Lucia: la forza, la dolcezza, lo strazio
La storia di una donna, prima che santa, nell’opera di Caravaggio
Non c’è spazio per alcuna solennità del martirio. Quello che inscena Caravaggio è semplicemente la celebrazione di un funerale, esacerbata dall’esibizione di un corpo straziato. Questo è “Il seppellimento di Santa Lucia“, opera del 1608 di Caravaggio custodita nella chiesa di Santa Lucia alla Badia, nella sua Siracusa.
L’artista della luce vi era appena arrivato, braccato dai cavalieri di Malta e con una taglia che pendeva sulla sua testa – è veramente il caso di scriverlo – da parte dello Stato Pontificio.
E proprio quella luce, che di Caravaggio è il tratto distintivo, assume in quest’opera un carattere di denuncia. Espressionista, potremmo dire. Si posa, quella luce così calda ma non per questo meno impietosa, su quel corpo che non intende celare il sangue né la sofferenza; da cui la ferocia degli aguzzini ha infierito tanto da staccarne la testa dal corpo. Un elemento, quello della decapitazione, su cui Caravaggio insiste in maniera spesso ossessiva, probabilmente a causa delle proprie vicende biografiche.
È ancora la luce che rende enormi i becchini (già intenti, nella loro grettezza, a scavare la fossa), e piccoli i corpi di chi partecipa con dolore al funerale, in uno spazio quasi claustrofobico, ancora grazie all’uso sapientissimo dei riflessi.
Emerge in Caravaggio tutta la storia di questa donna la cui forza, tradotta in determinazione e dolcezza, ha permesso a Lucia di essere declinata a seconda del Paese che la celebrava.
In Svezia è la regina della luce, con la corona di candele che si dice usasse per avere luce e utilizzare le mani per portare il cibo ai cristiani, rifugiati nelle catacombe, o ai poveri, nei gelidi inverni nordici.
A Palermo si racconta di una carestia, e delle molte preghiere rivolte alla santa. E di una colomba che entrò in cattedrale nel 1646. Era la fine della fame, una nave carica di cereali stava per approdare. E la gente, estenuata, li mangiò appena bolliti. Era nata la cuccìa, e con essa il divieto di mangiare pane e pasta per quel giorno. La creatività dei palermitani avrebbe fatto il resto, trasformando un piatto di cereali bolliti in un tripudio di ricotta e cioccolato.
Ma questa è un’altra storia.
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