La storia come disciplina del presente: il valore sociale dello storico nella società
Il valore della storia nella società contemporanea e il ruolo sociale dello storico
Sulla scia del dibattito aperto dal nostro direttore scientifico Prof. Aurelio Musi, pubblichiamo il contributo del Prof. Francesco Benigno, ordinario di Storia Moderna alla Scuola Normale Superiore di Pisa (n.d.r)
Vorrei provare a intervenire sulla questione del ruolo dello storico nella società e del suo impegno civile. Credo che vi sia una insufficiente consapevolezza tra noi storici della specificità della nostra condizione in questo primo ventennio del XXI secolo. Sento spesso affiorare delle lamentele che convergono su un punto: la perdita di ruolo sociale della professione di storico. Devo dire che vi è in questa affermazione del vero, ma nel complesso si tratta di una constatazione che si mantiene a un livello superficiale, direi quasi epidermico. Essa si accompagna poi spesso a un umore rivendicativo, come di chi si sente incompreso: la società, si sente dire in sostanza, non riconosce più la funzione sociale che possedevamo, quella del giudizio sul passato. Ci disconosce.
Ritengo sia venuto il tempo di capovolgere quest’assunto e di chiederci non cosa la società possa o debba fare per gli storici ma cosa gli storici possano o debbano fare per la società. La risposta per me è chiara: abbandonare una visione della storia come disciplina erudita volta a ricostruire con esattezza il mondo di ieri per com’era, sorta di credenza condivisa che il passato esista di per sé, ovvero di fede in un aldilà del cui racconto una setta di clerici professionali, gli storici, detengono il monopolio. Occorre in altre parole, abbandonare l’idea che gli storici abbiano il diritto di esistere socialmente (ed essere salariati per questo) in virtù del fatto che studiano un mondo altro, antiche società diverse dalle nostre, un passato lontano dove le cose accadono in modo diverso.
Occorre invece abbracciare un’idea diversa: che la storia è una disciplina essenziale alla comprensione del presente.
Intendiamoci: non che la società non riconosca del tutto il valore dell’erudizione scientifica in quanto tale; ci sarà sempre uno spazio per gli storici specialisti di società passate proprio come ne rimarrà sempre per gli studiosi di avestico (antica lingua persiana) o di cetologia (lo studio delle balene) ma sarà uno spazio circoscritto, ridotto. Se vogliamo mantenere l’ambizione di parlare all’opinione pubblica generale dobbiamo essere capaci di spiegare il presente, non solo il passato. O meglio il presente attraverso il passato. Questo si può fare in due modi: per negazione e cioè intervenendo sugli usi distorti del passato che circolano in una sfera pubblica in cui a dire il vero la storia continua ad avere una sua notevole e per certi aspetti crescente importanza; oppure scoprendo dei legami tra passato e presente che, in una molteplicità di modi, gettino luce su caratteristiche dell’oggi che altrimenti risulterebbero incomprensibili. Questa seconda possibilità, certo più difficile, comporta anche il diritto/dovere di proporre narrazioni efficaci.
Ci si potrebbe tuttavia chiedere in proposito: ma perché oggi siamo chiamati a questo nuovo e diverso compito quando per molto tempo esso non ci veniva richiesto? La risposta è a ben vedere alquanto semplice. Fino a poche decadi fa, e sicuramente fino alla caduta del muro di Berlino, i nessi tra passato e presente erano dati, inscritti nelle convinzioni diffuse, nelle ideologie prevalenti, nei sensi collettivi di appartenenza. Non era compito dello storico proporli, facevano parte del paesaggio intellettuale naturalizzato. A un certo punto però si è verificata una cesura, quello che potremmo definire un Sattelzeit, un valico, un punto di passaggio e di mutamento. L’aspetto più evidente del mondo che viviamo – e che non sappiamo come chiamare (se non col termine alquanto debole e un po’ abusato di postmoderno) – è la rottura delle catene di intelligibilità che legavano passato e presente, consentendo così di immaginare, inglobandolo, il futuro. Oggi siamo immersi in ciò che è stato chiamato presentismo: il presente non è solo caratterizzato da novità dirompenti (dalla globalizzazione alla rivoluzione informatica) ma si presenta come auto-generato, frutto di mutamenti in corso di svolgimento, non dipendenti dal passato, svincolato da quelle catene. Questa vulgata contiene indubbie verità ma anche un’esasperata fuga dalla tradizionali modalità di spiegazione del mondo che produce effetti sociali e anche reazioni impreviste, oltre a un diffuso senso di incertezza verso il futuro.
C’è tuttavia uno spazio per intervenire. Sta a noi però decidere se contribuire a spiegare un presente che si è fatto oscuro o se rifugiarci nella nostra torre eburnea. Occorre dimostrare che guardare al passato non è solo un modo per soddisfare legittime curiosità ma che può essere uno strumento indispensabile di comprensione del mondo d’oggi. Occorre dimostrare che la storia serve.