Invisibili ma indispensabili: in Italia fare l’artista non è considerato un mestiere
I lavoratori dello spettacolo proclamano lo stato di agitazione permanente e lanciano un messaggio alle istituzioni con lo slogan #convocatecidalvivo
Sono abituati a stare sotto i riflettori ma adesso si sentono invisibili più che mai. Sono lavoratrici e lavoratori dello spettacolo e della cultura italiana: chiedono un dialogo con le istituzioni da cui non hanno ancora avuto risposta.
Quella della tutela del comparto artistico è una questione aperta da tempo e mai risolta. Nella fase di ripresa post lockdown, però, tutti i nodi sono venuti al pettine, anche nel mondo della cultura. Le disposizioni legislative, infatti, si sono manifestate in tutta la loro precarietà e le lacune nell’attuale sistema di regolazione dei rapporti di lavoro non hanno retto il colpo.
«Lavoriamo nel mondo dell’arte ma l’Italia non ci riconosce come lavoratori», afferma il musicista Marco Macaluso, che sottolinea quanto il professionista non viva solo di esibizioni ma di mesi di prove e studio prima di uno spettacolo, non pagati.
Nei giorni così scorsi hanno invaso ben tredici piazze italiane, da nord a sud e nel rispetto delle norme del distanziamento sociale, portando in strada la loro protesta e tenendo tra le mani lo strumento da lavoro con cui vanno in scena.
Con le spalle rivolte al teatro Massimo e al ritmo di un un tamburo incalzante, il silenzio tagliente degli artisti in protesta ha lanciato un messaggio chiaro alle istituzioni con lo slogan #convocatecidalvivo.
Hanno intonato “Bella ciao” come segno di resistenza nei confronti di un sistema che non li considera lavoratori ma solo artisti ad esibizione. Sotto il sole cocente di Palermo, anche piazza Verdi si è così trasformata in un tappeto di mani svettanti verso il cielo con clave, vestiti d’epoca, spartiti e copioni. Hanno unito le forze in un coordinamento nazionale di realtà, collettivi e movimenti autonomi indipendenti, che si riconoscono negli art. 4, 9 e 33 della Costituzione Italiana, nella cultura etica del lavoro, nei suoi doveri e nei suoi diritti.
Ma sono soprattutto cittadine e i cittadini che hanno fame di cultura.
Secondo quanto dichiarato dal referente del coordinamento territoriale, Mario Barnaba, queste sono le richieste: un reddito di sussistenza che traghetti gli artisti fino alla ripresa regolare dei lavori, la possibilità di potere sedere al tavolo di dialogo con il ministero dei Beni e delle attività culturali per rivedere e riscrivere lo statuto dell’intermittente dello spettacolo e le norme e le tutele per il comparto artistico e culturale, che abbiano come priorità assolute la salute dei lavoratori, i finanziamenti pubblici e gli strumenti di riforma.
Le proposte sul tavolo ci sono, a mancare è il confronto reale con le istituzioni. «Noi non ci siamo solo quando ci propongono i miseri contratti ma esistiamo a prescindere, anche in questo momento in cui veniamo sottopagati, siamo qui ad aspettare un confronto con loro. Sarebbe stato un giusto momento per creare un dialogo tra noi, le grandi produzioni e chi ci governa» ha affermato l’attore Gabriele Cicirello secondo cui la sensazione di isolamento verte su un doppio livello: sia con i teatri che a livello istituzionale politico.
Lo stato di agitazione permanente indetto dai lavoratori dello spettacolo non è soltanto un gruppo di giorni di rivolta e di manifestazione in piazza, ma anche motivo di riflessione per un’intera categoria tanto lodata nel Bel Paese quanto mortificata. Una dimensione lavorativa di fatto socialmente non riconosciuta e che sta trovando adesso la forza unitaria per alzare la voce contro le istituzioni.
La crisi attuale ha solo messo in luce in modo drammatico una debolezza strutturale che è sia culturale che politica, tipicamente italiana. Questo è quanto viene fuori dalla riflessione dell’attore palermitano Gigi Borruso, secondo cui tutta la storia del lavoro dello spettacolo in Italia è caratterizzata dall’arte di arrangiarsi, dal capriccio politico, dalla scarsa competenza sulle questioni dello spettacolo, di assessori e ministri, in una parola da un deficit culturale profondo. Da qui l’eterna fatica per veder rispettati i principi basilari della dignità di questo lavoro, che è un mestiere bellissimo, ma stressante e logorante come tanti altri.
A questo Borruso aggiunge che, al di là dei proclami, non pare che i teatri di prosa pubblici riescano ad assolvere ad uno dei compiti che ci si aspetterebbe da essi: la valorizzazione e il sostegno delle emergenze del territorio, la strutturazione di compagnie stabili, il coraggio di puntare alle nuove proposte. Purtroppo queste istituzioni inseguono a loro volta i principi produttivi imposti dal meccanismo dei contributi pubblici. Ma la cultura, come la scuola, non ha scampo dentro le logiche della produttività. Anche qui servirebbe più coraggio.
In molti Paesi europei come la Francia, continua a spiegare Borruso, il riconoscimento del lavoro di artisti e tecnici dello spettacolo come attività fisiologicamente intermittente, cioè difficilmente stabile, ha creato istituti di protezione e assistenza economica, riconosciuti per tutta la durata della propria carriera, e la messa in campo di organismi che si occupano di curare la formazione e l’aggiornamento continuo degli artisti, che vi hanno accesso, ovviamente – tiene a precisare – gratuitamente.