“L’istruttore? È un educatore. Sempre”.
All’indomani dei fatti di Colleferro tre istruttori raccontano il mondo degli sport da combattimento: “i violenti sono mele marce”
Alessandro Grasso, palermitano classe 1973, pratica sport da combattimento da quando aveva 19 anni e oggi insegna kickboxing nelle sue numerose varianti. La sua esperienza parte dal karate, approdando successivamente agli sport da combattimento.
Tutte discipline evolutesi a partire dalle arti marziali e diventate attività agonistiche riconosciute al pari della boxe. Come per il pugilato, lo sbocco naturale per i praticanti del settore risiede nelle competizioni sportive, codificate e regolamentate da federazioni, esattamente come qualsiasi altro sport. Dopotutto, Alessandro tiene a sottolineare come il termine “disciplina”, associato anche e soprattutto agli sport da combattimento, risulti antitetico al concetto stesso di violenza gratuita.
Una precisazione che non dovrebbe essere necessaria se i tragici fatti di Colleferro non avessero gettato un’ombra su queto tipo di attività sportive e sulle palestre in cui vengono insegnate e praticate. Fatti di estrema violenza – come quelli avvenuti nei giorni scorsi e costati la vita al giovane Willy Monteiro Duarte, massacrato di botte da un gruppetto di bulli – hanno portato l’opinione pubblica e la politica ad attaccare (a volta indiscriminatamente) un mondo che invece svolge da anni un ruolo di collante sociale.
In particolare nelle periferie dei maggiori centri urbani, sottraendo spesso i ragazzi dalle mani della criminalità. Le mele marce esistono, ovviamente. Ma ci è sembrato giusto capire meglio questa realtà, parlando con maestri e istruttori che appartengano, come Alessandro, al mondo dei centri sportivi specializzati in queste discipline.
“L’aspetto marziale degli sport da contatto è di per sé educativo. La risposta oss, usata dai miei allievi al saluto iniziale della lezione, vuol dire: sono pronto a imparare e sono pronto a impegnarmi. È un metodo per focalizzare l’attenzione e concentrarsi sulla lezione, lasciando fuori i problemi di tutti i giorni per divertirsi insieme. Io ho cominciato quando avevo 19 anni e oggi ne ho 47.
In palestra, nell’ambito degli sport da contatto, non mi è mai capitato di alzare un dito su una persona al di fuori di una manifestazione sportiva. La stessa cosa posso dire delle persone cui insegno, un team cui ho dato il nome di Bandha, dal sanscrito tenere unito. Questo per far capire come il target della disciplina sportiva sia principalmente aggregativo”.
Quella della palestra (nell’accezione sana del termine) è una dimensione familiare, un cerchio che unisce persone provenienti da vari contesti sociali. Un luogo in cui le differenze non esistono, nel quale prendono corpo interazioni tra persone che magari al di fuori di quell’ambiente neanche si parlerebbero. In questo contesto molti riescono invece a fare amicizia, trasponendo poi i rapporti oltre il contesto sportivo: questo per me vuol dire aggregazione, vuol dire stare insieme.
“Una componente importante e necessaria di ogni sport, che va costantemente portata avanti e valorizzata. Tuttavia, con l’età – afferma Grasso – ho imparato come non ci sia sempre speranza per tutti. Esiste gente cattiva dentro, persone che devi necessariamente lasciare andare affinché un singolo elemento negativo non danneggi il resto del gruppo. Il dovere dell’istruttore è capire quando non si può aiutare una determinata persona, e allontanarla per il bene degli altri.
Proprio in riferimento ai fatti di cronaca accaduto negli giorni scorsi, nonostante non spetti a me giudicare il lavoro altrui senza conoscere i soggetti, credo il maestro dei supposti colpevoli debba porsi qualche domanda sul proprio operato. Resta pur vero alcuni elementi siano irrecuperabili, anche per strutture come le palestre, che da sempre hanno rappresentato un aiuto per i ragazzi meno fortunati, salvandoli dalla strada e forgiandone il carattere.
Più che un posto da evitare, la palestra è un luogo da consigliare ai ragazzi, un luogo di assoluta normalità in cui divertirsi e crescere interiormente. Per esempio, mia figlia di nove anni pratica già capoeira e kickboxing: non la porterei mai in palestra se ritenessi fosse un luogo per lei rischioso, anzi al contrario, visti i tempi che corrono mi fa piacere impari a difendersi in modo controllato e sicuro”.
Un’altra voce qualificata nel campo degli sport da combattimento è quella di Benny Cannata.
L’ex pugile palermitano, classe 1980, diventato nel 2013 un professionista di livello internazionale, parla della boxe come di una passione diventata negli anni un lavoro. Cannata gestisce la propria palestra da tredici anni, da quando era ancora un pugile dilettante, vivendo quotidianamente il lato commerciale, oltre a quello agonistico, di un’attività legata agli sport da combattimento.
Lui per primo passa con gli allievi la maggior parte del proprio tempo e racconta come la maggior parte dei suoi clienti si approcci alle discipline di contatto non per agonismo, bensì per divertimento.
“Tra i frequentatori della palestra ci sono persone diverse tra loro per età, sesso, estrazione sociale e molti altri fattori – osserva Cannata – accomunati però dalla volontà di combattere la quotidianità, di tenersi allenati per superare i propri limiti. Qui noi ci occupiamo principalmente del benessere fisico della gente, ma non tralasciamo mai la componente morale e psicologica. Soprattutto, forgiamo quei ragazzi che trovano nello sport quel benessere, mentale oltre che fisico, che non trovano altrove. La palestra è aggregazione. Qui dentro non c’è colore, razza o età e siamo i primi a dover educare al rispetto per gli altri chi si allena con noi. La palestra è educazione, sta all’istruttore parlare con i ragazzi che entrano qui dentro, per capire con chi abbiamo a che fare, valutando se la persona sia adatta ad imparare e come spiegare al meglio ciò che insegniamo”.
Anche per Cannata l’istruttore è un educatore, il cui compito è trasmette come tutto parta dall’umiltà di apprendere.
“Tuttavia – prosegue lo sportivo – a volte anche noi falliamo, perché quando c’è del marcio in una persona non puoi farci nulla. Alcuni personaggi non possono essere educati al controllo. Lo sport insegna il rispetto per le regole e la boxe in particolare a superare i propri limiti. Niente a che fare con la la violenza gratuita o con la ferocia. Anzi, il pugile impara l’importanza del controllo e dello sfidare solo chi gli è pari o superiore”.
Infine l’opinione di Daniele Nicoletti, da quindi anni autista soccorritore del 118 e maestro di kickboxing, disciplina che pratica da venticinque anni. La sua voce è quella di chi ritiene doveroso ed al contempo imbarazzante doversi discostare degli eventi di Colleferro. Perché le azioni di questi individui violenti – che non sarebbero dovuti entrare in una palestra di arti marziali, tanto meno in una dove si pratichino discipline da combattimento – ha gettato discredito su tutto il settore, dagli appassionati ai professionisti di queste discipline. Un danno di immagine, generato anche dal proliferare dei commenti impazziti sui social, che oscura l’importanza formativa di questi sport.
Il punto di vista di Daniele è critico soprattutto in relazione alla proliferazione indiscriminato dei “maestri” nel settore delle MMA, ossia le mixed martial arts, nate come competizione nell’ambito di un regolamento sportivo dedicato agli atleti desiderosi di praticare una forma lotta completa. Essendo questo stile di combattimento composto dall’unione di tecniche appartenenti a numerose discipline diverse (pugilato, judo, pancratio, kickboxing e molte altre) necessita di palestre in cui sia possibile allenarsi per singola disciplina. Tuttavia, che possano esistere molti singoli istruttori talmente specializzati risulta difficile.
I dubbi di Daniele vertono proprio sui maestri improvvisati, che probabilmente non trasmettono agli allievi la necessaria componente marziale, tralasciando il metodo e la disciplina in favore della pratica agonistica. Purtroppo, stando alle parole di Nicoletti, questo fenomeno deriva da una semplice legge di mercato: il praticante genera la palestra che crea il maestro, in un proliferare incontrollato di attribuzioni spesso non certificate dalle federazioni del settore.
Tuttavia è bene chiarire come la tendenza alla spettacolarizzazione abbia alterato la percezione dello sport da combattimento da parte del pubblico, compresa quella degli aspiranti praticanti, avvicinandola a maggiormente a quella del wrestling rispetto alla boxe.