Il ministero Bottai e la scuola della riforma
La didattica scolastica, i problemi di ieri e di oggi e l’approccio con la storia
Il vissuto drammatico che coinvolge tuttora le scuole italiane, e che ha avuto inizio a partire dalla primavera 2020, ha prodotto una notevole mole di riflessioni di carattere pedagogico-didattico, incentrate soprattutto su questioni metodologiche. Secondo la maggior parte di queste considerazioni, una relazione mediata in modo esclusivo dalla tecnologia digitale obbligherebbe a un radicale mutamento dell’atteggiamento comunicativo da parte dei docenti, e a un diverso modo di immaginare la programmazione e l’esposizione dei contenuti curriculari.
A nostro giudizio, questa discussione non ha conosciuto particolari momenti di originalità, riproponendo, forse in termini più aspri, la consueta polemica tra i sostenitori di una riforma radicale della scuola italiana, in atto da più di due decenni, e chi da sempre vi si oppone. I primi, che avevano conosciuto una fase in cui la loro egemonia sembrava venire meno, hanno sicuramente ripreso forza, nella convinzione che la necessaria adozione della didattica a distanza avesse ulteriormente confermato le loro ragioni. Altri hanno invece giudicato un atteggiamento cinico quello di considerare la pandemia una sorta di “occasione” da non sprecare; ritenendolo un opportunistico agire politico, che approfitta di una fase emergenziale per dare definitiva attuazione a una radicale trasformazione della scuola, evitando un confronto pluralistico con chi vi si oppone, tenuto conto che tale progetto risulta inviso a buona parte dei lavoratori della scuola, e anche a una parte tutt’altro che marginale e poco rappresentativa del mondo intellettuale e della cultura.
All’interno di questo confronto, però, la tematica relativa alla didattica della storia non ha trovato molto spazio. Merita dunque attenta considerazione un confronto tra uno dei pedagogisti più rappresentativi del pensiero riformatore, Roberto Maragliano, e Antonio Brusa, un esponente di punta tra coloro che sostengono le ragioni di una didattica della storia nel segno dell’innovazione, in linea con i principi pedagogico-didattici del pensiero riformatore, personalità di punta del sito Historia ludens.
Tale scambio di opinioni (1), peraltro convergenti, si distingue per ampiezza, analiticità, e interessanti riferimenti di vario tipo; insomma, si tratta di un contributo sicuramente ritenuto importante dagli autori, capace a loro parere di rappresentare un momento di chiarificazione rispetto a proposte che, anche tra gli storici, suscitano diverse perplessità (2). Spiace allora, in una riflessione che intende coinvolgere diversi interlocutori, constatare un impianto argomentativo, e anche retorico, che riproduce tutti i limiti di chi ritiene di rappresentare una posizione così avanzata, tanto da non dover rendere conto in modo motivato di alcuna osservazione critica, che pure in questi anni, anche in ambito storico, non è affatto mancata.
Nel testo riprodotto non è dunque possibile trovare autentico cenno a ipotesi falsificanti. I pochi riferimenti a prese di posizione che si intendono contestare rappresentano affermazioni marginali, discutibili e poco significative, per appiattire su di esse, con intenzione delegittimante, punti di vista ben più complessi (3). Si dà inoltre per scontato che esista un campo del sapere, denominato didattica della storia, che avrebbe una sua specificità; dunque per poterlo affrontare non sarebbe sufficiente essere storici di professione, e insegnare la disciplina vuoi all’università vuoi nella scuola superiore, ma bisognerebbe anche essere esperti dei processi di apprendimento. Ovvero fare proprio un insieme di teorie che, come è stato più volte sostenuto, non trovano affatto universale consenso sul piano scientifico, né nel campo della teoria della conoscenza né in quello degli studi pedagogici.
Compare inoltre nei due interventi una strategia retorica fondata su un continuo auto compiacimento, complementare a quella delegittimazione delle ipotesi avverse; i due partecipanti, continuano ad auto elogiarsi, in un atteggiamento alla lunga stancamente ripetitivo. Oppure citano a conferma delle loro tesi i propri studi o il proprio blog. Il moderatore del dibattito non introduce alcuno spunto che possa mettere in difficoltà i relatori, ma ne anticipa le conclusioni, quasi fossero le uniche possibili.
Diversi sono a nostro parere i luoghi comuni richiamati nel corso del dibattito, senza che degli stessi si dia adeguata dimostrazione: l’idea che la pandemia costringerebbe a ripensare i rapporti tra educazione e saperi, con netta subordinazione di questi ultimi rispetto alla prima; la svalutazione della “didattica trasmissiva” disciplinare, cui consegue l’abbandono di tutta quella tradizione pedagogica di alto profilo, semplicisticamente riferita a un orizzonte culturale “novecentesco”, se non addirittura “ottocentesco”; un’assolutizzazione della didattica pratico-operativa, che sarebbe già in buona parte realtà nelle scuole primarie, e che dovrebbe essere estesa a tutti gli altri ordini di studio, dando per scontata la minore rilevanza del sapere teorico; un giudizio critico su chi si oppone all’innovazione, appiattito unicamente su motivazioni corporative.
Al di là di però queste affermazioni, che a noi sembrano più dei luoghi comuni che non dei dati di fatto incontestabili, compare un riferimento storico da parte di Roberto Maragliano che getta a nostro parere una significativa luce sui presupposti ideologici di tutte le argomentazioni presentate.
Tale impegnativa formulazione giunge a seguito di un ragionamento, finalizzato a dimostrare il carattere “reazionario” (nel testo si parla esplicitamente di «risposta reazionaria alla modernità») del pensiero di coloro che si oppongono all’introduzione in modo assoluto nelle scuole delle presunte innovazioni didattiche. Un’ennesima riproposizione retorica dell’opposizione progressista-conservatore, arricchita con un riferimento a Gramsci a nostro parere fuori contesto e filologicamente poco sostenibile (4).
Possiamo a questo punto riportare per intero il passo che intendiamo sottoporre ad analisi:
Quando oggi parliamo di scuola liceale, quando riconosciamo ad essa la funzione di vertice siamo, più o meno volontariamente, portatori di quel progetto di reazione e del suo significato sociale. Intendiamoci, non è mia intenzione, qui, svalutare la formazione umanistica, cerco di mettere in crisi l’idea che essa sia il percorso privilegiato, socialmente privilegiato, per la formazione di livello intermedio, quella preuniversitaria. Altri paesi, nella stessa fase di cui ho detto, istituirono, accanto alla scuola liceale di impianto umanistico, altre scuole parimenti ‘importanti’, anche in senso sociale, per esempio centrate sull’area scientifico-tecnica, come la Germania, o sull’area politico amministrativa, come la Francia. Non così in Italia, dove, tra l’altro, la restaurazione ottocentesca significò anche la conferma di una marginalizzazione intenzionale della scuola basica: elemento su cui, paradossalmente, la pedagogia del regime fascista si trovò a tradire la riforma Gentile in senso democratico, arrivando a proporre, con Bottai, una scuola media unificata.
La difesa dell’istituzione “liceo” viene dunque immediatamente considerata come espressione di un atteggiamento reazionario verso la scuola; ovvero, come viene precisato più avanti, come una volontà di restaurare un modello sostanzialmente ottocentesco.
Infatti Maragliano, forse per cercare un’improbabile originalità rispetto alle sintesi storiche generalmente proposte dai riformatori, che individuano nel modello scuola “novecentesco” un rudere sostanzialmente da demolire, riferisce il progetto gentiliano a un clima culturale e a una concezione pedagogica ancora decisamente ancorati al secolo XIX, secondo una linea che condurrebbe direttamente da Gabrio Casati alla riforma del 1923. Poche righe, nella quali non vi è alcun riferimento ai molteplici percorsi intellettuali che, attraverso le riflessioni di Labriola, Villari, Croce, Salvemini, trovarono i loro migliori esiti soprattutto in età giolittiana, e che costituirono probabilmente la migliore riflessione mai prodotta sulla scuola in Italia.
Non si tratta di una precisazione secondaria, in quanto l’idea di scuola promossa dalla riforma Gentile, pur distinguendosi per alcuni aspetti peculiari, trae origine proprio dal dibattito che si dispiegò negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, e che costituì un’importante momento della riflessione pedagogica in Italia.
E non può essere compresa senza un significativo confronto con le posizioni degli altri interlocutori; probabilmente i criteri che guidarono il ministero presieduto da Benedetto Croce, troppo breve per lasciare tracce, avrebbero costituito un’alternativa migliore. Rimane il fatto che le scelte che allora vennero preferite trovano spiegazione, almeno sul piano pedagogico-didattico, in quel dibattito primo novecentesco che, al contrario di quello che ritiene Maragliano, voleva proprio opporsi alla mentalità del secolo precedente, ancora fortemente condizionata da un modello piattamente positivistico. Questo aspetto viene totalmente ignorato dal pedagogista, che può quindi affermare un’improbabile affinità tra periodi molto diversi, in cui sia i riferimenti culturali sia la consapevolezza sui problemi della scuola in vista di una modernizzazione del Paese, a partire dalla formazione della sua classe dirigente, erano decisamente differenti.
Maragliano si oppone dunque all’idea di scuola propria della cultura liberale, a cui sostanzialmente si richiamano sia i programmi sia la metodologia implicite nella riforma Gentile. E alla scuola liberale contrappone quella del lungo ministero Bottai, sotto il quale si realizzò – o si tentò di realizzare – la «fascistizzazione integrale della scuola».
Sarebbe oltremodo scorretto, da parte nostra, sovrapporre i due aspetti (quello ideologico e quello riferentesi ad alcuni aspetti tecnici e innovativi che nel corso di quel ministero di realizzarono), per poi lanciare un’improbabile accusa, intellettualmente disonesta, di condividere un progetto culturale nel suo complesso sicuramente reazionario. Sarebbe auspicabile però analogo atteggiamento verso chi approfondisce in modo articolato l’idea di scuola cosiddetta “gentiliana”, individuandone le origini nel clima di rinnovamento dell’età giolittiana. Aggettivo, “gentiliano”, spesso usato con un’indebita estensione semantica, fino a comprendere tutta una fase storica del pensiero pedagogico italiano, che vedeva al suo interno molteplici articolazioni.
Questo non vuol dire negare l’adesione convinta di Gentile al fascismo, né sottovalutare alcuni aspetti dell’organizzazione della scuola che la sua riforma implicava, ovvero una gerarchia interna sostanzialmente autoritaria, tesa al controllo e al disciplinamento dei docenti, coerente con l’esigenza di negazione del pluralismo cui il fascismo puntava. Una gerarchizzazione interna alle scuole, peraltro molto vicina ai progetti attuali di riforma dello statuto giuridico dei docenti e degli organi collegiali, rispetto all’idea di scuola impostasi con i Decreti delegati. Ma, nel caso di Gentile, tali provvedimenti risultano semmai in contraddizione con il modo di intendere la valorizzazione della cultura da parte di Gentile stesso, come dimostra, per esempio, la politica degli autori invitati a collaborare alla stesura delle voci dell’Enciclopedia Treccani (5).
Non è casuale, allora, la decisione dei padri costituenti di scegliere il modello di scuola gentiliano come il più coerente con i nuovi principi repubblicani; un modello fondato sulla priorità dei saperi disciplinari, nella consapevolezza che un accesso a tali conoscenze fosse un diritto per le classi subalterne, e avrebbe consentito loro quell’emancipazione culturale, senza la quale non si poteva avere reale consapevolezza dei propri diritti.
Questo non vuol dire negare il carattere escludente verso le fasce sociali più deboli che nella scuola repubblicana ancora si manifestò. Ma questa difficoltà a rendere effettivo il principio di eguaglianza di accesso all’istruzione non fu dovuta, come sostengono testi anche molto recenti di carattere istituzionale, al fatto che il sapere disciplinare non sia in sé pluralistico.
È probabilmente vero che tra le discipline, nella visione di Gentile, spesso i saperi venivano considerati secondo criteri gerarchici, e non sempre interconnessi. La scienza, ovviamente, non è solo una conoscenza di utilità pratica e dotata di valore oggettivo, da contrapporre alla soggettività delle discipline umanistiche, ma si caratterizza anche per una dimensione storica e culturale che va oltremodo valorizzata.
Ma, paradossalmente, questo limite gentiliano sembra riproporsi proprio nei più recenti progetti di riforma, dove la centralità della cultura scientifica viene intesa in senso tecnico-laboratoriale e marginalizza di fatto il sapere umanistico, inteso solo come supporto alle prima. Ma è falso affermare che la stessa struttura per discipline implichi una loro gerarchizzazione; come se lo studio curricolare impedisse di cogliere l’interconnessione tra i saperi (6).
Sulla persistenza di un fattore escludente verso i più deboli ancora nel periodo repubblicano, è convincente a nostro avviso l’interpretazione fornita dal recente studio di G. Aragno e A. Angelucci (7), i quali rimandano a una più generale resistenza all’attuazione effettiva di alcuni innovativi diritti sociali inseriti nel testo costituzionale. Nello stesso tempo, non si può negare – come spesso avviene in ricostruzioni storiche di comodo – che quella scuola produsse reale emancipazione, e tantissime soggetti provenienti da famiglie di modesta preparazione intellettuale riuscirono ad accedere agli studi superiori e universitari, magari per intraprendere poi una carriera proprio nell’insegnamento (8).
Nonostante gli attacchi siano stati per lo più indiretti – il Duce si era infatti compromesso dichiarando che la riforma Gentile era «la più fascista delle riforme» – la volontà di Bottai di colpire alla radice la scuola gentiliana era netta. Non possiamo in questa sede ripercorrere quella polemica (9), ma bastino alcuni cenni per inquadrare il senso del riferimento proposto da Maragliano.
L’attacco al progetto gentiliano fu innanzitutto rivolto alla rilevanza attribuita al sapere teorico rispetto all’agire pratico, in linea con le esigenze economiche del regime negli anni Trenta; ciò comporta l’opportunità di pensare percorsi esplicitamente finalizzati per le classi sociali non destinate a un ruolo direttivo.
Perché la scuola è fuori dalla vita? L’unica risposta, che può essere data è questa: la vita è il lavoro. Il lavoro, nella sua accezione più convincente, e più diffusa, è lavoro delle mani. La scuola non conosce, anzi misconosce questo lavoro delle mani. In un momento, in cui si sta creando una vera mistica del lavoro, la scuola è assente. […] Il lavoro deve entrare nella Scuola con la sua dignità e i suoi metodi. È necessario che, fin dalle classi elementari, si operi il passaggio dall’attività manuale del gioco all’attività manuale del lavoro. Coloro che formeranno la classe dirigente debbono conoscere non intellettualisticamente, ma con i propri muscoli le difficoltà, le gioie, le fatiche dei lavoratori.
(da La Carta della Scuola)
Non è esercizio retorico quello di individuare in questi passi lo stesso spirito che ha condotto all’introduzione, con la Legge 107, dell’alternanza scuola-lavoro, definita dallo storico Piero Bevilacqua «la più grave scelta di degradazione culturale mai compiuta a danno della nostra principale istituzione formativa» (10). La cui introduzione ha di fatto permesso l’ingresso, quali attori formativi ed educativi esterni, di soggetti privati esterni alla scuola, portatori di un interesse e di una visione ideologico-economicistica che la scuola non dovrebbe certo rifiutare a priori, ma verso la quale dovrebbe anche consentire l’assunzione di un punto di vista critico. E produce la subordinazione dell’intera vita scolastica a una logica economicistica la quale diventa l’unico riferimento che la scuola deve fare proprio per definire i propri obiettivi, nonché le proprie pratiche e i propri contenuti.
Tutto quello che sarà tolto all’enciclopedismo nazionale, che ora affatica e sfibra le menti, sarà dato al lavoro; e il tempo, vanamente perduto finora nell’acquisizione di dati eruditi, verrà impegnato, con profitto d’una formazione integrale nella conquista di attitudini pratiche
(Ibid.)
Soprattutto nell’ultima frase, mi sembra configurata perfettamente la didattica per competenze che si cerca da decenni di imporre alle scuole italiane, e ripresentata nei recentissimi progetti sull’istruzione. Da una parte sembra infatti riproporsi l’idea dell’inutilità di una cultura, in particolare umanistica, se autoreferenziale, ovvero se non ha per oggetto lo studio degli effetti sociali dell’innovazione tecnologica; dall’altra l’idea che l’istruzione debba avere esclusivamente un obiettivo pratico operativo.
Nel passo riportato all’inizio Maragliano associa la positività (e democraticità) dell’azione politica di Bottai all’avere egli intuito la necessità di dare origine alla scuola media unica. Ma è troppo facile giudicare quel progetto come progressista senza tenere conto della finalità che Bottai aveva in mente, ovvero istituire un percorso didattico che offriva quel bagaglio intellettuale comune minimo per potersi inserire nel processo produttivo, ma con l’intenzione poi di escludere a priori buona parte degli alunni rispetto alla possibilità di far parte della futura classe dirigente. Si trattava infatti di un progetto politico destinato a indirizzare la scuola verso la formazione di una manodopera in linea con le richieste del mondo produttivo ma scarsamente scolarizzata, e quindi facilmente manipolabile.
Se valutata in vista di questo fine, non si può paragonare il progetto di “scuola media unica” che aveva in mente Bottai con la grande riforma effettuata decenni dopo dal centro-sinistra in epoca repubblicana. A meno che non si intenda come finalità democratica, tale perché nei fatti favorisce una prospettiva di eguaglianza, l’offrire a tutti pari opportunità nel poter accedere al mondo del lavoro. Senza preoccuparsi però di formare allo stesso tempo una personalità critica, che potrebbe contestare quella stessa modalità di organizzazione del lavoro in cui è invitato ad integrarsi. Che è l’altro obiettivo di cui, a nostro parere, la scuola dovrebbe farsi carico e che invece non sembra essere presente a chi intende piegarla esclusivamente a una logica economica, peraltro fondata su un unico paradigma.
Non sorprende allora questo giudizio parzialmente positivo nei confronti di Bottai, da parte di chi sostiene le ragioni del processo riformatore. Ma il sapere, che in questo modo si configura come “utile”, presenta pesanti limiti formativi, in quanto «il riconoscimento della loro verità o validità deriva dall’accertamento del successo effettivo o presunto nella soluzione dei problemi […]. Essi sono veri perché funzionano. Non che funzionano perché sono veri». Ma da tale tipo di sapere rimangono fuori le «domande di senso che per definizione non possono trovare risposta entro il dominio di una cultura, intesa esclusivamente o prevalentemente come sapere utile […]». Il rischio, quindi, è quello che «l’intero campo dei saperi e della cultura possa essere ridotto al canone del sapere utile, inteso come capitale di tecnologie», escludendo quell’«ampio spazio dei saperi che mirano a rispondere veridicamente e validamente a domande che chiamano in causa i fini». Si tratta di un «sapere che mira a interpretare e a comprendere, a ricostruire e a definire la variabile natura dei fini» e che proprio perciò «genera vocabolari di identità» (11).
La scuola di Bottai, per evidenti motivi, esclude questo secondo tipo di saperi, assolutamente necessari quanto i primi. E, a nostro sapere, li esclude e li mortifica anche la scuola della riforma.
Ci limitano a un passo del rapporto finale della task force che, nella primavera scorsa, è stata incaricata di ripensare la scuola italiana: «Le competenze emergenti nel nuovo secolo sono quindi innanzitutto una forte predisposizione alla comprensione dei sempre più complessi contesti in cui viviamo e all’apprendimento delle sempre più rapide trasformazioni degli strumenti tecnologici offerti, una disposizione alla creatività delle soluzioni dei problemi presentati ed ad una disposizione al lavoro di gruppo, in altre parole l’enfasi è su quelle “collaborative problem-solving skills”» (12).
Note:
1 R. Maragliano, A.Brusa, G.Villani, Scuola, educazione, e saperi “visti” a distanza. Una conversazione (https://drive.google.com/file/d/14LqvgzwsmKGSDqRyx9c_XrN43nlzEPJI/view ).
2 Cfr. http://www.lasisem.it/cms/cms_files/20180510120621_s@ew.pdf, a proposito di alcune proposte “innovative” di didattica della storia avanzate in un convegno del 2015 «ancora scarsa convergenza, ma [un] dibattito ancora in corso».
3 In particolare si ritorna ossessivamente su un’infelice affermazione di E.Galli della Loggia a proposito della necessità di restaurare la predella della cattedra dei docenti, senza alcun altro riferimento al discorso più complessivo dello storico sulla scuola italiana.
4 Si fa riferimento all’espressione gramsciana «organatura delle conoscenze».
5 Cfr. A.Tarquini, Il Gentile dei fascisti, Il Mulino, Bologna 2009, pp.62 sgg.
6 Utile in proposito D.Generali, Il dominio di una tradizione. Separazione dei saperi nei programmi e nella prassi didattica italiana, in Rivista di Storia della Filosofia, 2017, n°4, pp.697-708.
7 A. Angelucci, G.Aragno, Le mani sulla scuola, Castelvecchi, Roma 2020.
8 Cfr. A. Scotto di Luzio, La Scuola degli italiani, Il Mulino, Bologna 2007.
9 Mi permetto di rimandare a G. Carosotti, L’insegnamento della storia in Italia dall’Unità alla scuola di massa, in F. Bacciola, G. Carosotti, V. Sgambati, Per la Didattica della Storia, Guida, Napoli 2011, pp.169-204.
10 P. Bevilacqua, La carenza di fondi non è l’unico handicap della scuola, in Il Manifesto, 28 dicembre 2019.
11 S. Veca, prolusione tenuta presso l’Istituto Lombardo, Fondazione i Lincei per la Scuola, 17 dicembre 2020.
12 Rapporto finale, p. 15. Più avanti, p.52, così vengono sintetizzati riferimenti metodologici didattici della nuova scuola: «Learning by doing; Project based learning e Authentic Learning; Cooperative learning; Problem solving; Game based learning; Design Thinking / Design based learning; Inquiry based learning; Challenge based learning; Peer education.»