Sempre colpa dello storicismo
Conviene chiarire preliminarmente come, a dispetto del titolo (Massimo Mugnai, Come non insegnare filosofia, Cortina Editore, Milano 2023), la scuola reale nello studio che andiamo a recensire è assente, e in misura ancor maggiore lo sono i docenti; l’istituzione formativa appare più un terreno di conquista, attraverso il quale imporre un’egemonia teoretica che si gioca tutta all’interno dell’istituzione niversitaria. Lo studio di Mugnai è in parte la prosecuzione de Il mestiere di pensare (Einaudi, Torino 2014) di Diego Marconi, un pamphlet, più volte citato dall’Autore, volto a sostenere l’estraneità della storia della filosofia dall’autentica ricerca filosofica, a favore di un approccio coincidente con la filosofia analitica. L’idea di Mugnai, come di Marconi, è quella per cui un’analisi storica dei problemi si limita a proporre una sequenza, una contestualizzazione («immagine di un succedersi sostanzialmente dossografico delle varie fasi del pensiero occidentale»), non in grado di offrire un approfondimento teorico.
Il punto di riferimento polemico è la convinzione di Eugenio Garin per il quale «l’unico modo sensato di filosofare sia, appunto, dedicarsi alla storia della disciplina», in quanto qualsiasi posizione teoretica individuale è sempre inserita in una trama di relazioni senza la quale non potrebbe neanche emergere nella sua valenza specifica. Si tratta per Mugnai di un fraintendimento: «non sempre una spiegazione genetica è una spiegazione “strutturale”», laddove l’Autore distingue tra «struttura teorica» di una proposta speculativa e «la sua genesi storica». Il filosofo, nel momento in cui elabora la propria teoria, si concentrerebbe sull’aspetto strutturale, che andrebbe perciò compreso, nel momento in cui se ne giudica il pensiero, nella sua autonomia. La questione che Mugnai pone ci sembra, più che risolta, in parte aggirata, in quanto dà per scontati alcuni presupposti che mantengono invece tutta la loro problematicità. Basterebbe citare questa illuminante riflessione di Giuseppe Galasso, che peraltro aderiva totalmente al paradigma di Garin, il quale individuava nella “struttura” un progetto utopistico che intende mettere tra parentesi la fondazione storica della realtà e della struttura stessa: «Sfugge che, in tal modo, la struttura si riduce ad essere nient’altro che ciò che resta della storia, una volta che se ne sia tolta, appunto, la storia; e che il movimento “strutturale” è in realtà un falso movimento». Un’altra conseguenza del ragionamento di Mugnai riguarda il modo di intendere la teoria scientifica: «Fuor di metafora:
comprendere una teoria (filosofica, biologica, fisica, ecc.) è cosa diversa da capire com’è nata e come si è evoluta, fino ad avere una particolare forma». Una convinzione epistemologica “oggettivista”, probabilmente maggioritaria, ma non certo priva di significative opposizioni teoretiche. Basterebbe fare riferimento alle riflessioni di Fabio Minazzi, che implicano peraltro anche un modo innovativo di intendere la didattica della scienza. D’altronde, in tutto il libro, ogni volta che si fa riferimento alla dimensione della storicità, questa viene ridotta a semplice contestualizzazione. Colpevole quasi del diffondersi di una sorta di relativismo («nel nostro paese si è diffusa la convinzione che, dal punto di vista cognitivo, tutte le opinioni in fondo si equivalgano»), laddove invece -come sosteneva sempre Galasso- questo è semmai il frutto dell’antistoricismo.
Non è nostra intenzione approfondire questi temi. Metterne in evidenza la problematicità ci sembra però importante per affrontare il tema della scuola. Di fronte infatti a un dibattito scientifico in corso, tutt’altro che risolto, che coinvolge l’ambiente accademico, la scuola avrebbe il dovere di riportarlo nella sua dimensione problematica e pluralistica, senza obbligare i docenti ad aderire a una delle due parti. Non è questa però la posizione di Mugnai, che auspica una radicale riforma dell’insegnamento della filosofia nelle scuole italiane, tutto declinato su un approccio anti storicistico. Conviene ritornare al libro di Diego Marconi, e a una sua illuminante considerazione:
«Perché filosofi teorici e storici della filosofia non si lasciano reciprocamente in pace? C’è una risposta facile a questa domanda, che chiamerò “materialistica”: le contese su filosofia e storia della filosofia sono quasi sempre contese intorno a posti di lavoro, equilibri dipartimentali, spazi mediatici.» Ci sembra legittimo il sospetto di leggere anche il testo di Mugnai in questa prospettiva:
«Anche all’università, infatti, gli insegnamenti di filosofia sono prevalentemente di carattere storico.
Ci sono anche insegnamenti di tipo teorico […] ma […] sono anch’essi di argomento storico o vertono su autori che fanno ormai parte della storia della filosofia». Non appare illegittimo il sospetto che l’imporre alla scuola programmi in senso anti-storicistico si inserisca in questa dialettica polemica e serva, di rimando, ad auspicare una simile svolta anche a livello universitario.
Valutiamo allora le evidenze empiriche, con le quali l’Autore intende convincere sulla validità delle proprie argomentazioni. Ci aspetteremmo, in nome di quell’oggettivismo affermato con tanta protervia, riscontri talmente inoppugnabili da rendere molto difficili eventuali repliche. E invece ci si trova di fronte a affermazioni di principio, a riscontri soggettivi carichi di valutazioni pregiudiziali.
Buona parte del testo si concentra su alcuni manuali in uso in Italia, per proporre un confronto con quelli diffusi in altre nazioni europee. Già l’affermazione che i manuali attualmente in adozione siano identici a quelli i trenta anni fa non ha alcuna fondatezza filologica, a meno che non ci si limiti all’ovvietà che la scansione dei tre volumi è cronologica, dall’età antica a quella contemporanea. Al di là di ciò, i manuali si presentano con una veste completamente diversa1. Peraltro lo stesso Mugnai deve ammettere l’inserimento, quasi ossessivo, nelle attuali edizioni, di continui inserti tematici, di tentativi -in buona parte maldestri- di effettuare collegamenti con le tematiche più vicine al mondo giovanile; lo stesso Mugnai utilizza per indicare queste parti l’aggettivo “pop”.
Stupisce però come nel ragionamento di Mugnai il docente non sia previsto, quasi come se il rapporto con il testo non fosse poi mediato da questa figura, e non si inserisse in una rete relazionale che non si presenta mai identica. Ci sembra emerga tra le righe un notevole scetticismo sulle qualità intellettuali dei docenti e sul loro bagaglio professionale; quasi sempre ritratti -nei pochi riferimenti ad essi dedicati- come semplici ripetitori (ma sarebbe meglio utilizzare l’espressione ministeriale di operatori) di un sapere che loro ricevono integralmente da chi è più esperto di loro (gli autori dei manuali): «la domanda […] è se gli attuali professori di liceo sarebbero in grado di riconvertirsi, senza troppo sforzo, al nuovo sistema d’insegnamento e, soprattutto, se sarebbero disposti a farlo»2.
Citazione significativa. che mostra da una parte un giudizio non lusinghiero sui colleghi della scuola superiore; dall’altra non si interroga sulla questione della libertà d’insegnamento, dal momento che l’Autore vorrebbe imporre una pratica didattica che, come abbiamo visto, incontra molteplici riserve critiche3.
Stupisce peraltro l’approssimazione di altri elementi probanti: il testo si apre con una serie di citazioni tratti da prove per l’ammissione alla facoltà di filosofia presso la Scuola Normale di Pisa. Vi si riscontra una sostanziale superficialità, sia sul piano argomentativo sia lessicale, che più volte sentiamo denunciare in ambito universitario, e che indubbiamente rivelano deficienze strutturali importanti all’uscita delle scuole superiori. Un fenomeno noto, a nostro parere causato proprio dalla sciagurata politica di riforme che in questi trent’anni ha investito la scuola e la qualità della didattica.
Mugnai non fa riferimento a questa discussione: sembra che il problema riguardi solo la filosofia, e sia dovuto al carattere storicistico del suo insegnamento. Nel libro sono riportati troppo pochi esempi, nessun dato statistico, nessun confronto con prove di altre facoltà; sembra prevalga un atteggiamento performativo, utile a corroborare la propria posizione.
Un altro dato probante a sostegno delle tesi del libro, e che ci sembra ancora più paradossale, riguarda un giudizio sostanzialmente denigrativo della situazione filosofica nel nostro paese, riferito agli studenti, sia alla qualità degli studi accademici: «Heidegger, tanto per fare un esempio, è presente in tutte le salse tra i filosofi nostrani, eppure gli interpreti italiani del pensiero heideggeriano noti al di fuori del suolo patrio sono pochissimi». Un giudizio che ci sembra assai difficile condividere, a meno che non si facciano propri i riferimenti dell’ANVUR, presieduto per lungo tempo da Diego Marconi. Sono lontani i tempi in cui Giovanni Reale, nel 2012, tornato da un convegno sull’insegnamento della filosofia a Bonn, poteva con soddisfazione vedere riconosciuta la miglior preparazione degli studenti italiani4; ma basta rimanere più vicini nel tempo, alla denuncia della crisi della filosofia in Germania5 da parte di Wolfram Eilenberger, in un importante colloquio con Donatella di Cesare. Dove si fa riferimento a «un guinzaglio anglosassone sulla filosofia tedesca»;
mentre invece Mugnai parla addirittura di una volontà «di abdicare al dominio della filosofia anglosassone: si ripropone, in questo caso, l’ostilità nei confronti della “perfida Albione”, un’ostilità che si estende anche (e soprattutto) agli Stati Uniti.» Non compare peraltro alcun accenno all’Italian Thought, e alla capacità della nostra tradizione di pensiero -proprio perché radicata nella dimensione della storicità, della vita, della politica- di avere offerto i migliori strumenti di comprensione intellettuale rispetto all’orizzonte di crisi odierno, superiorità riconosciuta proprio nei Paesi anglofoni. Il che pone il problema del carattere palesemente impolitico del modo di concepire i programmi da parte di Mugnai, che evidenzia un preciso orientamento ideologico, lo stesso condiviso dalla scuola della riforma.
Mugnai riporta anche un’impressione personale -affermando con onestà il carattere evidentemente parziale di una simile affermazione-, in base alla quale gli studenti stranieri, «pur ignorando il nocciolo della disciplina, tuttavia mirassero “diritti al punto”, per così dire, sforzandosi di capire, senza indugio, quale fosse il centro del problema». Quando però fa riferimento a un’altra evidenza empirica, condivisa da buona parte dei docenti in merito all’ammirazione suscitata nelle università straniere dall’ampiezza di orizzonti culturali degli studenti italiani rispetto ai loro coetanei che non hanno studiato durante il liceo in modo sistematico la storia dell’arte, la filosofia, la storia della letteratura, l’Autore la respinge, in quanto non supportata da significativi riferimenti statistici. Un doppio pesismo metodologico quanto meno sospetto. Testimonianza per testimonianza, chi scrive ha raccolto -nelle sue esperienze di scambi internazionali- una decisa ammirazione verso i docenti italiani da parte di colleghi del Nord Europa, che lamentavano l’indisponibilità dei loro studenti ad uscire da tracciati didattici strutturati per schemi, e del loro rifiuto ad affrontare sul piano argomentativo -più genericamente culturale- diverse tematiche. Cui aggiungo il giudizio elogiativo sulla nostra scuola riportato da tutti gli studenti stranieri che hanno frequentato le mie classi, i quali hanno sempre convenuto come il tipo di comunicazione didattica (guarda caso storicistica) era capace di suscitare maggiore coinvolgimento.
Come immagina l’Autore l’insegnamento della filosofia nei Licei? Il primo anno di corso dovrebbe essere sostanzialmente dedicato alla logica, le successive annualità all’etica e alla filosofia della scienza (e la filosofia della politica, l’Estetica, la filosofia della storia? tutti ambiti, valorizzati guarda caso dall’italian thought, che in un percorso strutturato storicisticamente vengono sia affrontati, sia messi in produttiva relazione fra loro) . Un percorso di etica potrebbe comprendere «la teoria della giustizia di John Rawls, la concezione comunitarista di Michael J.Sandel, la prospettiva libertaria di Robert Nozick e la tesi su giustizia e uguaglianza di Amartya Sen». Valuti chi legge se un simile percorso, per cui «gli studenti dovrebbero provare a pensare “da filosofi”, sia pure in erba», in assenza di fatto di una conoscenza un minimo adeguata della storia della filosofia, costituisca una maggiore opportunità intellettuale; uscire dalla scuola senza avere incontrato con profondità il pensiero di Giordano Bruno6, il suo legame con la cultura rinascimentale, il ruolo che quella stessa cultura ha avuto per lo sviluppo della civiltà, e che può essere compreso solo in relazione al periodo antico e medievale, ci sembra una grave lacuna sul piano intellettuale. «Mi sembra evidente -scrive Mugnai – che la narrazione storica renda arduo il tentativo di attualizzazione»; e ancora: «Invece di cercare di “attualizzare” a qualunque costo il pensiero del passato, credo, di nuovo, che convenga tenere separata la narrazione meramente storica dalla riflessione sui contenuti delle varie discipline filosofiche, cioè la storia della filosofia dalla filosofia». Una tendenza, quella auspicata da Mugnai, già in corso; e in un caso già fatta valere per la letteratura, con la cancellazione della traccia, tra le prove d’esame, relativa alla storia della letteratura, a favore esclusivamente dell’analisi del testo; per non parlare della riduzione d’orario subita dal curricolo di storia. Ne emerge una sfiducia totale verso la storia, e una perfetta convergenza con i criteri del più volte denunciato presentismo. Il fatto che nel corso di una trattazione storica sia impossibile integrare l’approfondimento teoretico si rivela un pregiudizio; così come l’idea che la trattazione storica escluda la riflessione sul presente. Si veda a proposito il recente contributo di Aurelio Musi a smentire la legittimità teorica di questa prospettiva.
A questo punto risulta anche poco convincente il pur severo giudizio sul documento Orientamenti per l’apprendimento della filosofia nell’età della conoscenza, di cui l’Autore sembra invece condividere diversi assunti, come quello di poter acquisire competenze filosofiche in assenza di conoscenze specifiche della disciplina. Roberto Esposito aveva fatto notare come in quel testo si privilegiasse un unico tipo di filosofia, in qualche modo mortificando il pluralismo della disciplina e depotenziandone il valore critico e interpretativo. Un processo -come abbiamo commentato anche altrove- che circoscrivere la filosofia, e la scuola nel suo complesso, a un ambito caratterizzato dalla impoliticità, per impedire qualsiasi capacità di critica sistemica. Un’impostazione che, al contrario di quanto sostiene Mugnai, impedisce proprio lo sguardo critico verso la contemporaneità, impossibile in assenza di una prospettiva storica. La sottrazione della dimensione storica alla filosofia la rende supporto ideologico della scuola “riformata”, e riduce la filosofia ad analisi e giustificazione del presente; un’impostazione ideologica non dissimile da quella del pedagogismo e che, non a caso, Gert Biesta ha posto in relazione proprio con lo svilupparsi egemonico della filosofia analitica. Non sorprende allora che Mugnai difenda metodologie didattiche quali il debate e la flipped classroom, che si guarda bene però dal descrivere nella loro effettiva operatività.
Sarebbe opportuno che la scuola venga tenuta fuori da questo confronto tutto interno al mondo accademico e che i docenti delle superiori respingano i diversi tentativi di condizionarla, da parte di chi non ne conosce le dinamiche interne.
1 L’Autore imputa alla scansione storicista il mancato confronto dello studente con il testo filosofico; una lettura integrale di alcuni classici dovrebbe, tra le altre cose, sostituire il manuale. Ma se torniamo indietro a trent’anni fa, non solo era abitudine la lettura integrali dei testi, ma ampio spazio avevano le pubblicazioni antologiche, che spesso sostituivano quelle manualistiche. Si pensi alla storica antologia curata da Carlo Sini per la Principato, ai tre volumi La Filosofia attraverso i testi (Tornatore, Polizzi, Ruffaldi, per la Löscher), a La Biblioteca dei Filosofi, di Gabbiadini, Manzoni (Marietti), e all’esperimento dei tre ponderosi volumi antologici a firma di Abbagnano-Fornero per la Paravia, o di Salvatore Veca per la Bompiani. In entrambe le nuove edizioni dei testi di questi autori, le sezioni antologiche, non più autonome, non superano, per ciascun brano, la pagina, comprensive di superflue guide alla lettura. Ci sarebbe da domandarsi del perché di questa trasformazione, che non riguarda certo solo la filosofia. Ma l’Autore non lo fa, dando per scontata una continuità inesistente, e una responsabilità dell’approccio storicistico tutta da dimostrare.
2 «L’adozione di un manuale sistematico al posto del manuale tradizionale, basato su una narrazione storica, richiederebbe […] un notevole sforzo didattico da parte dei docenti. Per molti ciò significherebbe ripensare non solo il modo di insegnare filosofia, ma anche, per così dire, ricalibrare il proprio rapporto con la materia».
3 «Mi sembra ovvio che un aggiornamento del genere non potrebbe essere affidato alle sole forze e all’iniziativa privata dei singoli docenti. C’è poi da considerare il fatto che gli insegnanti, abituati a concepire lo studio della filosofia quasi esclusivamente dal punto di vista storico, con ogni probabilità cercherebbero di difendere l’insegnamento attuale, di contro a quello sistematico. Vale a dire che potrebbe venire proprio dal fronte degli insegnanti la maggiore resistenza all’adozione di un manuale sistematico. Eppure, il passo prima o poi dovrà essere compiuto, se si vuol dare alla filosofia la
dignità che le spetta […].» Un linguaggio analogo a quello di molti documenti ministeriali, dove non si concede al docente autonomia di giudizio intellettuale.
4 «Malgrado il male che si può dire della scuola italiana, una cosa è comunque certa: i giovani italiani che escono ai Licei sono in media sono i più preparati in filosofia di tutti gli altri di tutte le altre nazioni. Me lo hanno detto alcuni colleghi stranieri che hanno avuto contatti con gli studenti italiani e sono molto stupiti».
5 Riporto alcuni link dove si mostra come, la maggiorparte dei pochi dipartimenti di Filosofia ancora esistenti in Germania,
siano affidati per lo più a studiosi italiani, a riprova che, per garantire l’autonomia della disciplina,è più facile individuare chi si è formato secondo i criteri didattici diffusi nel nostro paese.
6 «Immagino le difficoltà che potrebbe incontrare un docente laureato, poniamo, sul pensiero di Giordano Bruno, che dovesse insegnare etica o epistemologia con la necessità che ciò comporta di documentarsi sugli sviluppi contemporanei delle due discipline». Riteniamo invece che uno studio dell’etica di Platone, o di Aristotele, o la riflessione sulla stessa personalità intellettuale di Giordano Bruno, sia in grado di suscitare problemi etici di assoluta attualità; e che uno studioso di Giordano Bruno sappia affrontare tematiche relative alla filosofia contemporanea.