matter of law attended this defendant on his entering upon this trial; and, in the absence of the alleged confession the evidence in our opinion did not meet the burden of proof required of the state. And as the so-called confessions were for two reasons improperly admitted, it must necessarily cause a reversal of the judgment of conviction. The confessions were improperly admitted, first, because at the time they were offered the corpus delicti had not been proven, nor was there any evidence from which it could be inferred. At that time there was no evidence whatever to sustain the material allegation that Edith Labue, the codefendant, was a white woman, or that the defendant was a negro or a descendant of a negro. There was no competent evidence to show that the woman in question, Edith Labue, was a white woman, or that she did not have negro blood in her veins and was not the descendant of a negro. This fact was essential to a conviction in this case, and, like any other material ingredient of the offense must be proven by the evidence beyond a reasonable doubt and to a moral certainty. The mere fact that the testimony showed this woman came from Sicily can in no sense be taken as conclusive that she was therefore a white woman, or that she was not a negro or a descendant of a negro», Sentenza della Corte d’Appello di Alabama, 17 gennaio 1922 in https://lists.peacelink.it/dirittiglobali/2016/07/msg00006.html.
5 G. Augusto, I negri in America, Corriere della Sera, 21 settembre 1957.
6 Le ragioni della scarsa adesione al nuovo provvedimento da parte delle famiglie nere sono da attribuire alla paura che i figli possano subire discriminazioni e violenze. Questo timore è confermato del resto anche dal direttore dell’Arkansas Gazette, Harry Ashmore, che definisce quei 9 ragazzi “crociati”, cfr. D. Bartoli, L’ombra del Ku Klux Klan dietro il governatore Faubus, Corriere della Sera 16 ottobre 1957.
7 A riprova del fatto che la paura della mescolanza non fosse solo una peculiarità americana, si ricordino le note copertine della rivista La Difesa della Razza, come ad esempio quella del 20 febbraio 1940 dove l’infertilità degli accoppiamenti tra bianchi e neri viene rappresentata da un fiore appassito, simbolo di morte.
8 G. Augusto, I negri in America, cit.
9 Nel 1791 i coloni dei monti Appalachi iniziano a protestare per l’introduzione di una accisa sui liquori e sulle bevande distillate. L’ideatore di questa tassa è il Segretario di Stato al Tesoro degli USA, Alexander Hamilton. La tassa nasceva dalla necessità del Governo federale di recuperare i soldi che erano serviti a finanziare la Guerra di indipendenza americana. L’ondata di protesta esplode nel 1794, riportando il Paese a una situazione simile a quella del 1765, quando i coloni protestavano contro lo Stamp Act e lo Sugar Act. Per evitare che la situazione degeneri ulteriormente, George Washington e Alexander Hamilton decidono di inviare una milizia di 13.000 uomini nella Pennsylvania occidentale. Al comando di Washington in persona, 20 capi della rivolta vengono arrestati dalla milizia. Cfr. L. V. Mannucci, La genesi della potenza americana. Da Jefferson a Wilson, Milano, 2007.
10 «Bisogna ammettere che il comportamento dei bianchi è stato deplorevole. Bande di malviventi hanno approfittato dell’occasione per dare l’assalto alle case dei negri e derubarle per assalire le giovani negre, per tirare fuori a viva forza uomini e donne negri dai tranvai, dalle automobili e dalle case dove si erano rifugiati e linciarli. Molti negri sono stati buttati nel fiume Detroit […] bianchi e negri si lanciarono gli uni contro gli altri tra urla di spavento delle donne e dei bambini», Cfr. Odio di razze in America, Corriere della Sera 15 luglio 1943.
11 Si veda G. Mammarella, Storia degli Stati Uniti dal 1945 ad oggi, Laterza, 2013.
12 «Le cause degli incidenti sono state numerose e complicate. Tra l’altro c’è da lamentare l’indebolito sistema nervoso della popolazione e la mancanza di disciplina. Ci furono rivolte simili in varie parti degli Stati Uniti durante l’altra guerra tra cui quella avvenuta a East St. Luois (Illinois) dove perdettero la vita 33 negri. Una delle ragioni del cattivo sangue che corre tra bianchi e negri in Detroit è che molti poveri cittadini bianchi degli stati del Kentucky e del Tennessee sono recentemente stati portati nel nord a lavorare nelle fabbriche di armamenti. Per quanto i bianchi non possano soffrire i negri in tutto il Nordamerica, questa insofferenza è più spiccata nel sud che nel nord. I cittadini bianchi degli Stati del sud arrivati a Detroit e dintorni sono rimasti scandalizzati nel vedere i negri muoversi liberamente nei luoghi pubblici, in apparente eguaglianza con i bianchi. Questi cittadini degli Stati del sud non hanno ancora saputo adattarsi alle necessità della guerra e alla necessità di dover fare buon viso ai negri», Manchester Guardian in Rivolta dei neri a Detroit (Odio di razze in America), Corriere della Sera 15 luglio 1943.
13 Ecco cosa diceva il Sindaco di Detroit, Edward Jeffries, al Chicago Tribune il 15 luglio del 1943: «Purtroppo molti lavoratori bianchi provenienti dal sud hanno portato con sé i propri pregiudizi contro i negri e sono scandalizzati nel vedere i negri lavorare a fianco dei bianchi e con il medesimo salario. Il governatore dello Stato di Michigan, Harry F. Kelly ha dichiarato che gli incidenti erano la spontanea esplosione dell’odio tra le due razze che non è mai scomparso nel distretto e che ha trovato nella nuova situazione molti motivi per risorgere», Ibidem.
14 «In Detroit e in molti altri grandi centri industriali le condizioni di vita sono state aggravate in modo indescrivibile dalla guerra. Non ci sono case d’abitazione e gli operai e le loro famiglie, bianchi e negri, vivono nella più pericolosa promiscuità e in disastrose condizioni igieniche. C’è grande scarsità di quasi tutte le merci e particolarmente di viveri perché ci sono pochi generi alimentari e il poco che c’è è mal distribuito. In queste circostanze è naturale che i cittadini più duramente colpiti cerchino di sfogarsi e che le loro ire si rivolgano contro compagni di diversa razza e colore», New York Times del 15 luglio 1943, Ibidem.
15 M. Catucci, La rivolta si prende l’America e diventa uno scontro di classe, Il Manifesto, 31 maggio 2020.