Cos’è il Commonwealth: il dietro le quinte del colonialismo pacifico
Fra le due guerre mondiali, e soprattutto dopo la crisi del 1929, la Gran Bretagna fu costretta a ripensare al proprio ruolo internazionale ormai tramontato. Nacque così il Commonwealth delle nazioni, alle origini l’escamotage per trasformare la rete dei domini coloniali in una salda integrazione economica con i Paesi d’oltreoceano, oggi un’associazione che promuove i diritti umani e lo sviluppo economico solidale.
Cos’è il Commonwealth?
Il Commonwealth, letteralmente “bene comune”, affonda le sue radici nel vecchio impero britannico. La sua versione in chiave moderna prende le forme di un’associazione volontaria di 54 Stati indipendenti tra Africa, Asia, America, Europa e isole del Pacifico, per un totale di 2,4 miliardi di persone. Ogni Paese, per entrare a farne parte, deve condividere gli obiettivi che il Commonwealth intende promuovere: sviluppo, democrazia e pace.
I valori e i principi ispiratori dell’organizzazione sono espressi negli articoli del Commonwealth Charter che riporta la firma della regina Elisabetta II.
I leader dei Paesi membri partecipano attivamente alla definizione delle politiche e delle priorità del Commonwealth affrontando le questioni cruciali al cosiddetto Commonwealth Heads of Government Meeting (CHOGM), cioè la riunione biennale che riunisce tutti gli Stati consociati. Ciò garantisce che anche i territori più piccoli, indipendentemente dalle dimensioni o dalla ricchezza, abbiano voce in capitolo nell’associazione di cui fanno parte.
Ma è bene non confondere la luce delle stelle con quella delle lampare. Il sistema che ha retto la costituzione del gigante britannico radica le sue origini nelle non troppo antiche smanie di colonialismo che hanno dominato la scacchiera del potere dei grandi imperi fino al 1914. Alla ricerca di popoli da assoggettare secondo usi e costumi del presunto mondo civilizzato, con un unico obiettivo: ricavare ricchezze.
La nascita del Commonwealth
Nel 1931 – quando il governo britannico decise la svalutazione della sterlina e, di conseguenza, fu costretto ad abbandonare il gold standard, cioè lo scambio fisso fra sterlina e oro – i margini per un imperialismo vecchio stile divennero all’improvviso inesistenti. La classe dirigente del Regno Unito pensò allora di limitare i danni della crisi costruendo un sistema di scambi – materie prime contro manufatti e beni finiti- tutto interno ai dominion, cioè gli Stati in semi autonomia, e alle colonie. Il fulcro del sistema era costituito dal Commonwealth.
Allo statuto di Westminster (1931), che ne aveva sancito la nascita, aderirono: Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Irlanda del nord, Terranova. Era un passo importante: la comunità economica sostituiva il primato imperiale; il Commonwealth non era concepito come un’organizzazione gerarchica, ma come una federazione di comunità e Stati e sovrani che si univano sulla base di un’esplicita autonoma volontà.
Il meccanismo funzionò. Le merci e i beni dei Paesi all’interno del sistema erano scambiati liberamente, ma una forte barriera protettiva di dazi li favoriva rispetto a quelli degli Stati. Fu per questo che, successivamente, altre nazioni – dalla Danimarca all’Egitto, dalla Grecia al Giappone, dall’Argentina alla Norvegia – entrarono a far parte del grande scudo forgiato per coprire l’aerea di influenza della sterlina.
Nella conferenza di Ottawa del 1932 la madrepatria, in cambio di materie prime a prezzi contenuti, offriva a dominion e colonie vantaggi commerciali, che avevano per obiettivo la ripresa delle transizioni internazionali e l’integrazione fra i mercati, bruscamente interrotta dalla bufera economica del 1929.
Dietro le quinte del Commonwealth
Si trattava, in realtà, di un modo per continuare lo sfruttamento di vaste aree del globo da parte delle nazioni più sviluppate. Ecco perché è nato il Commonwealth delle Nazioni.
È possibile tracciare una linea temporale dei fatti che ha avuto inizio nel primo Novecento.
La Prima guerra mondiale aveva minato per sempre gli equilibri imperiali. Rispetto alla fase di costruzione degli imperi, il periodo 1918-1939 fu caratterizzato da un assestamento e da un’evoluzione dei rapporti fra potenze e colonie. Non era più possibile negare in linea di principio l’autodeterminazione dei popoli colonizzati. Di qui la necessità, per i colonizzatori, di trovare nuove idee capaci di giustificare l’esistenza dei loro domini.
Già dalla fine dell’Ottocento, i Paesi che gradualmente avevano rivendicato una crescente autonomia dalla madrepatria (i già citati dominion) riuscirono, dopo il primo conflitto mondiale, a trasformarsi in Stati sovrani pur senza rompere il vincolo formale che li legava al Regno Unito.
Alle politiche di conversione forzata da parte dei colonizzatori, sulla cultura e sulla lingua degli autoctoni, si sostituirono politiche di associazione che tendevano a considerare gli imperi come grandi istituzioni internazionali fondate sulla cooperazione economica e sullo scambio culturale. Inoltre, l’amministrazione delle colonie tendeva ad assestarsi intorno a burocrazie bianche e classi dirigenti indigene, utilizzando il linguaggio dell’epoca. Quindi, rispetto alla fase di costruzione degli imperi, in cui militari e avventurieri senza scrupoli erano stati i protagonisti, adesso s’imponeva una normalità fatta di uomini incaricati di preoccuparsi delle infrastrutture, dei servizi, della formazione.
Il Commonwealth e la regina Elisabetta II
Il primo capo del Commonwealth è stato re Giorgio VI; dopo la sua morte, nel 1952, subentrò la regina Elisabetta II, tuttora in carica. Anzi, è stato proprio durante il suo viaggio a Treetops, in Kenya, nel 1952, che Sua Maestà arrivò da giovane principessa e andò via da regina.
La sua prima visita ufficiale durante il Commonwealth tour è stata l’anno successivo, nel 1953, nell’arcipelago delle Bermuda.
La regina più longeva che il Regno Unito abbia mai avuto vanta una lista di viaggi ufficiali che le rende un primato assoluto ma che purtroppo non potranno essere collezionati e visionati in nessun passaporto, considerato che Sua Maestà non lo possiede.
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Gli Stati del Commonwealth
Gli Stati del Commonwealth sono 54, non tutti appartenenti ad ex colonie. Tra gli ultimi Paesi entrati a farne parte si annovera il Rwanda nel 2009.
Ci sono poi:
- Africa: Botswana, Cameroon, Gambia, Ghana, Kenya, Lesotho, Malawi, Mauritius, Mozambico Namibia, Nigeria, Rwanda, Seychelles, Sierra Leone, Sud Africa, Uganda, United Republic of Tanzania, Zambia.
- Asia: Bangladesh, Brunei Darussalam, India, Malaysia, Maldives, Pakistan, Singapore, Sri Lanka.
- Caraibi e America: Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Canada, Dominica, Grenada, Guyana, Jamaica, Saint Lucia, St Kitts and Nevis, St Vincent and The Grenadines, Trinidad and Tobago.
- Europa: Cyprus, Malta, United Kingdom.
- Oceano Pacifico: Australia, Fiji, Kiribati, Nauru, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Samoa, isole Solomon, Tonga, Tuvalu, Vanuatu.
Approfondimenti sul Commonwealth
La società delle nazioni: i mandati A, B e C
La società delle nazioni – sorta nel 1919 con lo scopo di dare al mondo un’organizzazione in grado di evitare di nuovo gli orrori della guerra – prevedeva all’articolo 22 del suo statuto l’istituto del “mandato”. Venivano affidati, in questo modo, ad alcune potenze, territori che la comunità internazionale decideva non potessero governarsi da soli.
C’era il mandato di tipo A, che riguardava i Paesi arabi: essi venivano considerati già in cammino lungo la via dell’autodeterminazione, e quindi bisognosi solo di un aiuto temporaneo. Inglesi e francesi si spartirono quest’area seguendo un patto stretto durante la guerra (accordi Sykes-Picot, 1916): Libano e Siria alla Francia, Iraq Palestina Transgiordania alla Gran Bretagna.
C’era poi il mandato di tipo B, relativo alle ex colonie tedesche in Africa (Camerun, Togo, Tanganica): queste erano collocate su un livello più basso di “maturità” e perciò necessitavano di un’amministrazione più lunga e strutturata da parte della Francia e della Gran Bretagna.
Infine, il mandato di tipo C si applicava a spazi scarsamente popolati, come l’Africa del sud-ovest o le isole del Pacifico che erano state tedesche, in questo caso avveniva l’incorporazione diretta da parte delle potenze mandatarie.
Il regime dei mandati non cancellava il colonialismo. Lo rendeva più accettabile, dipingendolo come una fase di passaggio nel percorso dei popoli verso l’autonomia ma riaffermava, d’altra parte, il ruolo centrale acquisito dalle due principali potenze imperiali del XIX secolo. Alle quali si aggiungeva, in Estremo Oriente, il Giappone.
L’indipendenza dell’India e Gandhi
L’indipendenza dell’India dalla Gran Bretagna, proclamata nel 1947, è stata frutto di un lento processo di affermazione collettiva nella pratica della lotta non violenta e della disobbedienza civile.
Pioniere di questa forma di resistenza è stato Mohandas Karamchand Gandhi, comunemente noto con l’appellativo onorifico di Mahatma, in sanscrito, letteralmente “grande anima”. È passato alla storia il discorso tenuto da Gandhi all’inizio della cosiddetta marcia del sale (20 marzo 1930), ossia la protesta contro la tassa sul sale imposta dall’amministrazione inglese.
Da un breve estratto dei discorsi di Gandhi: “è necessario che non si manifesti neppure una parvenza di violenza anche dopo che noi saremo arrestati. Noi abbiamo fermamente deciso di far ricorso a tutte le nostre risorse per portare avanti una lotta esclusivamente non violenta. Nessuno deve consentire che l’ira lo faccia deviare da questa via. Questa è la mia speranza e la mia preghiera (…)”.