Ruah – il respiro di Dio, o la liturgia laica della Shoah
Un viaggio per tappe per dire l’indicibile. Un passato che conduce agli scenari inquietanti e familiari dei giorni nostri
La plasticità del corpo umano per evocarne la mortificazione. Il ricordo dell’orrore per risvegliare la memoria condivisa del nostro tempo.
Ruah – il respiro di Dio colpisce lo spettatore in maniera diretta, impedendogli di dimenticare uno dei capitoli più bui della nostra storia.
Nel ventennale dall’istituzione del Giorno della Memoria, a settantacinque anni dalla liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, lo spettacolo ideato da Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco trasforma le sale ed i cortili dello Steri in spazi performativi collegati tra loro dal filo rosso del ricordo. Ispirata dal lavoro di ricerca del direttore del DAMS Salvatore Tedesco, questa azione per formativa attraversa il tempo e lo spazio della narrazione scenica grazie alla collaborazione tra gli attori della Scuola dei mestieri dello spettacolo del Biondo e gli studenti provenienti dell’Università.
Strutturato come un viaggio dal passato al presente, l’evento si sviluppa come una catena di eventi interconnessi, una sequenza di “stazioni” che rendono la performance simile a una liturgia laica, perpetuo ricordo delle conseguenze della follia umana.
La potenza di un racconto privo di filtri giunge allo spettatore fin dall’inizio della narrazione scenica quando, nel cortile antistante l’ex tribunale, viene accolto dalla nuda verità della miserevole condizione descritta da Primo Levi. Qui, quelle parole divengono immagini silenziose, cariche di innegabile verità, schiaffeggiando la morale comune in un gesto simbolico di accusa quanto di testimonianza.
La terra scura, un corpo nudo, la folla circostante in costume d’epoca ed il silenzio che scende come una cappa grigia gravando come un macigno sull’anima di chi osserva. Si tratta forse del momento più intenso dell’intera messa in scena. Quello nel quale pietà, senso di colpa e consapevolezza di mescolano seminando il terreno per i successivi quadri.
Condotto da due custodi silenziosi, il pubblico si addentra nei corridoi interni della struttura fino ad arrivare ad uno stretto ed angusto spazio tra due edifici. Questa strada è sbarrata da una sottile linea di filo spinato dietro cui si materializza il dolore di un intero popolo. Vacilla la mente perdendosi nel contemplativo silenzio dell’impossibile quando viene messa a confronto con la verità. Si tratta di una costrizione semplice quanto efficace: due becchini spazzano il terreno ammassando ceneri su un telo. Neanche qui servono parole per comprendere: l’assenza del corpo al centro della scena parla da sola e le strutture di mattoni del soffocante vicolo in cui si trova il fruitore, ammassato nella calca di esseri umani, portano la coscienza esattamente dove vuole l’autore. In questa ricostruzione dei campi di sterminio, ottenuta attraverso la presenza di una memoria ormai universalmente condivisa, si passa dalla corporeità del momento precedente al proprio opposto in modo da sbilanciare l’osservatore, abbattendo le barriere erette dalla mente per proteggersi dalla cruda realtà della storia.
La terza stazione è forse la più surreale dell’intero impianto scenico. Condotto nelle carceri dell’Inquisizione, il pubblico si ritrova innanzi a una lunga fila di donne che marchiano con l’inchiostro il proprio corpo. Indubbiamente esiste un legame tra i luoghi scelti all’interno dell’edificio e la materia trattata nella performance ed è qui, con la materializzazione della sofferenza femminile, che questa connessione vibra con la forza di un grido straziato. Sottofondo della scena sono le parole della poesia “Feld-Hure”, ossia “prostituta di campo”, scritta da Alessandra La Rosa, studentessa del DAMS di Palermo.
La degradazione della dignità viene raccontata attraverso gesti ripetuti, parole scandite nel silenzio e fotografie sparse sul terreno. Queste ultime, ammassate ai piedi delle alcove, fanno parte di una installazione inserita in maniera omogenea all’interno della performance.
Creando veri e propri altari del ricordo, i ragazzi consegnano agli astanti un attimo di sospensione dal momento teatrale, volto ad una silenziosa riflessione interiore molto simile ad una preghiera.
Il successivo punto di sosta è all’interno del chiostro dell’edificio principale dove, distesa su un telo bianco al centro del cortile, Serena Ganci recita “La fuga di morte”, di Paul Celan. Circondata da silenziosi attori, che nel corso della sequenza divengono muti cadaveri gettati in una fossa comune, l’attrice grida il proprio dolore come fosse consumata dalle fiamme di un formo crematorio.
“Com’è stato possibile tutto questo?” Una domanda mai posta direttamente, la cui terribile risposta aleggia lungo l’intero colonnato, portando gli spettatori a rabbrividire come sfiorati dal gelido di una colpa e di una responsabilità ereditata di generazione in generazione.
La desolazione dell’esistenza e il disprezzo per la dignità umana è lo schiaffo in pieno volto con cui si apre il quinto momento, forse il più drammatico, della costruzione performativa. Nella Sala dei baroni la verità libera la consapevolezza del dolore e dinnanzi alla realtà trasmessa attraverso la memoria, la coscienza implode sotto il peso della malvagità umana.
Costruita su una drammaturgia ideata dai ragazzi, accompagnata da un testo di Mariella Meher, la visione dei corpi nudi sui quali gravano le violenze e gli abusi subiti dalle donne all’interno dei campi di sterminio è sufficiente ad evocare nella mente del fruitore quel dolore senza nome, quell’incapacità di comprendere la verità, che porta a distogliere lo sguardo quando la realtà supera la facoltà logica di elaborare l’essenza stessa del male.
È questo sentimento di rifiuto per l’illogica violenza, questa incapacità di analizzare le ragioni della follia a condurre al piano superiore, nella Sala delle capriate, dove la tensione drammatica si allenta leggermente, passando da una narrazione puramente emotiva ad una sorta di comprensione intellettiva. Ricostruendo un momento legato al processo di Norimberga, partendo da una foto d’epoca che ritraeva le segretarie del tribunale oppresse dalla quantità dei morti, viene portato in scena un turbine di follia. Generato dall’incapacità dell’essere umano di contemplare pienamente il dramma della Shoah, il vortice di movimenti isterici assale lo spettatore sovraccaricando la percezione, suscitando sgomento e confusione. Fogli su fogli volano in aria ricadendo sul pavimento: sono i nomi dei morti nei campi di sterminio: un numero inconcepibile per delle menti razionali, il cui peso è impossibile da sopportare.
Con questa verità, accompagnata dalla simbolica costruzione di un muro nero tra la scena e colui che osserva, il pubblico viene ricondotto al piano di sotto, nuovamente nella Sala dei baroni, questa volta costellata da copri senza vita, galleggianti in un mare a noi fin troppo familiare. È un ritorno al presente di una memoria composita. Un mosaico del dolore che parte dai campi di concentramento, passa dai gulag, attraversa i campi di stupro dei conflitti indocinesi, ritornando prepotentemente fino a noi dalle coste della Libia.
Un’altra immane tragedia è in corso, a volte sotto il nostro sguardo indifferente. Non è forse a questo che serve la memoria? A non dimenticare per non replicare gli errori del passato? Una riflessione sulla responsabilità individuale che accompagna il pubblico quando raggiunge la fine del viaggio, uscendo attraverso la scala esterna realizzata da Carlo Scarpa per tornare al punto di partenza, lì dove tutto è iniziato. Simboleggiando la ciclicità del tempo e la necessità di ricordare per trovare la forza di spezzare il cerchio della violenza così come quello dell’indifferenza.
“Ruah – Il respiro di Dio”
Ideato e diretto da: Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco
Aiutoregista: Dario Muratore
Assistenti alla regia: Alessandra La Rosa, Emanuela Amato, Emanuela Lo Cascio, Rosanna Petta, Rosanna Giudice, Marta La Ferla, Chiara Majorana, Corinne Padalino, Giuseppe Musacchia.
In scena: Giulia Bellanca, Costantino Buttitta, Martina Caracappa , Chiara Chiurazzi, Martina Consolo, Danilo De Luca, Adriano Di Carlo, Valentina Gheza, Paola Gullo, Cristian Greco, Federica Greco, Giuseppe Lino, Beatrice Raccanello, Francesco G. A. Raffaele, Valter Sarzi Sartori, Calogero Scalici, Maria Sgro, Gianluca Spaziani, Nancy Trabona.
Con le musiche di: Giovanni Verga e Wolfgang Heiniger
Con la partecipazione di Serena Ganci e Giovanni Verga
Progetto fotografico: Alessia Galati.
Tratto dal lavoro di ricerca del professore Salvatore Tedesco
Comunicazione&social media: Andrea Bassini e Alessia Galati