SAN GIOVANNI BATTISTA
La grande festa ‘civile’ della Napoli del Seicento
Il culto, più civile che religioso, di san Giovanni visse una particolare fortuna a Napoli nella prima metà del Seicento, con spettacolari apparati di festa che celebravano il rapporto – non sempre facile – del popolo col viceré.
Già tra IV e V Secolo era stata dedicata al Battista una monumentale basilica – a pochi passi dall’attuale via Mezzocannone – considerata una delle “chiese maggiori” della città, insieme a S. Giorgio, SS. Apostoli e Pietrasanta; e a metà del Cinquecento gli fu anche attribuito un miracoloso sangue, che si liquefaceva come quello di san Gennaro (del prodigio fu testimone nel 1558 Pietro De Stefano nel monastero di Sant’Arcangelo a Bajano, a Forcella, e la reliquia finì poi a San Gregorio Armeno).
Il culto più popolare del Battista era però legato a un’altra chiesa nei pressi del porto, costruita dai benedettini a metà dell’XI secolo, alla quale era annesso anche un ospedale Gerosolimitano. Non lontana dall’Arco di Sant’Eligio, nei pressi di Piazza Mercato, la chiesa è conosciuta fin dal medioevo come San Giovanni a mare ed è stata per secoli teatro di un singolare rito popolare di purificazione, ancora praticato a metà del Cinquecento secondo Benedetto Di Falco: «Era una antica usanza hoggi non al tutto lasciata, che la vigilia di S. Giovanni, verso la sera e ’l scuro del dì, tutti huomini e donne andare al mare e nudi lavarsi, persuasi purgarsi de’ loro peccati, alla foggia degli antichi, che peccando andavano al Tevere a lavarsi, e come Giovambattista per lavation del battesimo ne ammaestra».
Della festa di san Giovanni parla anche il popolare – quanto oscuro – poeta Velardiniello, nel suo rimpianto dei bei tempi della Napoli Aragonese: «Le femmene la sera de San Gianne / Jevane tutte ’n chietta a la marina, / Allere se nne jeano senza panne, / Cantanno sempe maie la romanzina». Queste ottave cinquecentesche alimentarono una querelle letteraria tra Benedetto Croce e Ferdinando Russo, che le riteneva invece della fine del Seicento, secolo in cui la festa aveva vissuto il periodo più fulgido, prima di finire in decadenza.
Anche se l’idea di bagnarsi a mare credendo di «mondarsi dell’infermità del corpo e dell’anima» era stata abbandonata ritenendola un uso «abominabile e superstitioso», Carlo Celano ricorda che la festa di san Giovanni Battista aveva infatti conosciuto una grandissima popolarità fin dai primi del secolo: «Nella vigilia del santo i nostri passati re vi si portavano a cavallo con molto accompagnamento de cittadini, e tutti gl’artefici e mercadanti facevano mostra delle loro merci ponendoli fuori de’ loro fondachi e boteghe, et in questo giorno la città si poneva in gran festa et allegrezza. Quest’uso si è mantenuto fino a’ nostri tempi e si è chiamata la festa di S. Giovanni, benché sia stata fatta con altri modi e con altre magnificenze: ne havea pensiero solo l’eletto del popolo, il quale accompagnava il signor viceré».
Nella prima metà del Seicento, a Napoli, la festa del Battista era un evento spettacolare, con l’allestimento di grandi ‘macchine’: archi, porte, teatri, architetture in legno e cartapesta, ricoperte di ogni ben di dio – frutta, formaggi, carni – o di fuochi artificiali.
Non si trattava di una celebrazione religiosa, a cui partecipavano le autorità ecclesiastiche, ma di una solenne festa civile. Era organizzata e presieduta dall’Eletto popolare, ovvero l’assessore-rappresentante del popolo che affiancava, nel governo cittadino, gli altri cinque eletti dei Sedili nobili di Napoli.
L’unico, isolato, contributo sullo studio della festa è quello dell’antropologo Valerio Petrarca, del 1986. L’Apparato della festa attraversava i quartieri popolari intorno al Porto, seguendo l’itinerario di vie e di piazzette percorse in solenne processione dal viceré, per il quale veniva inscenato una sorta di trionfo – con simboli di potere come rami di vite, aquile, scettri – sul modello classico dei trionfi degli imperatori romani.
Giulio Cesare Capaccio descrisse l’apparato delle feste del 1613-14, dedicate al viceré Pietro di Castro e alla moglie Caterina Sandoval dall’eletto popolare Aniello di Martino.
Più turbolente furono invece le vicende degli anni successivi, con gli intrighi del duca di Osuna, il viceré Pedro Tellez-Girón y Guzmán, che tra il 1619-20 nominò (illegittimamente) proeletto e poi eletto popolare Giulio Genoino, promotore di una rivoluzionaria riforma per aumentare il peso del popolo (ovvero della borghesia) nel governo cittadino. A giugno del 1620 si finì a un passo dalla sollevazione, con l’Osuna richiamato a Madrid e Genoino in fuga, accusato di tradimento. In quell’occasione, annotò Francesco Zazzera, il nuovo viceré, il cardinale Gaspar de Borja y Velasco, si preoccupò subito di proibire l’esibizione di «composizione alcuna in biasimo del Duca o del passato governo, come già se n’erano preparate molte» per le celebrazioni di san Giovanni Battista, durante la quale Scipione Guerra ricordava che «per la città si fero sontuosissimi apparati in tutti li luoghi soliti, li mercadanti a gara cacciavano li più superbi drappi, che fussero stati fatti, così alli Lanzieri, come alla piazza dell’Olmo, ma quel che fu veramente degno di esser visto fu l’apparato fatto dall’orefici, che cacciarono tante gioie composte in diverse forme d’animali».
Il massimo splendore della festa si toccò negli anni successivi, sotto il viceregno di don Antonio Alvarez di Toledo, tra il 1623 e il ’27. La festa del 1628 e quella del 1631 – con i ritratti del nuovo viceré Zunica e consorte – furono descritte dal Segretario del Popolo Giovan Bernardino Giuliano; e per il 1631 abbiamo anche il resoconto del teologo Pedro Martinez de Herrera, priore del convento del Carmen Calzado di Madrid, dedicato alla viceregina Leonor Maria de Guzman, contessa di Monte Rey.
La più grandiosa resta tuttavia la «pomposissima» festa di san Giovanni del 1629, organizzata dall’eletto del Popolo Francesco Antonio Scacciavento, per celebrare «come in un trionfo» il settimo (e ultimo) anno di governo di Antonio Alvarez di Toledo, raccontata da Francesco Origlia in un superbo libro ricco di incisioni intitolato Lo Zodiaco, raccolta di imprese ed eroiche virtù del viceré.
Si partiva dalla Fontana di Porto – nei pressi dell’attuale piazza Bovio, ai Quattro Palazzi – si attraversavano i quartieri dei Lanzieri, di San Pietro Martire, il borgo degli Orefici, il Pendino, la piazza della Sellaria, la piazza di Maio, per poi tornare nella Piazza del Caputo, presso la chiesa di San Giovanni. Nella piazza di Maio – dove tradizionalmente il 1° maggio si innalzava il “palo” con i doni – c’erano di solito torri e piramidi di fuochi artificiali (nel 1627 un’altissima colonna pirotecnica). Diverse architetture dell’Apparato erano composte da beni commestibili, divorati dalla «plebe minuta», che era «più ventre che capo». Alla processione non intervenivano mai le autorità ecclesiastiche; e, al di là dell’effigie del santo, mancavano altri ‘segni’ religiosi.
Non sappiamo con precisione fino a quando furono realizzati i grandi Apparati, perché a metà del Seicento Napoli fu variamente sconvolta da una serie di eventi: la grande eruzione vesuviana del 1631, poi la rivoluzione di Masaniello (1647) – che incrinò non poco il rapporto tra popolo e governo spagnolo – e infine la terribile peste del 1656.
Anche nella seconda metà del secolo si continuò certamente a festeggiare San Giovanni con luminarie e fuochi artificiali, sparati per lo più a mare, dalle galere; ma nel 1692 il canonico Celano scriveva chiaramente della festa: «da quasi venti anni sta dismessa».
L’unico, isolato, contributo sulla storia della festa di san Giovanni nella Napoli del Seicento resta il saggio breve dell’antropologo Valerio Petrarca, pubblicato a Parigi nel 1982 e tradotto qualche anno dopo anche in Italia.