Sharper 2019: Notte Europea dei Ricercatori a Palermo
L’università di Palermo ha partecipato, venerdì 27 settembre, alla “Notte Europea dei Ricercatori” dedicata quest’anno al clima e al patrimonio culturale: un evento complesso che ha visto la partecipazione di almeno 200 ricercatori e circa 70 manifestazioni che hanno avuto, come polo centrale, il complesso monumentale del Palazzo Chiaramonte, sede del Rettorato, e come proiezione sulla città, le altre sedi del Sistema Museale di Ateneo.
Avremmo voluto dedicare più pagine di Clio agli eventi programmati e svolti nella notte di venerdì ma, non essendo possibile, abbiamo acceso i nostri riflettori sull’evento dal titolo Inquisitori in cerca d’autore, organizzato dal Dipartimento Culture e Società dell’Ateneo di Palermo con la fattiva collaborazione dei docenti di storia moderna del suddetto dipartimento Nicola Cusumano, Fabrizio D’Avenia e Daniele Palermo.
Un evento collegato al fatto che Palazzo Chiaramonte è stata la sede dell’Inquisizione spagnola in Sicilia e ora è diventato la Dimora del Rettorato dell’Università di Palermo. Quindi un evento dedicato ad illustrare un momento importante della storia del complesso monumentale.
Gli storici palermitani in questa notte hanno riportato in vita con le loro parole le biografie degli inquisitori:
Luis de Páramo (1586-1608) al quale si deve la costruzione della leyenda negra;
Diego García de Trasmiera (1634-1654) protagonista della gestione della rivolta del 1647;
Salvatore Ventimiglia (1776-1782) protagonista dell’abolizione del Sant’Uffizio spagnolo.
Obiettivo è stato quello di superare gli stereotipi che tradizionalmente si attribuiscono all’Inquisizione.
Fabrizio D’Avenia, docente di storia moderna e di storia della Chiesa in età moderna, ha introdotto l’evento delineando la storia de tribunale della Santa Inquisizione, su come funzionasse e sui conflitti che si ebbero tra le tre inquisizioni (romana, spagnola e portoghese) riguardo competenze e giurisdizioni. Successivamente ha focalizzato la sua attenzione su Luis de Páramo, inquisitore in Sicilia al quale Voltaire dedica una riflessione nel Dizionario Filosofico. Perché proprio Páramo? La risposta è semplice nella sua opera dal titolo De origine et progressu Officii Sanctae Inquisitionis (1598) ricostruisce in maniera sistematica la storia dell’inquisizione dalla sua fondazione ai suoi giorni. Luis de Páramo afferma che l’Inquisizione sia un organo necessario, le cui origini risalgono alla Genesi e che sia stata la società di quel periodo a creare la Santa Inquisizione e non il contrario; se noi isolassimo Páramo e la sua opera dal suo tempo avrebbe ragione Voltaire.
Il secondo inquisitore che viene analizzato dal Prof. Daniele Palermo, docente di Istituzioni di storia moderna, è Diego García de Trasmiera. Egli fu inquisitore presso la città di Valencia e successivamente per un ventennio Inquisitore Supremo del Regno di Sicilia, anni politicamente difficili in cui si andò a incrinare la fedeltà nei confronti del re di Spagna. Nella primavera del 1647 la mancanza di grano e dunque la difficoltà a panificare, la scarsità di denaro dovuta dall’obbligo del Regno nel finanziare le guerre, avevano determinato lo scoppio di una rivolta a Palermo. Durante questo momento di difficoltà, Diego García de Trasmiera era in mezzo alla folla, che era formata da membri delle maestranze. La rivolta, che costrinse a fuggire il viceré, venne capeggiata da un capopopolo di nome Giuseppe d’Alesi, il quale decise di creare un nuovo ordine insieme ai membri delle maestranze e ai giurati della città, ma Trasmiera non stette a guardare passivamente, riuscendo – tramite le sue capacità di mediatore e persuasore- a influenzare il capopopolo, diventando il burattinaio non solo del suo fallimento e in seguito della sua esecuzione, ma anche l’artefice del ripristino del precedente ordine all’interno della città di Palermo.
Il Prof. Nicola Cusumano, docente di storia moderna e storia dell’Europa moderna, ha raccontato il “canto del cigno” del Sant’Uffizio a Palermo e la figura dell’inquisitore Salvatore Ventimiglia. Il Settecento, con il Secolo dei Lumi, rappresenta un’epoca di svolta nei confronti di istituti, che sono stati il retaggio di un passato caliginoso e torrido da cui bisogna prendere le distanze. Portatori di questa svolta sono i Lumi, tra i quali c’è il già citato Voltaire, che vogliono liberare la società dalla superstizione che ha a che fare con le religioni rivelate, ebraismo e cristianesimo in testa.
L’inquisizione – scrive Voltaire nel Dizionario Filosofico – è come si sa l’invenzione ammirevole del tutto cristiana per rendere più potente il papa e i monaci e per rendere rendere ipocrita tutto un regno. Si considera di solito san Domenico come primo cui si debba questa santa istituzione. Sebbene Domenico sia il vero fondatore, tuttavia Luis de Páramo, uno dei più rispettabili scrittori e dei più brillanti luminari del Santo Uffizio, riferisce, al titolo terzo del suo secondo libro, che Dio fu il primo istitutore del Santo Uffizio, e che esercitò il potere dei frati predicatori contro Adamo. Gli abiti in pelle – dice Voltaire – che Dio fece ad Adamo ed Eva furono il modello del saio che il Sant’Uffizio fa portare agli eretici. E vero che questo argomento prova che Dio fu il primo sarto, ma non è meno evidente che fu il primo inquisitore. Voltaire aggiunge sottolineando come un figlio può denunciare suo padre e di come una moglie può denunciare il marito, definite persone più infami, ma anche che non si è mai messi a confronto con i propri accusatori e i beni sono confiscati a profitto dei giudici, così almeno l’Inquisizione si è comportata sino ai nostri giorni. Assumendo dei toni provvidenziali, conclude Voltaire vi è in ciò qualcosa di divino, perché è incomprensibile che gli uomini abbiano sopportato pazientemente questo gioco.
L’anno successivo al Dizionario Filosofico, Ippolito Pindemonte fece la stessa riflessione trattando il tema della stregoneria e della caccia alle streghe, questa premessa servì a Pindemonte per far notare come l’Inquisizione ormai fosse un’istituzione inadeguata per i tempi come dimostravano il Codice Penale Giuseppino (1787), emanato dall’imperatore asburgico Giuseppe II, o un anno prima l’abolizione della tortura nella Toscana di Pietro Leopoldo. Tale premessa è necessaria per introdurre l’abolizione dell’Inquisizione in Sicilia, che cambia “padroni” per tre volte: nel 1713 con la fine della Guerra di Successione Spagnola, la Sicilia passa in mano sabauda fino al 1720, momento in cui la Sicilia diventa austriaca, e in cui il tribunale era sotto la direzione di due inquisitori spagnoli che volevano snellire i processi che languivano. In questa fase per l’esattezza nel 1724, due furono i processi più importanti: il processo a suor Gertrude e a frate Romualdo, che vennero descritti da Antonio Mongitore.
Nel 1734, la Sicilia passa nelle mani dei Borboni. Ferdinando di Borbone, figlio di Carlo III di Borbone, sposa Maria Carolina d’Asburgo – sorella della regina decapitata durante la Rivoluzione francese Maria Antonietta – così da aprire le porte della corte agli austriaci. Maria Carolina, una volta giubilato Bernardo Tanucci – primo ministro del re – cercò di consolidare il peso degli austriaci a corte grazie al varo di riforme che avevano lo scopo di modernizzare la macchina statale. Tra queste vi fu l’espulsione dei gesuiti nel 1767 e l’abolizione del Tribunale dell’Inquisizione a cui si arriva per opera non solo per mano del viceré, che è un illuminista, ma anche per mano dell’ultimo inquisitore. Nel 1780 re Ferdinando doveva nominare i due inquisitori provinciali, ma non lo fa. Questa misura fu propedeutico per l’abolizione dell’Inquisizione, si sparse la voce sul rischio dell’abolizione e il senato di Palermo si schiero contro la ventilata abolizione affermando che si sarebbe creato uno sconquasso, poiché molti siciliani trovavano il loro decente sostegno molte famiglie, anche illustri, persone ecclesiastiche e di riguardo, cioè esplicitava sostanzialmente il sistema di connivenza sia delle elites urbane sia del ceto ecclesiastico all’interno del tribunale inquisitoriale.
Il viceré che si occupò di portare a termine questa operazione è Caracciolo, arrivato a Palermo nel 1781 con la fama di essere un francesizzato, ovvero un illuminista, egli volle modernizzare il più possibile lo stato. Nel 1782 l’Inquisizione venne abolita. Quando il tribunale venne represso, Caracciolo scrisse una lettera a d’Alembert, che il viceré aveva conosciuto a Parigi, in cui disse che aveva soppresso il terribile mostro. La soppressione fu ovviamente favorita non solo da Caracciolo, ma anche dallo stesso Ventimiglia, che nonostante fosse un ecclesiastico – vescovo di Catania e Rettore dell’Università- era anche un massone e nella sua casa aveva tutta la produzione filosofica coeva, quindi libri proibiti, che legge e commenta con i suoi sodali in tarda sera nel suo studio. L’abolizione portò a delle riforme dei processi, presieduti dai vescovi. Tali riforme prevedevano che gli imputati dovevano stare in carcere insieme agli altri detenuti e che potevano comunicare con il proprio avvocato.
Caracciolo decise, come noto, di celebrare l’abolizione dell’Inquisizione con un rogo dando l’ordine di bruciare l’archivio che conteneva non solo la memoria del tribunale, ma anche della sua rete di conniventi.
Una notte trascorsa nel palazzo del Tribunale della Santa Inquisizione per cercare di capire che cosa sia la realtà dell’Inquisizione oltre al solito stereotipo della leggenda nera, dei roghi e della caccia alle streghe.