Dalla malinconia barocca alla malinconica solitudine attuale
Robert Burton e i suoi studi sull’anatomia di uno stato d’animo che oggi più che mai ci riguarda
Quattrocento anni fa, precisamente nel 1621, Robert Burton, il pastore anglicano custode a Oxford della stupenda e più fornita biblioteca del tempo, dava alle stampe The Anatomy of Melancholy.
In Italia fino ad oggi è stata disponibile solo la traduzione della lunga e corposa premessa dell’opera, con una splendida introduzione di Starobinski dal titolo L’utopia di Robert Burton.
Ora, finalmente, disponiamo della magnifica traduzione integrale, con testo originale a fronte, commento e note accuratissimi, ad opera di Luca Manini e Amneris Roselli: L’anatomia della malinconia (edito da Bompiani), che consente anche al lettore italiano di penetrare nell’universo infinito di Burton.
Al di là della mania classificatoria del Seicento, della smisurata erudizione, Burton aveva capito tutto o quasi tutto. Il pastore anglicano di Oxford, il bibliotecario che trascorse oltre un ventennio nel tempio-deposito della cultura mondiale del tempo, si immerse nelle voragini di un mondo profondo, si avventurò in un labirinto forse senza vie di uscita. Il suo intento non fu quello di liberarsi della malinconia, piuttosto di coltivarla, di ripercorrerne tutti i sentieri, di osservarla con occhio solo apparentemente disincantato in tutte le sue sfaccettature, di compierne un meticoloso esame autoptico.
L’opera monumentale di Robert Burton si rivela oggi di una straordinaria e sorprendente attualità. Agli occhi dell’autore la malinconia si presenta con un duplice volto. Come “segno della mortalità”, condizione della fragilità umana, intermittente, o come malattia cronica, abitudine, umore stabile: questo secondo è l’oggetto dell’opera. Ed è un tema, questo, di una modernità sorprendente soprattutto oggi, nel tempo storico del Coronavirus.
La modernità di Burton è innanzitutto nella sua visione olistica, unitaria della malinconia. Essa è un sentimento-sistema, per così dire: unità di corpo e mente, fondata sull’interdipendenza fra le parti del primo e quelle della seconda e sul trait d’union delle emozioni che le riunisce tutte.
Non è vero, come è stato ritenuto da alcuni studiosi, che Burton non definisca in alcun luogo la malinconia, che sfugga alla sua sostanza intima, che essa si configuri quasi come un enigma agli occhi del lettore. Forse questo è vero se si legge solo l’introduzione. Ma la Sottosezione I del Membro III è intitolata proprio “definizione della malinconia, nome, specie”: “noi chiamiamo quella fissazione, in modo specifico, quando qualcuna delle facoltà primarie della mente, come la fantasia o la ragione, è corrotta, ed è ciò che avviene in tutte le persone malinconiche (…). La maggior parte delle persone malinconiche ha come compagni inseparabili la paura e il dolore, ma non tutti perché per alcuni essa è particolarmente piacevole, poiché ridono quasi tutto il tempo; e alcuni si sentono temerari, liberi da ogni sorta di paura e dolore” (i corsivi sono nel testo).
In questo luogo appaiono già chiare alcune linee che saranno ricorrenti nel trattato: la malinconia come fissazione, corruzione della mente, e il suo volto ambiguo, paradossale e contraddittorio, oscillante fra pianto/paura/dolore/dipendenza e riso/temerarietà/libertà. E ancora: la malinconia come similitudo dissimilis, generalizzazione e specificità, universalità e individualizzazione.
Non a caso questa visione è stata avvicinata – quasi che Burton potesse essere una sorta di precursore ovviamente non intenzionale – al modello cognitivista e alla visione della depressione come rete, dell’immaginazione come regina dei poteri mentali, espressione dei labili confini tra senso e ragione. Come nel modello cognitivista, la mente elabora informazioni, dai contenuti alle procedure, il soggetto ricrea in maniera personale fattori sociali e culturali, rivive e trasforma un’esperienza.
Il nostro tempo sospeso è un tempo malinconico per eccellenza. Proprio nel senso evidenziato da Burton quattrocento anni fa. Le reazioni collettive al Covid-19 oscillano fra paura, angoscia ed euforico cupio dissolvi, quasi spinta alla dissoluzione di tutti i freni inibitori, infrazione di tutti i divieti per godere dell’attimo fuggente. È uno squilibrio permanente che nella maggioranza della popolazione induce l’umore malinconico destabilizzante, in una minoranza produce depressione e qualche individuo particolarmente fragile e predisposto può essere spinto, come pure è successo e sta succedendo, fino al suicidio.
Leggere o rileggere Burton può dunque essere assai istruttivo nella nostra condizione psicologica attuale.