Il legame passato-presente nella Didattica della Storia
Vorrei partire dall’intervento di Francesco Benigno del 29 ottobre – leggi qui l’articolo.
Sono pienamente d’accordo con lui che oggi sembra essersi in qualche modo smarrito il senso del legame tra passato e presente. La caduta dei collanti ideologici e la perdita, soprattutto nelle generazioni più recenti, dei nessi memoriali con orizzonti ‘forti’, siano essi ad esempio le guerre mondiali o il tradizionale sapere contestuale nei diversi mestieri, conducono certamente a una visione del mondo appiattita sul presente. Quanto più quest’ultimo si manifesta come difficilmente intellegibile, saturo di ‘novità dirompenti’, continuamente attraversato dal cambiamento, tanto più il passato appare come una dimensione chiusa, senza rapporto con l’attualità e con gli interessi, le passioni e le pulsioni destinati a forgiare il futuro. Da qui all’avvenuta maldestra abolizione della traccia di Storia per l’esame di maturità il passo è assai breve, compiuto purtroppo da persone che dovrebbero possedere tutt’altra sensibilità.
Le lamentazioni circa questo cambiamento di prospettiva, ovvero di questa rottura ormai consumata nella percezione della continuità costituita dal divenire della civiltà stessa, sono del tutto inutili. Inutile, come scrive giustamente Benigno, soffermarsi solo sulla sacrosanta difesa del valore dell’erudizione e sulla necessità di preservare alcuni campi del sapere. Proprio in quanto storici, non ci possiamo sottrarre alla domanda riguardante il significato e l’utilità della nostra disciplina nel contesto dato, né sottrarci alla sfida che ci propone un cambiamento, che ci appare come epocale, nella mentalità e nella psicologia collettiva.
La risposta motivata che occorra a questo punto assumersi tutta la responsabilità e il rischio di spiegare a tutti il presente, forti della conoscenza del passato e, quindi, di assumerci la totale autonomia delle nostre narrazioni, mi convince, ma solo fino a un certo punto. Entrare in quanto storici e solo come storici nell’agone della cosiddetta Public History è un assunto affascinante, anche se sollecita alcune domande, forse banali: come gestire il rapporto con i mezzi di comunicazione? – come conquistare poi spazi sufficienti di visibilità? – infine, chi detiene il potere ce lo lascerà fare davvero ? Certo, se non ci proviamo sul serio non lo sapremo mai e, sono convinto, ci condannerà inevitabilmente all’irrilevanza culturale.
Ma c’è anche un altro modo di costruire uno spazio d’intervento che intendo con molta decisione segnalare. È quello che passa per la formazione dei cittadini e, quindi, per il sistema pubblico dell’istruzione ossia ancora una volta attraverso la Scuola. Finora l’insegnamento della Storia a scuola ha seguito, fin dal XIX secolo, un principio di ordinamento cronologico-sequenziale basato sulla costruzione di una identità collettività, nazionale prima, europea più di recente. Questo modello prevedeva coerentemente che lo studente acquisisse la semplice conoscenza e magari un po’ di coscienza dei diversi passaggi, snodi e traiettorie che dalle antiche civiltà conducono al mondo moderno e contemporaneo. In questo modo, la Storia finiva per rafforzare esigenze di natura identitaria e di riconoscimento di valori condivisi, più o meno piegata, qualche volta in modo davvero inquietante, a determinanti ideologiche, partitiche o, nel migliore dei casi, squisitamente di politica culturale. Tutto questo è finito per sempre e ciò che oggi rimane nell’opinione pubblica è, caso mai, il gusto per l’episodico e l’eccezionale, per tutto quanto sia sideralmente lontano dalla realtà concreta: il passato come magazzino di eccitanti racconti.
Invece, la Scuola, che non può seguire questa tendenza ludica perché non è il suo compito e perché non riesce a essere accattivante quanto la tv o internet, può ben assumere altre responsabilità riguardo alla Storia. La traccia da seguire è quanto il legislatore europeo e, con esiti finora deludenti, anche quello italiano hanno già in buona parte segnato. Si tratta della costruzione e del consolidamento di quelle competenze chiave necessarie per districarsi nel labirinto della post-modernità e delle post-verità (raccomandazione del Parlamento europeo n. 962 del 18 dicembre 2006 e attuale quadro delle Indicazioni nazionali). In altre parole, la scuola avrebbe oggi il compito di avviare il futuro cittadino a un sapere operativo e non puramente astratto; a insegnargli a coniugare le indispensabili conoscenze teoriche con le capacità di metterle in atto allo scopo di interiorizzarle e quindi di agirle in modo attivo.
La disciplina storica può contribuire a intervenire in questa direzione, con un ruolo che considero centrale, attraverso la reale e capillare diffusione di modalità didattiche diversificate ed esperte volte a recuperare il carattere problematico e i metodi propri del lavoro storiografico. Fare Storia a scuola con metodo laboratoriale o attraverso moduli didattici tematici che implichino procedure di problem solving significa attivare, attraverso metodologie e contenuti propri, sia le competenze in campo digitale («cercare, raccogliere e trattare le informazioni e usarle in modo critico e sistematico»), sia quelle di «consapevolezza del proprio processo di apprendimento e dei propri bisogni», di «comprensione delle dimensioni multiculturali e socio-economiche delle società europee» ovvero di educazione civica, infine di «consapevolezza del retaggio culturale locale, nazionale ed europeo e della sua collocazione nel mondo» (il virgolettato fa riferimento, appunto, alle competenze chiave).
Il compito che in questa direzione ci spetta è, tanto per cambiare, enorme, a partire dal modificare in profondità alcune inveterate nostre abitudini e dal superamento di tanti pregiudizi riguardo alla sequenza dei contenuti, sempre irrinunciabili, e alle pretese (impossibili) di esaustività della Storia insegnata. Riprogettare le modalità di approccio didattico alla disciplina, rivedere in profondità le sue finalità e le sue scansioni, costruire degli strumenti adeguati ai nuovi obiettivi formativi richiede grandi sforzi, tanta abnegazione e, magari, dei mezzi adeguati. Ma lo spazio urgente e affascinante di una nuova educazione storica passa di qui. Per il suo tramite, infine, si può anche sperare di recuperare il senso della continuità che ha finora sorretto la civiltà europea, di invertire la deriva presentista alla quale sembriamo avviati.
E dunque, si può lavorare, ad esempio, partendo da un bene culturale esistente per ricostruirne le fasi genetiche, i cambiamenti avvenuti nel corso del tempo e i diversi significati che questo ha assunto. Oppure modificare o costruire ex-novo voci enciclopediche per Wikipedia, ben documentate attraverso un lavoro di ricerca sui testi storiografici o addirittura su fonti inedite. Si può anche pensare ai laboratori specifici sulla catalogazione di fonti archivistiche o a lavorare sui catasti antichi, alcuni dei quali già messi a disposizione in rete, per riconoscere e comprendere le trasformazioni subite da un dato territorio. Questi e altri sono approcci già sperimentati con soddisfazione nelle nostre scuole e le pratiche dei moduli e dei laboratori didattici di Storia hanno già una loro più che dignitosa veste teorica. Quello che manca è la loro diffusione capillare nel concreto lavoro in classe, come mancano ancora in larga parte i docenti di scuola primaria e secondaria in grado di ‘uscire’ dallo schema (comodo) manuale – interrogazione.
L’impegno che ci riguarda in quanto storici è, prima di tutto, quello di contribuire a validare e a rendere efficaci questo tipo di esperienze didattiche chiamiamole innovative; in secondo luogo possiamo cercare di fornire ai futuri insegnanti e, se possibile, anche a quelli già in servizio un minimo di formazione specifica in termini di didattica disciplinare. In maniera più ambiziosa, si può poi tentare di intervenire attivamente sul curriculum scolastico ministeriale, e di lavorare per la predisposizione di percorsi di ricerca sulla didattica disciplinare e la messa a punto di nuovi strumenti adeguati alle esigenze di cui si è detto. Si tratta senza dubbio di un compito complesso e difficile, credo tuttavia ineludibile, se vogliamo cercare di uscire davvero dal già segnalato processo di marginalizzazione in atto.