Serenissima, inquieta
E’ assai intrigante il titolo del libro di Claudia Pingaro, Serenissima, inquieta (Aracne editrice 2018, pp.166). Intrigante perché l’associazione dei due attributi rappresenta bene l’apparente ossimoro della politica internazionale di Venezia durante la seconda metà del Cinquecento, oggetto della ricerca.
La Repubblica serenissima allude alla solidità delle sue istituzioni, al mito politico internazionale del “governo misto”, che nasce quasi contemporaneo all’egemonia del sistema imperiale spagnolo nell’età di Filippo II come suo contraltare, per così dire, e si consolida nell’epoca della resistibile ascesa del colosso dai piedi d’argilla durante il XVII secolo. Ma la Repubblica inquieta allude, al tempo stesso, alla costruzione di un difficile equilibrio nelle relazioni politiche internazionali.
Venezia è, per la sua stessa storia e per la sua condizione di “repubblica nata sul mare”, condannata ad una politica estera bifronte che deve guardare insieme a Occidente e a Oriente. Guardare ad Occidente significa per la Serenissima essere parte integrante di quella civiltà cristiana che deve contrastare la penetrazione della civiltà ottomana nel Mediterraneo: Da questo punto di vista l’alleanza con la Spagna di Filippo II e l’entrata nella Lega Santa sono scelte obbligate. Ma la difesa degli interessi commerciali spinge Venezia, due anni dopo Lepanto, a siglare la pace separata con la Porta ottomana.
Pagine illuminanti dedica la Pingaro proprio al trattato del 1573. Esso non regola solo le questioni relative alla spartizione dei territori, ma interviene sulla tutela dei rapporti commerciali e definisce le modalità per procurare ai mercanti la libera prosecuzione dei traffici. L’autrice distingue l’eco che il trattato suscita presso alcuni settori della Serenissima e altri Stati europei dal senso più profondo e complesso di esso. Alle reazioni che considerano punitive per Venezia le condizioni stabilite dalla pace del 1573 “pur di assicurarsi la continuità nei rapporti economici con la Porta e il controllo dei propri territori levantini”, l’autrice contrappone la contestualizzazione del trattato entro una lungimirante politica decisionale di più ampio respiro, attuata dalla Repubblica. Venezia perde Cipro, paga un tributo di oltre 300mila ducati, ma conserva Creta, importantissima piazza commerciale, la roccaforte strategica di Cattaro, l’isola ionica di Corfù. I vantaggi sono notevoli: la fine dell’economia di guerra, il riavvio delle attività commerciali con gli Ottomani e la liberazione dei traffici. “La pace con il Turco – scrive la Pingaro – consentiva a Venezia di effettuare la ricognizione del proprio patrimonio territoriale che, tra costi e benefici, riusciva ancora a garantire allo Stato la possibilità di azione verso Oriente e a mantenere aperto il dialogo con la Porta”.
L’intesa con Murad III si iscrive dunque nella storia di lunga durata dei rapporti tra Oriente ottomano e Venezia: rapporti caratterizzati da contrasti latenti e guerre aperte, contrapposizioni religiose, divergenze e contaminazioni culturali, apparentamenti e separazioni. Ma quei rapporti “non si interruppero e il legame secolare tra la Serenissima e la Porta trovò un’ulteriore conferma nell’intesa che Murad III decise di rinnovare nel 1575”.
Serenissima e inquieta dunque è quella Venezia che alcuni decenni dopo, agli occhi di Traiano Boccalini, si presenta, col suo pacifismo e le sue “libertà”, come il mito positivo da contrapporre al mito negativo della politica imperiale e bellicista della Spagna.