Sgarbi vs Di Matteo. L’antimafia: tra santi e falsi dei
Per coloro i quali risultassero interdetti dalle recenti affermazioni dell’assessore regionale ai Beni culturali in Sicilia Vittorio Sgarbi, il quale ha attaccato pesantemente il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Nino Di Matteo, si può far notare come questo non sia altro che l’ennesimo capitolo di una polemica che va avanti da decenni. E parliamo della polemica circa l’uso strumentale che si è fatto e si continuerebbe a fare della lotta antimafia. Oggi come ieri, coloro che a vario titolo hanno condotto una lotta alla criminalità organizzata, si vedono bersaglio di pesanti accuse di strumentalizzazione, di essere stati in qualche modo premiati o innalzati agli onori della gloria per il semplice fatto di svolgere il proprio dovere. Un nome tra tutti è quello di Borsellino, che nel lontano 1987 venne accusato da Leonardo Sciascia di aver fatto carriera proprio in virtù della sua maggiore visibilità dovuta all’attività nel pool antimafia.
Ponendo in secondo piano la considerazione che, a volte, in date circostanze segnate dal costante pericolo per se stessi e per i proprio cari, dall’annullamento privato e pubblico della propria individualità ai fini del perseguimento di un bene collettivo, il semplice svolgere il proprio dovere sia e debba essere motivo di encomio e di lode, proviamo a ragionare sul perché oggi sia diventato così difficile potersi fidare della parola antimafia.
C’è stato un tempo in cui pronunciare questa parola voleva dire schierarsi dalla parte del giusto contro il crimine, contro la violenza. Un tempo in cui, dirsi antimafiosi comportava esclusione sociale nel più fortunato dei casi, morte in quelli più gravi. Basti pensare a quell’elenco tristemente lungo di persone che, a vario titolo, sono state fatte bersaglio della mafia e ne hanno pagato lo scotto. Dai nomi più noti: Falcone, Borsellino, La Torre, Impastato, Dalla Chiesa, Grassi, a quelli meno noti, in qualche modo passati in secondo piano, di tutti gli agenti, magistrati, pubblici impiegati, o semplici cittadini che hanno denunciato e osteggiato la mafia. Ricostruzioni storiche ipotizzano tra 5000 e 6000 il numero di morti “per mafia” negli anni tra il ‘75 e il ‘92.
Oggi, dopo anni terribili in cui il nostro paese è stato dilaniato dalla violenza mafiosa, possiamo dire che tutto questo è cambiato. E per fortuna!
Quello che però lascia l’amaro in bocca e che, giustamente da adito a polemiche molto aspre, è il fatto che la situazione si sia sostanzialmente ribaltata. Grazie al prestigio e alla dignità sociale che la lotta antimafia ha garantito ai suoi protagonisti nel corso degli anni, dirsi antimafiosi ha assunto nel corso del tempo sempre più connotati di prestigio, fino alla situazione paradossale che bastava autoproclamarsi tali per poter godere di una serie di privilegi sociali e mediatici che difficilmente si sarebbero ottenuti diversamente. Si è quindi fatto un uso strumentale di questa parola anche a fini personali. Ciò è innegabile.
Come sempre, però, occorre guardarsi bene dal generalizzare. Se è pur vero che ci sono stati casi in cui fregiarsi del titolo di antimafiosi ha facilitato carriere politiche ed istituzionali, rimane il dato di fatto che esiste una maggioranza di persone legate indissolubilmente ai principi che questa parola porta con sé, persone che meritano rispetto e onore. Attaccare queste persone e screditarle agli occhi dell’opinione pubblica può minarne pesantemente l’operato, mettendone a rischio il lavoro e, a volte, anche l’incolumità.